Capitolo 24 - Provare
Il buio si dissipa un po'. Sento il sangue fluire al cuore, le palpebre si chiudono e per la prima volta dopo giorni, respiro. Quando riapro gli occhi, lei è sempre lì che mi fissa, quasi spronandomi con lo sguardo. Scruta ogni centimetro del mio viso, ma tornando sempre a guardarmi, cercando di dire con gli occhi quello che non mi dice mai.
Sono confuso.
Sono così confuso che a stento mi vengono le parole, nel senso, a stento ricordo come si formi una frase. Le mie sinapsi chiudono la strada ai neuroni, gli sbarrano la via, e sento il cervello leggero.
Forse è quello che mi manda in confusione. Il mio cervello non è mai stato leggero. Ne ho sempre sentito il peso, come un macigno da portare, sono sempre stato un Prometeo, incatenato a un masso con cui devo convivere, che è parte di me ma troppe volte il mio opposto.
Sono abituato al rumore.
Non al silenzio.
Non all'eco delle sue ultime parole, che rimbombano tra le pareti della mia testa e, come uno scalpello, levigano la roccia.
"Sei uno stupido."
Mi rendo conto di aver pensato tantissimo in questi giorni, al punto da non essere stato mai in silenzio, neanche da solo a casa.
Ma adesso, qui.
Con lei.
C'è pace.
Come ha fatto?
E cosa vuole che io faccia?
Non so che dire. Quello che ho appena sentito mi ha colpito, la sua storia è di certo tremenda, oggettivamente.
Ma io. Io.
Come potrei mai consolarla?
Cosa devo dire, cosa devo fare?
Mentre dentro di me si scatena tutto questo, lei si bagna le labbra, poi sospira. «Si, insomma, vorrei che tu capissi che hai delle persone che ti vogliono un gran bene. Come Taito. Come Doreen. Come... me.»
Che ne sarebbe di me adesso, se non avessi trovato Taito? Da una parte, il mio cervello lo sa: sarei sempre qui, ma allo stesso tempo altrove. Non sarei lo stesso, ma sarei me.
Eppure io non riesco a immaginarlo. "Visto? Io e il mio cervello siamo diversi."
Mi schiarisco la voce. «Lo so. Ma...»
Non ci riesco. Perché dentro di me il mio animale domestico s'attorciglia all'anima. Se esiste, un'anima: la mia è sicuramente nera, come il colore del suo pelo.
Mi blocca le parole in gola e quindi taccio. Taccio perché devo.
"Non sei capace."
«"Lo so", eh. Io non credo che tu lo sappia, man. E se lo sai, non fai niente per ricambiare questo affetto. Sei un egoista.»
«So anche questo, credo. Ma non riesco a capire perché...» Temo quasi che Håbe possa percepire il ringhio della bestia, che mi impone di smetterla.
Lei mi guarda interrogativa. Io provo a respirare, ma le zampacce premono forte sui polmoni, la sensazione di pace che c'era prima sta già scemando. La mi inquilina è tornata.
«Non sai cosa? Man tutto ok?»
«Sì» rispondo, sicuro. Ma sono io a rispondere?
«Uhm. Va bene. In ogni caso, tu devi cominciare a stare con le persone come la gente "normale". E io voglio aiutarti.»
«È una proposta indecente?», chiedo. Lei inizialmente arrossisce, poi ride. Gli spaghetti castani sparsi sul cuscino, formano un fiume in piena, che si incanala in una cascata davanti al suo viso, prima di tuffarsi fra le lenzuola. Nella penombra, la sua voce sembra distante, non riesco a percepirla vicina.
E lei sembra accorgersene.
«No, giuro. Nessuna proposta indecente. Per esempio, vediamo. Sai cosa avrebbe fatto una "persona normale" dopo aver sentito la mia storia?»
Decido di restare in silenzio. Lei ha uno strano sorriso sul volto, ma non mi sta prendendo in giro. È uno sguardo dolce.
