Capitolo 21 - Amico


***

Qualcuno bussa. Poso il libro che sto leggendo sul comò a faccia in giù, mi tiro su a sedere. «Avanti.»
Sbucano due visi familiari.

Non dicono niente, si siedono sul bordo del mio letto, uno di qua e una di là.
Evito di guardarli entrambi. «Siete venuti a farmi la predica?»

«No»risponde Dana, guardando Sam. Scosta una treccina dal viso. «Siamo venuti per chiederti se c'è ancora Håbe Powell lì dentro. Tre giorni. Dove sei finita?»
Faccio spallucce.

Non avevo fatto entrare nessuno. Non avevo parlato con nessuno. Non mi ero neanche parlata.
Forse è per questo che scoppio a piangere. Dana mi abbraccia, e Sam mi prende la mano.

«Bene, ok. Così non va proprio», dice Dana. Mi scuote prendendomi per le spalle. Mi fissa, e mi asciuga una lacrima. «Adesso tu ti alzi e vieni con noi. Ti cambi questo pigiama che avrai su da quarantotto ore e ti lavi quei denti puzzolenti.»
Tiro su col naso. «Dove... dove andiamo?»
«Alla grigliata, naturalmente!», risponde Sam.«Oh, Gesù, non dirmi che ti sei dimenticata anche di quella!»
Dana fa un verso di scherno. «Io non ti conosco. Non ti conosco più.» Alza le mani disgustata. «È il ventisei giugno, miss pigiama duemiladodici. E se non vieni, ci arrabbieremo tutti tantissimo. Su!» Mi sculaccia finché non mi alzo dal letto.

La grigliata è una tradizione della famiglia di Dana: gli Hyman fanno da sempre carne alla brace il ventisei giugno da quando nonna Olivia è morta. In suo onore, nel giorno della sua scomparsa, chiamano parenti, amici, vicinato, e chiunque voglia per stare tutti insieme, mangiare e ballare.
È davvero bellissimo vedere parenti arrivare dalla Spagna, altri dal Portogallo, farsi anche otto ore di viaggio per una grigliata.È così facile amare gli Hayman.

Mentre assaggio gli spiedini piccanti, zio Abelardo, i capelli brizzolati e gli occhi marrone cioccolata, mi parla di quella volta in cui un toro lo ha quasi travolto, e prontamente zia Carina seduta al suo fianco lo smentisce, dicendo che spara un sacco di stronzate. Si tengono a braccetto, e la camicia a fiori di lei si intona col fazzoletto nella tasca di lui. Non so se l'abbiano fatto a posta, ma sono così teneri.

Abelardo mi invita a ballare, ma io rifiuto. Spero che Sam e Dana non si accorgano che sono rimasta sola. Non ho davvero nessuna voglia di ballare, nessuna.
La mia migliore amica sta danzando con quello che immagino essere uno dei suoi centinaia di cugini. Porta un bel vestito bianco leggero, che accentua il colore della sua pelle scura, color cuoio proprio come gli occhi di Abelardo.

Lo guardo danzare con la sua Carina. Si stringono forte, lei ha la testa poggiata sul petto di lui. Ogni tanto pare che lui le sussurri qualcosa. Magari sta canticchiando per lei. Si muovono sulle note come se neanche le ascoltassero: immagino che abbiano la loro canzone privata e che parli di loro.

Mi accorgo di avere gli occhi lucidi, mio malgrado, quando al mio fianco compare Sam.
«Ehi.»
Sussulto, non lo avevo proprio visto. «Oh, ehi. Ciao.»
«Mi piace questo vestito. Ti sta bene il lilla.»
Sorrido. «Grazie.»

Fa una pausa, mi guarda un po' di traverso, e sorride. «Anche se ammetto che mi piaceva pure il pigiama.»
Scoppio a ridere, finisce presto, ma apprezzo davvero il suo sforzo. «Sei... sei l'unico a cui piacerei in pigiama.»

