Capitolo 3 - Succo al mirtillo

"Ma che diavolo ci faccio qui?"
Sollevo la testa, restando coi gomiti poggiati alla ringhiera. Eccomi, una stupida ad aspettare uno sconosciuto. "Non verrà mai, quello. È impossibile. Che mi è preso? Forse dovrei andare a studiare letteratura. Sarebbe sicuramente più produttivo per il mio futuro che stare qui ad attendere di ammuffire."

Un sacco di persone fanno jogging armate di iniziativa fino ai denti, spronandosi a continuare a correre. Una volta mi piaceva così tanto: adesso invece non faccio altro che vagabondare il pomeriggio, avendo abbandonato qualsiasi tipo di sport.

"Va bene dai, sono le cinque e quaranta. Non verrà."

Sospiro e mi alzo dalla ringhiera, mentre stiracchio le braccia e mi godo la bella giornata dentro il piccolo parco, dopo tutta quella pioggia. "Almeno ho fatto una passeggiata e preso un po' di sole."
«I raggi UVB e UVA causano cancro alla pelle.»
«AH!» grido, spaventata. Mi volto: seduto proprio dietro di me su una panchina c'è lo Sconosciuto. Indossa una camicia azzurra che fa sembrare ancora più blu i suoi occhi e un paio di jeans, lunghi fino al ginocchio, mostrano i polpacci muscolosi.

E quando dico occhi blu forse non mi spiego bene: al confronto l'oceano è sbiadito e scialbo, la notte è un grigio sporco e senza valore. I capelli neri corvini sono scompigliati, con il ciuffo che gli copre un poco l'occhio sinistro. Finalmente riesco a guardarlo bene in volto: ha dei lineamenti marcati, ma s'intonano alla perfezione con la sua figura.

«Mi hai fatto prendere un colpo! Da dove spunti tu? Ti piace far prendere infarti alla gente? Buon cielo!»

Lui alza le spalle e io rimango interdetta dal suo comportamento.

Questo ragazzo mi incuriosisce oltre ogni cosa. Non so nemmeno io il perché, ma da quando sono caduta in quegli occhi al concerto, è come se fossi stata catapultata in un mondo invisibile che mi ha subito rigettata fuori. Ora che lo guardo bene, è come se avesse costruito un muro, qualcosa di impenetrabile, perennemente celato dietro uno sguardo di ghiaccio. Ma io ho l'impressione che in fondo ci sia qualcosa: l'ho intravista e ho tutta l'intenzione di provare a scoprire cos'è. Eppure, allo stesso tempo mi blocca.

Sta zitto e fermo lì. Mi osserva. Anche se è errato: non mi osserva, mi studia. Mi calcola. Ha uno sguardo che mi scava dentro senza però lasciarmi fare altrettanto.

Mi intimidisce. Cerco di non guardarlo, cosa che mi riesce estremamente difficile. E proprio per questo, mi decido a chiarire: «Senti, per intenderci, io non ho nessuna voglia di perdere tempo. Non chiedermi perché ma sinceramente mi sembravi una persona che valeva la pena conoscere. Magari... magari è stato il destino a farci incontrare. Ma se non vuoi avere a che fare con me, me ne vado anche adesso.»

Rimane impassibile. «Ok. Vattene.» Il suo volto è una maschera, la bocca una riga perfetta.
«Come?»
«Vai via.»

Non pensavo mi prendesse sul serio. Il mio cervello esplode, mentre lui si accende una sigaretta, continuando a guardarmi. Espira e il fumo mi colpisce.
«Ok», dico, annuendo e serrando la mascella, i pugni chiusi lungo i fianchi. «Di certo non me lo farò dire un'altra volta. Addio.»

Mi volto e comincio a camminare. Dove sta scritto che debba farmi trattare così da uno sconosciuto che nemmeno sa chi sono? Ma chi si crede di essere?

"No, non posso finirla così. Proprio no!"

Interrompo bruscamente la mia camminata e decido di tornare indietro. Lui è ancora lì: ne approfitto per dirgliene quattro. «E per la cronaca, ti ho già capito io. Odio le persone strafottenti come te, che si credono una montagna sopra gli altri e credono di poter mangiar loro in testa. Ora torna a farti crollare il mondo ai piedi con uno sguardo, ti renderai conto che non ti porterà a niente.» Non sto neanche a vedere la sua reazione, non mi interessa, mi infastidisce la sua sola presenza: me ne vado.

Durante la strada, cerco di far sbollire la rabbia. Quante emozioni tutte insieme devo sopportare?
Eppure... quel modo di fare, quella bocca così inespressiva, mi ricordano troppo... lui. E la cosa peggiora. Le provo tutte: le cuffiette con la musica a tutto volume, la respirazione, camminare senza meta. Ma nulla funziona. Scuoto il capo e cerco di capire dove mi trovo; mi avvicino a un incrocio per tentare di leggere le indicazioni stradali.

