Capitolo 27 - Speranza
Il giorno prima della festa di Doreen, sono a pranzo a casa di Sam. C'è anche Dana con noi: dopo aver sparecchiato, io e lei ci mettiamo a discutere su cosa metterci, ovviamente, mentre Sam ci schernisce.
Siamo seduti tutti sul tappeto in salotto: i genitori di Sam non sono in casa, c'è solo sua sorella chiusa in camera a studiare per gli esami di riparazione.
Ho provato l'esperienza di perdere un anno l'anno scorso. Non per colpa mia, ma di Dean. Avevo perso ben tre mesi di scuola e mi ero vista bocciare.
D'altronde non avevo frequentato.
Chiedo a Sam come sta andando lei. «Bah, sta sempre chiusa a studiare, quando posso salgo su e le do una mano, ma spero recuperi visto che sai bene che significa perdere un anno.»
«Sì, lo so. Dai, ce la farà.»
Dana si intromette nella conversazione. «Èforte tua sorella, e si sta impegnando tanto. Ma a proposito di perdere, mia cara signorina Powell... che mi sono persa sui recenti avvenimenti?» Sogghigna.
Io arrossisco irrimediabilmente. Abbasso lo sguardo, sentendo quelli di entrambi addosso. Mi metto a ridere. Sam guarda prima me e poi Dana, poi di nuovo me. «Voglio essere informato anche io!», protesta.
«Va bene, va bene! Nulla di che, ragazzi... Davvero. Stiamo solo uscendo un po' io e lui...»
«Un po' tanto direi! Ogni volta che ti chiamo attacchi perché sei con lui, Håbe! Allora, ti ha baciata?»
A momenti mi strozzo con l'aranciata. «No, no! Assolutamente no!»
Dana incrocia le braccia, sbuffando. «Certo che è proprio lento questo qui. Ma quanto gli ci vuole?»
Sam annuisce. «Tu non ti sei stufata di andarci appresso?»
«Penso... che non sono più solo io ad andare appresso a lui, ormai. Penso sia reciproco.È cambiato, un pochino. Lo sento più vicino di prima.»
Dana esplode in un "hohoho" di gioia. Sam mi fa l'occhiolino, mettendomi una mano sulla spalla. Poi mi guarda fisso dicendomi: «Si. Però se dovesse esagerare chiamami, ché ci penso io», e sfoderando un gran sorriso.
Passiamo tutto il pomeriggio assieme, sfruttando quel giorno libero di Sam. Dana mi racconta che le cose con Koky vanno bene e che molto probabilmente si fidanzeranno. Non in modo ufficiale, s'intende, ma hanno avuto già tre appuntamenti e lei dice che la fa ridere tantissimo.
«Sto bene con lui.Èfantastico, è veramente come lo avevo immaginato. Anzi, forse anche meglio. Quando lo vedevo suonare, mi sembrava una così bella persona: lo è ancora di più.»
«Sono contentissima, Dana, davvero!» La abbraccio.
Quando torno a casa, prima di entrare, trepidante per il giorno dopo, rimango un secondo a guardare l'angolo in fondo alla strada.Èlì che era sparito man l'ultima volta che lo avevo visto e ci saremmo rincontrati l'indomani.
La voglia di rivederlo è quasi dolorosa: una fitta al petto, scuoto la testa, e mi decido a entrare.
***
«Ma vuoi sbrigarti, dannazione? Siamo in ritardo!»
«Uuuuf, ma quanta fretta hai di rivederlo? E no, non siamo in ritardo, scema, manca ancora mezz'ora all'orario che ci ha detto Doreen! Calmati!»
Mi passo una mano fra i capelli, nervosa, mentre cerco le scarpe. Camera mia è un salone di bellezza, ci sono trousse aperte su ogni superficie possibile e le foto appese ai fili di luci di Natale sono quasi tutte cadute per l'andirivieni mio e di Dana. Ah, e perché lei ha sempre quel vizio di lanciarmi i vestiti in giro.
Alla fine ho optato per un vestito color pesca, molto delicato. Una collana di perle adorna la scollatura morbida e la gonna arriva poco sotto il ginocchio.
Ho ovviamente messo i tacchi, gli stessi che avevo quel giorno sul grattacielo con man. A ricordarlo, ho quasi i brividi.Èda quel giorno che sento che qualcosa è diverso in lui, o meglio, che sta diventando diverso.
Spero solo di non sbagliarmi.
Diamo una veloce sistemata alla camera. Ci verrà a prendere Koky, e tutti e tre ci dirigeremo a casa di Doreen che si trova un po' distante dal centro, nella zona di East Village. Non saremo tanti, alla festa: non ci saranno imbucati, rimarrà abbastanza discreta. Inoltre Sam non può venire: stasera ha il turno di notte.
Il viaggio in macchina con Koky è breve: sa tutte le scorciatoie del caso.