Sbuffa. Poggia il bicchiere che ha in mano sul tavolo. Indica sopra di noi: il cortile è stato decorato con tanti fili di luci minuscole. «Non sono le stelle, ma più o meno...», dice Sam.
Già. M'incupisco, e lui se ne rende conto. «Scusa, non volevo...»
«Non preoccuparti. Ho solo...» Ma non termino la frase.

Ci pensa lui, dopo qualche secondo di vuoto. «Tu hai bisogno di ballare.»
Si alza, e mi porge la mano. «Andiamo?»
«Non credo sarà uno di quei balli sfrenati. Non sono molto in vena.»
«Non ho bisogno di un ballo sfrenato.» Sorride. Si è pettinato i capelli all'indietro col gel. La camicia celeste che porta è leggermente sbottonata, e si è anche tirato su le maniche per il caldo. «Dai. Voglio solo ballare con Hubby.»

Accetto, rassegnata. Cominciamo a ballare, in un angolino della pista. Un tizio troppo alto con una tizia troppo bassa, malconcia e triste.
«Scusa», gli dico. Lo guardo negli occhi, decido che glielo devo. «Mi dispiace per... insomma. Per non avertelo mai detto apertamente, Sam. Scusa, io... »
Mi interrompe, mettendo un dito sulle mie labbra. «Apprezzo. Ma ti ho detto che voglio solo ballare con Hubby.» Mi guarda dritto negli occhi, e mi rendo conto di quanto gli voglio bene.«Solo ballare con la mia Hubby. Mi basta. Finché lei lo vorrà, mi basta.»
«Non credo se ne stancherà facilmente.»
«Buon per me. Adesso, però, se eviti di pestarmi il piede...»
«Oh, scusa!»

***

Quando Sam mi lascia davanti casa mia e ci salutiamo, vedo che non si muove, tentenna. Così gli chiedo se vuole dirmi qualcosa, e lui sembra cercare le parole giuste.
«Ti ho detto che non posso darti consigli su quello là. Ti ho detto che non approvo questa cosa. Ti ho detto che sei stata una stupida, ad andare a trovarlo, l'altro giorno.» Fa una pausa, e le parole successive sembrano costargli un patto col diavolo. «Ma forse lo sei ancora di più se non vai a cercarlo. Se davvero senti che è la cosa giusta... fà la cosa giusta. Se poi si rivela quella sbagliata, vorrà dire che ti raccoglierò dal marciapiede un'ennesima volta.»

Abbassa un po' il viso, le mani chiuse a pugno sui fianchi.
Ci metto un po' a capire, ma non riesco davvero a comprendere ciò che ha appena detto. «Mi stai dicendo di...»
«Ti sto dicendo che ti conosco come le mie dannate tasche, e so che ti senti in colpa... anche se la colpa non è tua... per via delle ultime cose che ha detto prima di andarsene. Non è così?»
Faccio un respiro tremante, e provo l'impulso di stringermi nelle spalle, per non cadere in pezzi o andare a nascondermi. Mi conosce davvero troppo bene.

Non rispondo: e gli do praticamente la conferma. Lui sospira. «Quindi, il mio non è un consiglio. Ricordatelo, perché io non ti avrei mai consigliato una cosa simile... è solo che ti ho vista ridotta così una sola volta.»
Alzo gli occhi di scatto. «Cosa? Stai paragonando quel periodo a questo?»
Annuisce, serissimo. «Ovvio, non con la stessa gravità. Ma tu hai questa stronzata di sentirti in colpa.È per quello che ti nascondi. Smettila di farlo.»

Sam, il mio Sam, mi sta dicendo di andare a trovare man. Mi sta dicendo di correre da lui.
Gli vado di nuovo incontro e lo abbraccio forte. La luce dei lampioni illumina il viale alberato sopra di noi. 
Lui ricambia, mentre respiro un po' del suo profumo.