Credo che nessuno mi abbia mai guardato così, almeno, non che io ricordi.
Non mi sento a disagio. Ma sento che non è giusto.
Sento che non dovrebbe sprecare tempo con me.
So che lei è padrona delle sue azioni e che se per qualche motivo è tornata da me è perché lo vuole, non perché le faccio pena. Glielo leggo negli occhi. Ma so anche che merita di meglio. Insomma, non basto a me stesso. Figuriamoci a lei.
«Ti dico: le persone sono tanto diverse. C'è chi comincia a dire una sequela di "oh, mio Dio, mi dispiace", oppure "Caspita, deve essere stato orribile, sono desolata", come se fosse colpa loro. Ma il fatto è che non lo è. Quindi non sopporto quando mi dicono così. Quello che preferisco, è un abbraccio.» Si gira sul fianco destro, guardandomi negli occhi. La luce dei lampioni che entra dalle tapparelle disegna una striscia di luce sulla sua figura. «Alle volte, è tutto quello che serve. Sono dell'opinione che le parole siano qualcosa di assolutamente successivo al contatto fisico e che quindi non siano indispensabili. Molte volte parlare quasi mi pesa. Sarà che sono una persona estroversa, espansiva.»
Schiocco la lingua. «Ribadisco che io e te siamo diversi.»
«Ed è giusto che sia così. Ma io so che tu non sei realmente tutto tu.»
Mi lascia senza parole. Il mio respiro si blocca. Corrugo la fronte, cercando di deglutire. Sento quasi il battito del mio cuore, anche lui colto di sorpresa, accellerare.
«Ti spiego: so che lì dentro c'è molto più di questo. E non intendo lasciarti ucciderlo.»
Torna di nuovo quella sensazione di leggerezza. Quando parla così, addirittura la mia bestia sembra addomesticarsi; quando lei fa così è quasi come guarire.
«Io non riesco a capire come tu possa essere qui. Io non sono... salutare» Mi affretto a dire, con la paura che l'animale torni da un momento all'altro.
Lei sbuffa e inclina la bocca in una smorfia. «Ma va?» mi sfotte. «Lo avevo intuito.»
Devo davvero avere uno sguardo strano, mentre confuso dico: «Sei scema, allora.»
Lei scoppia a ridere. «No, no. Non è ché sono scema, è un'altra cosa.»
«È ché per qualche insano motivo tu vuoi salvarmi.»
La ragazza trattiene il respiro. «Io non voglio salvarti, man. Io voglio che sia tu stesso a salvarti.»
«E come si fa?»
Non capisco, e più non capisco, più sento che tutto quanto non è che una messa in scena; io non sono che una comparsa in un film scadente con un paio di puttane come attrici protagoniste, un regista squattrinato e un mondo di merda.
I suoi occhi brillano. «Mi permetti di mostrartelo?»
Ci penso. Il mio cervello all'improvviso si riaccende e un segnale di allarme rosso comincia a risuonare dentro di me. La bestia si sveglia di soprassalto.
Si scuote, affila gli artigli, sembra stordita, eppure, dopo essersi resa conto della situazione, mi impone lo stesso di star zitto.
Ma io sono più veloce. «Sì» rispondo.
Ha detto di sì. Ha detto di sì.
Il suo viso è contratto in un'espressione strana, sembra quasi tormentato. Ma ha detto di sì.
Cerco di respirare, non è per niente facile. Il mio stomaco è pieno di sassi, altro che farfalle.
Questa cosa è difficile per entrambi. Ma io ci credo. Spero solo che cominci a crederci anche lui.
Mi faccio un poco più vicina. Probabilmente sarà un grandissimo fallimento, ma prima o poi devo farlo. Devo provare. Dentro di me sento che è il momento giusto... forse non proprio giusto, ma è il momento.
Così, piano, pianissimo, avvicino la mia mano al suo viso.
Non si sente un rumore, eppure c'è il caos: sto tremando, me ne rendo conto appena guardo le mie dita. Anche lui trattiene il respiro. Per adesso non si sposta di un centimetro. Ciò mi da il coraggio di proseguire.