Appena arrivati, il batterista parcheggia e scendiamo dall'auto. Saluto Doreen che mi accoglie con un enorme sorriso, il corpo fasciato in un lungo vestito verde. Le auguro un buon compleanno, consegnandole il regalo.
Lì, fuori dalla sua casetta azzurra, vedo Damian, Jazz e un altro paio di ragazze che non conosco fermi a fumare venirmi incontro: Doreen mi presenta le due, ma proprio in quel momento, man esce dalla porta della piccola villetta.
Ed è inutile dire che ho occhi solo per lui.
Quindi non lo dirò.
"Aspetta... mi sa che l'ho detto, eh?"
Scendo il primo piccolo scalino prima di rendermi conto che è arrivata. Scendo gli altri due con un salto e non mi accorgo neanche di passare fra Doreen e Jazz.
Le arrivo di fronte, lei sorride. «Ciao», dico.
«Ciao», risponde.
Improvvisamente intorno a noi è calato il silenzio. Håbe si schiarisce la voce e tutti riprendono a parlare.
Scuoto la testa, confuso, mentre saluto anche Dana, che tiene la mano a Koky: i due si rintanano subito in casa, sorpassandomi.
Cerco di non guardare Håbe, mettendomi al suo fianco, mentre mi accendo una sigaretta. «Allora, sono passati questi quattro giorni», commento.
«Già. Sono passati» mi risponde, vaga e sfuggente. Mi rendo conto quanto mi dia fastidio quando fa così. Poi in un secondo momento realizzo che è quello che io faccio sempre.
«Che hai combinato senza di me?» mi sforzo a chiederle, espirando, e osservando il fumo colorare l'aria sopra di me.
«Oh, niente di che. Non mi diverto senza di te.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Håbe, posso dirti una cosa?» Non ce la faccio davvero più.
«Sì, dimmi.»
Mi guardo un attimo attorno ma decido che quello non è il posto giusto. «Vieni.»
La casa di Doreen è al pian terreno. Ha però un piccolo balconcino sul retro abbastanza appartato, dove la madre tiene uno di quegli orti urbani di cui non ho mai capito il senso. Saranno davvero contentissime quelle piante d'insalata di crescere precisamente nello smog di Manhattan.
Chiudo la porta a vetri alle mie spalle, una volta arrivati sul balcone.
È da giorni che devo dirle una cosa che mi si ripresenta in mente solo quando poi me ne vado da lei.
«Allora, beh. Tu...»
Rieccoci. Il blocco.
La mia testa si svuota completamente e mi sento di nuovo incapace. E i suoi occhi fissi su di me non migliorano la situazione.
Cerco di inventarmi una soluzione. Mi volto, non la guardo. Ma come trovo il coraggio di chiederglielo?
Mi appoggio alla ringhiera, cercando di trovare qualcosa dentro di me, ma della determinazione di poco fa non c'è traccia.
Non ci riesco. Così decido che forse è meglio chiederle proprio di questo: «Perché non riesco a dirtelo?»
Sono così... confuso? Non so cos'è. Non l'ho mai provato prima. Non che io sia un maestro nel provare le cose: è tutto così nuovo. Mi sforzo a parlare: «Tu mi hai... merda, non so neanche come spiegartelo. Ho sempre avuto un grande casino nella mia... testa e adesso non c'è più. Non so quanto durerà, e non so che cos'è ma so che è... per merito tuo.»
Mi rendo conto di aver quasi il fiatone, di star praticamente sudando. Complice il caldo, anche, questa maledetta camicia è asfissiante. Apro i polsini e tiro su le maniche ma non ho il coraggio di guardarla.
La sento muoversi dopo qualche secondo. Si mette vicino a me. Ho la testa bassa, le mani ancora sulla ringhiera.
E dal fondo di me stesso, sento qualcosa. Una sorta di ringhio basso, quasi un lamento di un essere ferito. Non è morta, è ancora lì. Lei è ancora lì e stavolta... oh, stavolta sto rischiando grosso.
Håbe mi si affianca. Ma non dice nulla. Mi passo una mano fra i capelli e mi giro, dandole le spalle. «Senti, ok, non importa, fai finta che non sia successo nulla, e andiamo di là, ci staranno cercando e...»
M'interrompo bruscamente.
Perché in quel momento lei mi prende la mano.
Si volta. I suoi occhi sono sempre impenetrabili ma forse leggo i segni di un'espressione su quel viso, ora: tormento. Non sembra neanche più il ragazzo sicuro e spavaldo che incontrai quella mattina all'East River Park. Per un istante sembra proprio un'altra persona.
Un po' più umana forse.
È in quel momento che il suo soprannome, "man", sembra calzargli a pennello per la prima volta.Èdavvero un uomo, lì, davanti a me, e quello che mi ha appena detto, per com'è lui, vale come una strana, bizzarra e ridicola dichiarazione d'amore.
Ma non lo sa questo, lui. Non lo sa.