«Ti voglio bene», riesco a dire.
«Anche io. Datti da fare però, mammoccia. E trovati un altro consigliere. Questa conversazione non è mai avvenuta.» Si sottrae all'abbraccio, ed entra nella sua porta, dopo aver fatto tintinnare le chiavi.

Io rimango qualche secondo lì. Respiro.
"Un altro consigliere."
Guardo il cielo. Sam ha ragione. Sia lui che Dana sono troppo dentro a questa cosa. Immagino che sforzo gli ci sia voluto per farmelo capire.

Devo trovare qualcuno che mi possa consigliare. Qualcuno che...
Dal caos indistinto del mio cervello in quell'istante, spuntano le parole di man.

"Nessuno si è mai preoccupato di farmi capire come distinguere le cose giuste... da quelle sbagliate."

Si sbaglia. C'è sicuramente almeno una persona che ci ha provato.
E l'indomani mattina, l'avrei chiamata.

***

Due giorni dopo la grigliata, io e Taito ci incontriamo a Central Park. Comico: proprio lì tutto era cominciato, quel venerdì del concerto.

Gli faccio cenno con la mano, lui mi vede e si incammina verso di me. Intorno a noi il parco è così verde da far male agli occhi. Lo scoiattolo che stavo guardando si nasconde subito su un albero quando il punk arriva.

«Ehi, ciao.» Mi regala un bel sorriso caldo dei suoi.Èovviamente vestito di nero e porta gli occhiali da sole, dietro i quali so esserci due occhi verdi come il prato intorno a noi.«Come stai, Håbe?»
«Eh... è proprio di questo che dobbiamo parlare. Vieni.»

Troviamo una panchina abbastanza riservata. La gente va e viene ma a New York a nessuno importa di cosa stai dicendo a chi; la tua vita è solo una dei milioni delle presenti.

Non so davvero da dove cominciare. Mi ero preparata un intero discorso in quei due giorni, ma è improvvisamente scappato sull'albero insieme allo scoiattolo. Decido di partire con la domanda più difficile. «Man ti ha... detto qualcosa?»
Lui aggrotta le sopracciglia. Si posa coi gomiti sulle ginocchia e stringe le mani in un pugno. «No, in realtà, stavo per chiederti se lo avessi sentito. Èda giorni che non si fa vedere allo studio, e non mi risponde ai messaggi. Credo esca solo per lavorare.»
«Cosa?»
Annuisce, guardandomi. «Quindi è successo qualcosa?»

Gli racconto tutto, per filo e per segno.

Ci riflette e un po' e cerca di afferrare la notizia. «Caspita. Deve essere stata dura per te. Mi dispiace, Håbe.» Afferra la mia mano, e la stringe.
«Grazie.» Faccio una pausa, levando una ciocca di capelli che il vento mi ha mandato in bocca.«Man mi ha detto che sei il suo migliore amico, e quello lì non sa neanche cosa significhi essere migliori amici, no? Quindi speravo... che tu potessi aiutarmi. Che potessi consigliarmi: tu che lo conosci... cosa ne pensi, di tutto questo?»

Una parte di me sta pregando che quel ragazzo mi aiuti.
Devo sembrare veramente disperata.

Lui inclina la bocca, e schiocca la lingua. «Posso dirti che non ho mai visto man correre a casa di nessuno. Diciamo che non ho mai visto man andare da qualcuno in generale. Sono sempre stati gli altri a dover andare da lui, mai il contrario. Se ha davvero fatto una cosa simile, io credo... credo che gli importi di te Håbe. Il man che conosco io, quello prima di conoscere te, non lo avrebbe fatto.» Mi osserva, prononciando le ultime parole cauto, studiando la mia reazione.

Evito di scoppiare in lacrime, mi sento tremendamente debole. E rifletto. «Ok. Ok. Solo... Cosa mi invento? Ma soprattutto, con quale coraggio riuscirò a guardarlo di nuovo? Ho ancora quell'immagine negli occhi, quando li chiudo...»
Mi guarda, e sembra quasi commosso, probabilmente gli faccio pena. Magari mi sta riempiendo di vane speranze.
Ma da come mi osserva, e da quello che mi racconta, capisco che non è così.
«Ti racconto una storia, Håbe. La mia. Ti va?»
«Oh, certo.»
«Ti farà capire qualcosa di man. Almeno spero.» Prende fiato, e comincia.