«Andiamo?»
Me lo trovo a fianco, poggiato alla ringhiera della curva, come se niente fosse, con le braccia incrociate. Il vento muove un poco il suo ciuffo di capelli corvini e ho istintivamente un brivido.
«Mi hai seguita?!»
«No, è ché anche io andavo di qua. Dai su, muoviti.»
«Come?» chiedo, scioccata.
Non risponde. Si stacca dalla balaustra e comincia a camminare.
«Sappi che non ti seguirò.»
Indica il bar di fronte. «Ho sete.»
E scompare tra la folla.

«Ciao Doreen. Sono tuo cliente ora, ok?» esordisco alla bionda, appena entrato, mentre sbottono la camicia.
Lei rimane a fissarmi da dietro il bancone del bar per qualche secondo, poi annuisce. Si sposta una ciocca di capelli biondi dal viso e il suo sguardo si concentra sulla ragazza al mio fianco.

La Sconosciuta è rimasta in silenzio fino a quel momento e quanto avrei voluto che ci rimanesse per sempre. Invece, imbronciata, esclama: «Io non voglio niente.» Si nasconde un po' dietro le ciocche rosse.
«Dai. Offro io, ci lavoro qui» le dico, sforzandomi di essere gentile. Decido improvvisamente di sfruttare l'occasione: mi sarei divertito un po'. Mi siedo a un tavolo da due abbastanza lontano dal bancone e finalmente levo la camicia, rimanendo con la maglia a maniche corte. Il caldo mi stava uccidendo.

Lei mi studia un attimo, con circospezione, la fronte aggrottata e gli occhi assottigliati. Poi si siede, incrocia le braccia al petto, ma resta in silenzio. Sto per dirle qualcosa, quando spunta fuori Doreen.
«Cosa desiderate?» Mi lancia un'occhiata prima di squadrare nuovamente la ragazza di fronte a me. Come per dire: "Scusa? Ti porti appresso questa? Bene, ne parliamo dopo ed è una minaccia".
«E va bene. Un tè alla pesca» dice la Sconosciuta, levandosi anche lei il giacchetto bianco. Ora faccio caso a cosa indossa: un vestito fino al ginocchio di pizzo beige e delle Converse dello stesso colore.
Doreen segna, ma non chiede cosa voglio io, lo sa già. Così come io so benissimo che resterà a guardarci e che appena rimetterò piede qui mi aspetterà un bel terzo grado.

La ragazza che ho davanti segue la bionda tornare dietro il bancone con lo sguardo, prima di tornare a concentrarsi sul mio volto. «Lavori qui?»
«È l'unica informazione che avrai su di me.»
Scoppia a ridere, in un modo così spontaneo che mi fa quasi desiderare di farlo anch'io.
«Potrei sempre estorcerti informazioni senza che tu te ne renda conto», dice. Un'atmosfera strana ci circola intorno: quasi riesco a respirare un po' di attrazione, probabilmente la sua nei miei confronti.
Alzo un sopracciglio. «Se pensi di riuscirci parti col piede sbagliato.»

Si stiracchia la schiena e il collo, poi poggia i gomiti sul tavolino e la testa sulle mani. Mi guarda. Ha dei begli occhi verde mare e le ciglia, rese più lunghe dal mascara, li fanno sembrare ancora più grandi. «Mi sto davvero chiedendo che cosa ci faccio qui con te.»
«Sei stata tu a chiedermelo.»
«E tu a venire. E a inseguirmi, nonostante quello che ti ho detto. Sappi che non cambierò idea per questo.»
«Non ti ho inseguita. E lo so che non cambierai idea.»"E va bene così". Comincio a capire il tipo: testarda, orgogliosa, timida, un po' impacciata.

Doreen arriva servendoci le nostre bevande. Non appena se ne va, la Sconosciuta osserva incuriosita il mio bicchiere. «Cos'è?»
«Non te lo dico, niente informazioni, ricordi? Quanti anni hai?»
Ci pensa su qualche secondo. La vedo combattere probabilmente tra il desiderio di parlare e quello di mantenere un certo orgoglio. Si morde il labbro inferiore e alza le sopracciglia prima di chiedere, sorpresa: «Non mi chiedi il mio nome?»
Scrollo le spalle e bevo un sorso dal bicchiere. «È importante?»
«Che domanda è? La prima cosa che chiedi a una persona è il suo nome. Ovvio che è importante.»
«Non sono d'accordo» dico, risoluto; le spunta un sorriso storto sul volto chiaro dalle labbra quasi violacee.
«Ah no? Quindi immagino che il tuo nome non me lo dirai.»
«No. Se vuoi puoi dirmi il tuo.»
«Te lo scordi!» Incrocia le braccia e restiamo per un po' in silenzio.

