Capitolo 25 - Grazie
È un raggio di luce proprio sui miei occhi a svegliarmi. Li stropiccio un po', e sbadiglio. Quando li apro, rimango senza fiato.
Man è di fianco a me che dorme. Gli occhi chiusi, il gomito che poggia sul cuscino, e la mano abbandonata penzolante sulla testa. Come faccia a dormire con quel braccio sul viso non lo so, ma è bellissimo. Il sole dalla finestra dietro di lui gli disegna attorno un'aura che sembra magica: mi rendo conto che deve essersi tolto la maglietta durante la notte.
E questo di certo non aiuta i miei neuroni, che non ci capiscono niente, che fanno fatica anche a dire alle ciglia di sbattere: gli occhi non vogliono perdersi un millimetro di quest'immagine, non vogliono proprio chiudersi, per niente al mondo.
Giuro a me stessa che prima o poi gli farò una foto così.
Quando dorme, sembra quasi sereno. Sembra quasi un'altra persona.
Poi, comincio a pensare. Mi rendo conto che si, man ha bisogno di venire allo scoperto per quello che è, perché altrimenti si distruggerà, e perché merita di più. Ma io lo accetterei anche così. È lui. E visto che è lui, sono disposta ad amarlo magari anche da lontano, se non dovessi riuscire a convincerlo che fuori c'è un mondo da vivere. Sarei disposta a stare in silenzio.
E a rinunciare? Rinuncerei, se non ce la facessi?
Non facilmente, no. Lotterò, con tutto il fiato e con tutto il cuore. Lotterò, perché ho imparato a bastarmi ma sento che lui per me è essenziale. Prendi il pane: il pane esiste senza la Nutella, è addirittura nato prima, eppure insieme va decisamente meglio.
Sono disposta ad aspettarlo per tanto tempo?
Sì, mi ritrovo a rispondere. Tutto quello che gli ci vorrà. Se sentirò che non sta cambiando nulla, allora... Cercherò di portarlo su da me. Ma se non ci riuscirò...
Se non ci riuscirò sparirò dalla scena. Dovrò farlo. Se sentirò allontanarsi lui da me, se lo sentirò scivolare via, io dovrò andarmene. Perché lo amo: ma non ci finisco in fondo al mare un'altra volta.
Farò di tutto per portarci a riva entrambi. Ma non sacrificherò quella che sono. Mi adatterò ai suoi modi, per fargli vedere il mondo coi miei occhi, ma se sentirò che non gli piacerà...
Scomparirò. Per lui.
Ma soprattutto per me.
Mentre penso queste cose, guardo un punto indistinto sul suo volto. E non mi rendo conto che i suoi profondi oceani blu si sono aperti, se non quando dice: «Dove sei di bello?»
Sussulto, il letto trema, quasi quanto ho tremato io la scorsa notte. Per un misero, misero tocco. "Che stupida".
«Buongiorno... ehm, sono qui.»
«No» afferma, sicuro.
Mi accusa di essere da un'altra parte.
«Davvero, man. Sono qui. Con te.»
«Adesso sei tornata. Com'era il posto dove stavi?» Lo chiede con un vago accenno di curiosità, e non avevo mai sentito quel tono nella sua voce. Mi schiarisco un po' la gola, ma il groppo che c'è pare sbeffeggiarmi, sedimentandosi ulteriormente come un gatto che quando gli chiedi di spostarsi dalla poltrona s'attorciglia su se stesso ancora di più. Il groppo rimane lì, mentre cerco di inventare qualcosa per quegli occhi blu impastati di sonno.
«Ero... qui. Davvero, ma allo stesso tempo vedevo tutto da fuori. Non ti capita mai?» gli chiedo, sentendomi un poco in imbarazzo.
Lui ci pensa un poco. «No», sentenzia, alla fine, poggiandosi sul gomito, girandosi sul fianco sinistro e guardandomi. «Purtroppo sono sempre dentro di me... tranne qualche rara occasione.»
Annuisco. «Fammi indovinare. Quando suoni?»
«Sì... e no.» Si alza.
Mi metto seduta, e lo guardo infilarsi la maglietta.
«E allora quando?»
«Quando scrivo. Ora, credo tu dovresti aggiustarti i capelli. Sembri un cespuglio di rovi.»
Si volta, uno strano sorriso sghembo sulla faccia. Mi porto subito le mani sulla testa, do qualche manata, per poi lasciarle cadere giù, rassegnata. «Trucco colato, capelli messi malissimo... mi hai appena visto nella mia condizione peggiore.»
Lui tace.