Decido di tenerlo all'oscuro, intanto il cuore in petto mi batte all'impazzata e sento elefanti nello stomaco, altro che farfalle. Tengo la sua mano un istante, solo per dirgli una parola, che mi esce dal profondo del cuore: «Grazie.»
Lui inspira. Chiude gli occhi un paio di secondi, li riapre. Il volto si distende.
«Andiamo?», gli chiedo.
«Sì», risponde.
In qualche modo poi ci ritroviamo tutti a giocare a quegli stupidi giochi per feste, dopo la cena e il taglio della torta. Doreen non fa altro che sorridere, e sembra molto felice di trascorrere del tempo insieme a noi.
Arriva il momento karaoke, e i ragazzi si esibiscono in strabilianti esibizioni.
Ora ho davvero capito perché l'unico cantante della band è Damian.
Uno dei giochi che facciamo successivamente, prevede di mimare una cosa in modo da farla capire agli altri, a turno: quando arriva il momento di Jazz, ovviamente, tutti scoppiano a ridere.
E subito si fermano.
Si, perché c'è un suono bellissimo.
Mi volto a guardarlo, e man si ritrova tutti gli occhi puntati addosso.
Poi smette di ridere, e si mette più comodo, appoggiando la schiena al divano, esclamando: «Jazz hai una fottuta carriera come mimo! Molla la band, davvero!», e prendendo un sorso di birra, sul volto un sorriso storto meraviglioso.
***
A un certo punto della festa, quando ormai sono le due di notte e quasi tutti stiamo per andarcene, qualcuno mi poggia una mano sulla spalla. Mi volto, ed è Taito: mi sorride. Ricambio. Mi fa segno di seguirlo, così ci mettiamo in un angolino a parlare.
«Håbe, l'abbiamo visto tutti prima. Sbaglio o...» S'interrompe, guardandosi un attimo intorno. «Sbaglio o sta migliorando?»
Io m'inumidisco le labbra. «Potrei risponderti di sì, ma avrei paura che s'interrompesse l'incantesimo, sai?», ammetto. «Io... penso che lui stia pian piano venendo a galla, ma è una cosa così delicata che ho anche paura di guardarlo a volte.»
Il suo sorriso si allarga ancora di più. Mi poggia le mani sulle spalle, e mi buca con quegli occhi verdi e rassicuranti. «Ehi, io credo in te. Sei la sua unica speranza.»
Mi viene quasi da piangere.
"Speranza".
Già. Håbe. Speranza. Chi l'avrebbe mai detto che il mio nome mi sarebbe calzato in questo modo?
«Taito, io gli ho detto anche di te. Di che amico sei, per lui. E spero davvero che prima o poi se ne renderà conto e ti darà l'abbraccio che meriti. Comunque, senza di te non sarei mai stata capace di trovare la forza...»
M'interrompe, con una piccola risata. Faccio caso solo adesso alla matita nera che porta sotto gli occhi, e al fatto che si è tinto un ciuffo dei capelli scuri di verde.
«Prima di tutto pensa a man. Io vengo dopo, ok? Se mai riuscirai a fargli rendere conto che fuori c'è tutto un mondo di persone che gli vuole bene, allora ne riparleremo ma prima... penso dovrai concentrarti su vuoi due. Sennò diventerà troppo, tutto insieme.»
Annuisco, completamente d'accordo. «Un passo dopo l'altro», annuisco. Facciamo una pausa, ed entrambi lo guardiamo.
Si sta riabbottonando le maniche della camicia, mentre parla con Koky e Damian, il quale ha uno spartito in mano. Arriva Doreen e gli urla qualcosa, probabilmente di essere uno stacanovista, e lui lo fa sparire in tasca ridendo. Poi la bionda dice qualcosa a man e lui annuisce. Lei gli si avvicina all'orecchio, lui rimane immobile.
Mi viene da ridere. «Guardalo. Sembra ancora un pezzo di ghiaccio, ma perlomeno non scappa via», dico a Taito.
«Sono sicuro che migliorerà sempre più, se gli rimarrai al fianco.»
«Proverò a non spaventarlo», ammetto questa debolezza. Ho una tremenda paura di sbagliare, di andare oltre, di non capire il limite oltre il quale non dover andare, con lui.
Taito sta per rispondere, ma man viene verso di noi. Così il punk se ne esce con: «Già, penso anche io che dovremmo rivederci tutti insieme al mare un giorno! Quando sei libera?»
Faccio scivolare i capelli a sinistra del volto, proprio dove man arriva un secondo dopo. «Beh, è estate, quando vuoi! Dobbiamo rifarlo per forza. Non lo pensi anche tu man?» Lo guardo, cercando di non farmi scoprire.
Lui fa una smorfia. «Il mare mi piace solo visto da lontano.» poi si ferma. Osserva un attimo le nostre facce. Vedendoci perplessi, precisa: «Nel senso, posso sempre venire a guardarvi da lontano, eh!»
Io e Taito ridiamo a lungo della sua espressione confusa e mi fa così piacere che io e quel punk siamo diventati così complici.
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