Si riavvicina al tavolo, bevendo. Poi risponde: «Ho diciotto anni. E questa è l'unica informazione che avrai oggi su di me.» Il solito sorriso allusivo si distende nuovamente sulle sue labbra, mentre gli occhi grandi cercano i miei.
«Oh, ti sbagli» affermo, prendendo un altro sorso. «Ho già capito molte altre cose.»
«Tipo? Sono curiosa.» Posso quasi sentire il calore che emana il suo corpo mentre si agita un po' sullo sgabello.
«Appunto, questa è una. Complimenti» le svelo. Lei sgrana gli occhi e si tappa la bocca con le mani, maledicendosi da sola. Scuote la testa e sospira. Noto che si tocca ogni tanto il naso con un dito.
«Quella cosa che fai col naso... è un tic?», chiedo. La ragazza scuote la testa.
«No no, è la primavera, è il polline, sono un po' allergica. So che è fastidioso.»

Mi accorgo di non trovarlo affatto fastidioso. Anzi, è carina quando lo fa.
Resto in silenzio. Un turbinio di pensieri comincia a frullare nella mia testa. Ha proprio senso divertirmi con questa qui? È palese che lei sia davvero impaziente di scoprire cose sul mio conto, magari diventare amici.

Amici. Chissà, forse potrei anche riuscirci, potrei riuscire a mettere a tacere la bestia per un po'. Potrei evitare che il mio tormento mi consumi e pensare di vivere.
"No", ringhia. Sento la bestia agitarsi nelle parti più recondite del mio corpo — o della mia anima— pronta a balzare fuori, facendosi forte del fatto che sono stato io per primo a nutrirla, a preferirla, per tutti questi anni. E mi dico che quello è il mio futuro. Combattere una battaglia di cui già sai il finale non avrebbe senso, giusto?

Magari per il momento lasciamo correre. Magari per ora va bene così. Posso ancora stare qui a godere un po' di questo scherzo enorme, certo la illuderò e certo ne soffrirà.
È la prima volta che provoco dolore a qualcuno? Ovvio, no.
E allora perché queste domande?

«Perché mi guardi così?», chiede.
Sbatto le palpebre, accorgendomi di essere rimasto a fissarla in silenzio. Scuoto il capo, notando che ha finito di bere il suo tè e faccio per bere l'ultimo sorso dal mio bicchiere, ma lei, velocissima, allunga una mano e me lo ruba, portandoselo alla bocca e terminandone il contenuto.
«Mirtillo, come sospettavo» ammicca, passando la lingua sulle labbra, mentre poggia nuovamente sul tavolo il bicchiere vuoto.

Ci interrompe uno scroscio improvviso.
Fuori comincia a diluviare.
Mi volto verso la finestra: diverse persone sono impegnate a correre davanti la vetrina del bar, riparandosi alla bell'e meglio con le mani o le ventiquattrore.
«Merda, non ho un ombrello!», si lamenta la Sconosciuta; torno a guardarla, trovandola concentrata sulla finestra dietro di me, il volto contratto in una smorfia scocciata.
«Non ti piace proprio, l'acqua», cònstato.
«L'acqua mi piace, ma i diluvi no. E odio bagnarmi con i vestiti addosso. Ti si appiccicano sulla pelle. Bleah» dice, rabbrividendo.
«Non ha nessun senso», insisto e continuo: «Se l'acqua ti piace, anche la pioggia ti piace.»
«Non sono d'accordo» mi imita, aggrottando la fronte e arricciando le labbra, con la mia voce roca. Veramente buffa.
«Spiritosa» concludo, mentre mi alzo e mi infilo di nuovo la camicia. Lei si mette il giacchetto.
«Farti sorridere è un'impresa impossibile, ah?», borbotta.

Faccio finta di non averla sentita e lancio un cenno a Doreen, che capisce al volo. Esco fuori dal bar. La piccola tettoia rossa è l'ultimo porto sicuro prima di finire sotto l'acquazzone. Respiro quell'odore di libertà mista a terra bagnata, case bagnate, cose bagnate. Mi beo di quello spettacolo, mentre la luce di un lampo mi abbaglia; allora comincio a contare. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e il tuono arriva. Otto secondi: vuol dire che è lontanissimo. Se fosse stato un solo secondo, sarebbe stato proprio davanti a me. Una volta mi capitò da bambino: mentre correvo a casa— "Casa?"— dopo scuola, cominciò a piovere a dirotto. Un fulmine cadde proprio sull'albero accanto a me e io guardai in alto: ricordo d'essermi chiesto se il cielo avesse mancato la mira.