Poggio la mia mano sulla sua guancia cercando di essere leggerissima: al contatto con la mia pelle lui s'irrigidisce ancora di più, se possibile, e chiude gli occhi. Un brivido mi attraversa la schiena.
Col pollice, lo accarezzo per una frazione di secondo prima di togliere la mano. Quasi scotta, è quasi bollente.
Una sensazione del genere non l'avevo mai provata. Cerco di paragonare quel misero tocco ad un bacio di Dean, ma non regge neanche il confronto. È come se la mia pelle e la sua fossero nate per stare insieme. Ciò è quasi autodistruttivo: mi fa male al solo pensarlo. Tuttavia, per quanto insano possa sembrare, è così.
È quasi più che amore, quello che provo per lui e di fronte al fatto compiuto, ringrazio d'aver il letto sotto di me. "Lui non è neanche paragonabile a Dean" mi trovo a pensare. E dire che credevo il nostro fosse vero amore...
In confronto a questo, sembra una barzelletta. In confronto a come batte il mio cuore adesso, mentre lui apre nuovamente gli occhi, mi guarda e scava un solco dritto fino a quello che ho di più intimo, la mia relazione con Dean appare un puntino nero in un mare di bianco.
Mi sono lasciata trascinare dalla corrente, sono in balìa delle onde di questo maledetto essere, che è qui che non dice niente, che ci siamo appena sfiorati e io sono già impazzita.
I minuti passano; l'orologio in cucina ticchetta, si sente fino a qui. Restiamo insieme ad ascoltare il rumore delle lancette, mentre io cerco in tutti i modi di evitare che lui veda le mie guance, rosse probabilmente come una ciliegia matura. Quando mi copro il viso coi capelli, il materasso ha un piccolo tremito: era una sua risata.
«Che c'è, ti faccio ridere?» gli chiedo, piccata.
Lui si avvicina a me. Poi si avvicina ancora. E ancora.
E più vede la mia reazione, più sembra divertito.
«Piantala!»
«Cosa si prova?» mi chiede, spiazzandomi.
«Oh, beh... Ci ho provato già una volta a spiegartelo, ed eravamo sotto le stelle. Non credo di riuscirci meglio qui.»
Inclina un po' la bocca: sembra concentratissimo. Mi fa ridere.
«Fai un altro tentativo. Io ascolterò» promette, sistemando meglio la testa sul cuscino.
Daccio un respiro profondo, cercando le parole. «A dirtela tutta, pesavo di aver amato davvero Dean... fino a qualche minuto fa.» Studio la sua espressione: sillaba qualcosa con le labbra, ma non emette suono; lo interrompo prima che possa aggiungere qualsiasi cosa: «Ora non credere che tu sia speciale, ok? No, per niente. Non montarti la testa, cowboy.»
Lui spalanca la bocca per chiuderla subito dopo. Mi fa cenno di andare avanti, dopo aver detto: «Non chiamarmi mai più così.»
Ridacchio. «Va bene. Beh. Hai presente...» Frugo nella testa, alla ricerca di una cosa che lui possa avere presente. Ma è davvero descrivibile, l'amore? Ci riuscirò mai? So già la risposta: no. Deve provarlo, per capirlo. Eppure, forse... un esempio c'è. «Cosa provi quando suoni?»
Lui sembra quasi sospirare. Alla ricerca delle parole, una sua mano afferra una ciocca dei miei capelli e ci si mette a giocare.
È la prima volta che lo fa, almeno che lo fa in modo così... spontaneo.
«Non è facile da descrivere.» Mi risponde. «È come se fossi su un altissimo precipizio, di quelli che vedi solo nei documentari, prati verdi, acque bianche di schiuma. Tu sai che la vista è bellissima, che i colori sono straordinari, ma c'è una pesante nebbia. Una nebbia che ormai è lì e non se ne andrà. E tu sai anche questo. Eppure, quando suono... quella nebbia si dissipa. E per quattro minuti e pochi secondi, io riesco a vedere il mare.»