Guardandolo, capisco che c'è qualcosa che vorrebbe dire... ma non la dice.
***
I giorni scorrono velocemente. In poco tempo, passa anche luglio.
Trascorro sempre più tempo insieme ad Håbe. Quando poi Doreen ci comunica la data della sua festa di compleanno, che si terrà a casa sua domenica venticinque luglio, decidiamo di andarle a comprare un regalo insieme.
Il mercoledì prima della settimana del venticinque sono fuori dallo Starbucks vicino a casa della Bambina. Cerco di ignorare il caldo tremendo, e le nuvole minacciose che formano una cappa asfissiante in cielo.
Mentre aspetto Håbe — che ovviamente è in ritardo — ricordo l'ultima volta che ci siamo visti, un giorno fa.
Mi ha portato alla Cattedrale di Saint John "the Divine". Mi ha detto che non aveva nessuno con cui fare un giro, e non gli andava di importunare Dana che era impegnata con lo studio per un esame. Quindi ha pensato a me.
Non credo che nessuno l'avesse mai fatto. Scegliermi per "fare un giro": nonostante io sia abbastanza ateo, e lei mi avesse sottolineato che si trattasse d'una chiesa, ho accettato senza neanche pensarci.
Perché da quella sera nella mia stanza, io... non lo so. È come se una parte di me fosse diventata invisibile. Una parte di me si è smaterializzata, e la bestia non può più vederla: un pezzettino di me stesso che è più mio che tutto il resto di me e che è capace di darmi quel po' di forza che mi basta per andare avanti.
Questa piccola parte di me... è come se si fosse resa conto che Håbe le fa bene.
Ma è davvero così?
E quanto durerà?
«Bu!» Un colpetto sulla spalla mi fa sussultare, ed Håbe fa capolino da dietro di me con un saltello.
Si è fatta due treccine che partono da sopra la testa: qualche ciuffo esce alla rinfusa. Porta un sorriso enorme come gioiello, gli occhi le brillano e sono più verdi del verde. Ha la macchina fotografica attorno al collo, ovviamente, e indossa una maglietta grigia corta della NASA — con tanto di disegno dell'universo e un piccolo pianeta stilizzato — e una salopette di jeans.
«Caspita, che paura», scherzo.
Lei mi fa la linguaccia, strizzando gli occhi. «Sono davvero molto spaventosa. Dai, abbiamo tanto da fare oggi. Andiamo. Hai la più pallida idea di cosa potremmo comprarle?»
Cominciamo ad incamminarci verso la via principale.
Io ed Håbe abbiamo in comune questa cosa: ci piace camminare. Ecco perché abbiamo deciso di vederci vicino da lei e poi andare a piedi verso il centro.
«In realtà no. Pensavo tu avessi le idee più chiare», ammetto.
Lei, al mio fianco, sbuffa. «Tu la conosci meglio di me! Dai, saprai sicuramente i suoi gusti. Io opterei per un vestito ma... non so.»
«Qualcosa troveremo. Al limite le compriamo una macchina per il caffè. Sai che spasso la sua espressione?»
Guardo Håbe ridere, e darmi dello stupido.
Chiacchierando, giriamo qualcosa come una decina di negozi, ma entrambi ci rendiamo conto che non troviamo nulla di... "doreenoso".
«Che ne dici di una pausa?», propongo. «Conosco un posto qui vicino che fa della pizza molto buona.»
Lei si mette davanti a me, e mi prende in giro spalancando gli occhi e la bocca, le mani sulle guance. «Mi hai appena invitato a pranzo?»
Sospiro. È davvero irritante. «Piantala, ragazzina. Su, muovi il culo, da quella parte.» Le indico la strada da prendere. Lei mi precede ridendo, continuando a saltellare dicendo: «Io so che è così! Mi hai invitato a pranzo! Sto per pranzare con maaan!»
***
Mordo la mia pizza all'ananas. Siamo seduti a un tavolo con un ombrellone rosso; Central Park alle nostre spalle pullula di bambini, coppiette mano nella mano e genitori che chiacchierano.
La Bambina di fronte a me si gusta la sua pizza, tutta soddisfatta.
«Secondo me dovremmo buttarci sul trucco» fa lei, masticando.
«Non è una cattiva idea. Ma lì torna tutto nelle tue mani, eh.» Mi pulisco col tovagliolo.
«Ma come? Pensavo tu te ne intendessi di trucco! Ce lo hai sempre sul collo della camicia.» Sogghigna maliziosa.
Comincio a divertirmi quando mi provoca così. Sbuffo, e le lancio un tovagliolo.