A quel punto sento anche la Sconosciuta uscire dalla porta alle mie spalle. Mi riporta al presente, esordendo con: «Non abbiamo pagato! So che lavori qui ma...» prima che possa continuare, la interrompo dicendo: «Stai tranquilla», chiarendo bene che non c'è altro da dire.
Lei però mette il broncio, come una ragazzina. «Non mi piace avere debiti.» Si fruga in tasca. «Tieni.» Mi porge una banconota.
«E a me non piace fare le elemosina. Davvero, non mi serve.»
Lei insiste: «Tieni!» e mi prende la mano.

Con un gesto fulmineo, mi scansa. In un secondo rimango con la mano a mezz'aria e lui si è già ritirato di un metro da me.
Mi fissa. «Non toccarmi.»
Il volto è ancora più scuro di quando eravamo nel bar. Gli occhi che sto guardando sono gelidi: non cattivi ma comunque un lungo brivido mi attraversa la schiena. A cosa devo quella razione così esagerata?

Mi paralizza lì e mi vergogno tantissimo. Abbasso la testa, evitando il suo sguardo. «Scusa», sussurro.

Il suo spostamento è stato un movimento così brusco che mi ha fatto male. Guardo la mia mano: dove mi ha dato lo schiaffo vi è una chiazza rossa. Improvvisamente provo una certa paura nei suoi confronti. Insomma, non lo conosco per niente. Dove è stato il mio buonsenso fino ad ora?
«Meglio che vada. Ciao» dico, non mi esce altro. Comincio a camminare velocemente, buttandomi sotto la pioggia scrosciante. La strada intorno a noi è piena di macchine che suonano i clacson a non finire, ferme in coda per via del temporale. I taxi gialli spiccano nel grigiore della città: mi asciugo gli occhi con stizza e continuo a camminare, evitando le pozzanghere più grandi sul marciapiede.

Ma lo Sconosciuto mi segue: a un certo punto mi sorpassa e mi si para davanti, impedendomi di passare. «Aspetta, aspetta, io... davvero, scusa.»
Mentre gocce di pioggia si incastrano fra le mie ciglia, a fatica cerco di guardarlo in viso.
È impassibile, non ha nessuna traccia di espressione sul volto. Non ho idea di cosa stia provando, non ho idea di quello che stia pensando, ma la cosa mi coinvolge molto più di quanto vorrei.
"Questo non va bene, Håbe, no, non va bene: vattene finché sei in tempo. Lo sai come sono fatte le persone come lui. Averci a che fare fa solo male."
«Sì, ok. Adesso però ciao» dico, superandolo; non mi va di sentirmi di nuovo come qualche tempo fa. Mi accorgo che mi trema la voce e spero che lui non se ne sia accorto.

Continua a seguirmi, spalla contro spalla, per un po'. Prima se ne sta in silenzio, poi mi domanda: «Casa tua è molto distante?»
Mi ricordo improvvisamente di non sapere dove sono. Mi fermo, riconosco la via principale e un negozio che visitai con mia madre tempo prima. «Qualche chilometro», calcolo. Non voglio guardarlo. Non voglio parlargli. Voglio solo andare via. «Non ti preoccupare, vado da sola.»
«No, senti... Io abito qui. Puoi venire un attimo da me mentre aspetti che passi questo temporale. Tra poco diventerà grandine, guarda quelle nuvole laggiù.» Indica proprio verso casa mia. Effettivamente, il cielo è diventato violaceo. La pioggia aumenta ogni secondo.

Lo guardo un'altra volta. È tutto fradicio, eppure è completamente a suo agio con questa situazione. La pioggia sembra quasi rilassarlo. Le gocce d'acqua scivolano giù dalle ciocche dei capelli corvini e la camicia è completamente aderita al corpo; ha quasi il volto più disteso. E allora mi ricordo di ieri, di quando l'ho visto praticamente nelle stesse condizioni su quella panchina e sono rimasta lì a fissarlo, un po' intontita e un po' sorpresa. Non solo perché l'ho riconosciuto come il ragazzo che mi ha spinto al concerto, ma anche per la scarica di adrenalina che mi ha provocato incrociare i suoi occhi.
Mi piace, non posso negarlo, mi attira; ma resta il fatto che ho paura di cascarci ancora, paura di avere a che fare di nuovo con persone come lui.

«Non so...»
«Lo prendo come un sì.» Si volta subito. «Seguimi. Anche a me non piace avere debiti.»

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