Mi sembra quasi di immaginarlo, mentre lo dice. Non comprendo quella sensazione; ci va vicino la mia passione per la fotografia. Ma quello che lui ha con la musica c'entra con l'amore. Man non riesce a vedere questo rapporto, perché non sa cosa cercare.
Sta a me farglielo capire.
«Ecco, bene... Vedi, l'amore è un vento freddo che comincia a soffiare e disperde tutta la nebbia. E tu non vedi solo il mare: vedi i gabbiani, le rocce, le onde che si infrangono. Vedi tutto e tutto nel dettaglio: il paesino abbarbicato sulla sporgenza di fronte a te ed ogni suo singolo abitante. Vedi come vivono, come respirano, vedi le loro famiglie, leggi le etichette della signora che vende marmellata di albicocche in un piccolo negozio. L'amore ti apre gli occhi su tutto quello che ti circonda ma soprattutto ti fa conoscere te stesso: quello che vedi, lo vedi come lo vedi tu. Un'altra persona lo vedrebbe in modo diverso. L'amore ti insegna a vedere.»
Rimane in silenzio per un periodo interminabile: a me pare di aver detto veramente pochissimo, una millesima parte di una storia millenaria, fatta di secoli di danze di corteggiamento, di giornate di cavalcate nei boschi, di cene romantiche nei ristoranti, di passeggiate al chiaro di luna sul molo, di lettere a mano ed SMS scritti a notte fonda.
Come potrei raccontargli quello che mi suscita un suo sguardo, o quello che ho appena provato nel suo tocco?
Lui lascia la mia ciocca di capelli e mugugna. «Sembra... complicato.»
Sorrido. «Lo è. Eccome se lo è... Ma quando cominci ad amare è difficile smettere. Inoltre, poi diventa spontaneo, come sbattere gli occhi.»
«Non credo di capire. È naturale ma è meccanico...» Posso quasi sentirlo arrovellarcisi sopra.
Rido. «Non sforzarti. Lo capirai.»
Lui mi guarda scettico.
«Te lo prometto», aggiungo.
«Io non faccio mai promesse.»
«E come mai?», chiedo.
«Le promesse non sono una cosa per gli esseri umani. Sono... grandi, rispetto all'essere umano. Ci sono così tante variabili, incognite, che l'uomo non può controllare.»
Mi vien da ridere di nuovo.
«Piantala», gli dico.
«Scusa?»
«Ho detto piantala. Vuoi capire queste cose? Capire l'amore? Bene. Piantala di pensare. Spegni quel fottuto cervello. Comincia a smettere di parlare, e ad abbracciare di più» concludo, soddisfatta.
Lui sorride. Per la prima volta lo vedo sorridere. Non dura moltissimo, ma è davvero meraviglioso. Il suo viso nascosto un poco dal cuscino è sempre più scuro man mano che si fa buio, tanto che sembra fatto di ombra, di tenebre: lo trovo bellissimo in questa luce non-luce e pagherei per immortalarlo così. Avida, mi terrei la foto per sempre.
Ma la prima cosa da imparare, in fotografia, è quando un momento non va fotografato. Quando un momento va vissuto.
E questo momento, questo momento va vissuto a pieno.
Mi ritrovo a sbadigliare. «Man, non è che posso rimanere a dormire qui?»
Lui fa una smorfia. «Sarà... strano, ma va bene.»
«Strano?»
«Sarebbe la prima volta che dormo su questo letto con una donna senza farci nulla.»
Mi schiarisco la gola, mettendo la mano sotto il cuscino e sistemandomi meglio. «Questo si che è un progresso», dico.
Mentre chiudo gli occhi, lo sento prendere il lenzuolo in fondo al letto. L'ultima cosa che percepisco è lui che mi copre la schiena.
Col suono del suo respiro al mio fianco mi addormento.
E non faccio nessun incubo.
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