Dopo aver pagato la pizza, ci dirigiamo a un profumatissimo negozio di trucchi. Håbe è su di giri, compra cose che non saprei nemmeno nominare, ma credo di riconoscere un mascara. Mettiamo metà soldi per uno, e ci facciamo fare un bel pacchetto.
«Fatto! Anche questa è archiviata» sospira lei, uscendo dal negozio.
«E adesso che si fa?»
Si morde il labbro, e si guarda le scarpe.
Ormai ho capito che significa quando fa così.
«Håbe... su, sputa il rospo. Che ti gira nella testolina?»
Lei fa un mezzo arco col piede. «Beh, a un parco qui vicino ci sono le giostre.»
«Scusa? Cosa?»
«Hai capito! Ci sono le giostre! Ci andiamo? Per favore!»
«Stai scherzando spero. Insieme superiamo i trent'anni.»
Lei mette il broncio. «Scommetto che non ci sei mai andato!» Mentre parla, visto che siamo in mezzo al marciapiede, un signore la spinge eio mi allungo per impedire che cada, reggendola dalla spalla.
«Credo... credo di no», ammetto. Camminiamo spalla a spalla. Lei sembra arrossita un poco.
Sospira. «Va bene... non fa niente. Non sei di certo un tipo da macchinette a scontro tu. Sono proprio scema.»
Si batte il palmo della mano sulla fronte, e per un secondo sembra intristita.
Qualcosa dentro me fa click.
Improvvisa come un tuono in una giornata di sole: un'immagine. Io, bambino. Un'altalena piena di ruggine, un parco giochi minuscolo. E una figura, lontano, mi guardava. Mi implorava di scendere.
Ma io non scendevo, anzi, andavo sempre più forte.
Deglutisco, e cerco di respirare.
«Sai che c'è? Si fottano i vent'anni. Andiamo.»
***
Mi sto divertendo da morire. Man è un pazzo alla guida: al quarto giro si è messo a sfidare questo ragazzino tremendamente competitivo, ed è stato come uno scontro fra titani. Ho davvero temuto lo facesse volare fuori dalla macchina.
Mentre sterzo il volante, vedo il mondo girare intorno a me; le luci della pista si accendono e si spengono, e sono di tutti i colori.
A un certo punto un tremendo scossone, un botto: le mie trecce cessano definitivamente di esistere, i capelli mi si sciolgono, andandomi tutti davanti al viso e trafiggo man con lo sguardo: «Brutto stronzo!»
Giro la macchina, accelero a più non posso e lo inseguo. Lui a malapena entra nella macchinetta, ha le gambe troppo lunghe. Quando gira, lo vedo in viso, e posso giurare che sta ridendo.
Eppure non mi rammollisco di certo: lo tampono forte sul lato sinistro della sua macchinina ma lui è così incastrato lì dentro che non so come se ne tirerà fuori. Mi metto a ridere di gusto per la sua faccia, e scappo via, accelerando a manetta.
Purtroppo il nostro sesto giro finisce, e quindi esco dall'abitacolo. Lo vedo in grande difficoltà, così corro ad aiutarlo ridendo.
«Ma come ti ci sei ficcato lì dentro?» Ho le lacrime agli occhi.
«Non lo so! Ti giuro non lo so! Dammi una mano maledetta!»
Ma io sono veramente piegata in due e non riesco a smettere di ridere. Tiro fuori il cellulare e gli scatto una foto così, la faccia scocciatissima e una gamba totalmente incastrata nella macchinetta.
«Questa va dritta sul gruppo del sabato di Whatsapp!»
«Aiutami, brutta stronza!»
Decido di aiutarlo, e mentre lui tira via le gambe io lo tiro per le mani.
Quando finalmente riesce a liberarsi, ho il mascara completamente colato per via delle lacrime scese nel ridere, i capelli in condizioni peggiori di quando mi sveglio, la maglietta storta e una scarpa slacciata.
Però succede una cosa.
Che lui mi dice, guardandomi negli occhi: «Sei bella, Håbe.»
Per un secondo, sento come il mondo scivolarmi via da sotto i piedi, e mi sembra di volare, di non essere neanche più lì, ci sono solo quelle parole. Ci sono solo quelle parole e il modo in cui le dice, come in un sospiro.
Come se fosse un "grazie", come se mi avesse appena ringraziato e dato un abbraccio e un bacio sulla guancia.
Poi il ragazzo leva le mani dalle mie, si volta. Il suo dito punta verso una di quelle grandi giostre che fanno su e giù, e gridando dice, tornando a guardarmi: «Voglio andare su quell'altra!»
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