«Non ti racconterò tutti i retroscena. Ti basti sapere che non ho mai conosciuto mio padre. Ho sempre vissuto con mia madre, e poi ci siamo trasferiti qui, da Madrid. Lei è una brava donna, ed io le voglio molto bene. Fu praticamente la mia unica amica fino ai quindici anni. Non ero un ragazzo facile. Non avevo amici, né mi importava averne.

«Un giorno, mentre andavo in skateboard proprio qui a Central Park, mia madre mi telefonò dicendo di tornare a casa. Quando entrai dentro, c'era un ragazzo all'incirca della mia stessa età seduto sul tavolo della cucina. Damian Stone, disse di chiamarsi. Anche lui come me non aveva mai conosciuto suo padre. Mia madre insistette affinché andassimo a giocare insieme, dicendo che avevamo molto in comune.

«Diventammo praticamente inseparabili. Io ero così felice di avere un amico. Mi affezionai tantissimo a lui. Se non c'era, mi sentivo triste e solo, l'unica àncora era mia madre.

«A un certo punto, io e Damian conoscemmo man, come tu già sai. Successe il quattro luglio 2010 – due anni fa. E l'otto settembre dello stesso anno, la mia vita venne completamente sconvolta. Non sto a dirti come, ma scoprii che Damian era il mio fratellastro. Avevamo la stessa madre.

«Mi sentii crollare il mondo sotto i piedi. I Forth-off July non erano ancora al completo: mancavano sia Koky che Jazz. Ma c'era man. Mi prese incredibilmente a cuore. Non so perché e molto probabilmente nessuno lo capirà mai, ma credo che avendogli offerto di entrare nella band io gli abbia dato un motivo per esistere, attraverso l'unica cosa che effettivamente ha valore per lui: la musica.

«Così, quando venni a sapere quella cosa mi sentii tradito da tutto quello che avevo e scappai di casa. Andai a vivere da man, praticamente. Mi presentai alla sua porta e lui non chiese neanche spiegazioni: mi lasciò entrare.

«La maggior parte delle volte stava in silenzio. Con man sono più importanti i silenzi delle parole: l'ho imparato in quel periodo. Stabilimmo una sorta di convivenza in punta di piedi. Io non mi resi conto di averne bisogno, ma era così. E in qualche modo lui lo aveva capito prima di me.

«Certo, i problemi non cessarono. Cominciai a fare uso di droghe. Non vidi più mia madre. Mi ubriacavo un giorno si e l'altro pure.

«Una sera man mi spronò a incontrare Damian. Accettai, ma solo perché volevo uscire ed ubriacarmi. Era già passato un mese e mezzo da quando era scappato.
Così, non degnai Damian di un'occhiata, quella sera. Trangugiai vodka a volontà.
Non ricordo bene cosa successe, ma man me lo ha raccontato.

«Attaccai briga con un tizio, che cominciò a menarmi. Damian fece subito per mettersi in mezzo, ma io lo scansai in malo modo. Lui reagì spintonandomi. E stava piangendo: questo me lo ricordo. Mi urlava che mi stavo comportando da stupido e che dovevo accettarlo.

«Ma io avevo perso praticamente le uniche certezze della mia vita: lui, mia madre e la loro sincerità. Così... lo scaraventai contro la vetrina del bar.

«Lui cadde, spintonò una credenza che ruppe il vetro della finestra in mille pezzi.

«Io corsi fuori dal bar in un disastro di vetri. Sanguinavo dal labbro e avevo una bottiglia in mano vuota. Damian era davanti a me. Stavamo per ricominciare quando man mi si parò praticamente davanti. Mi bloccò i polsi in una mossa da wrestling, la presa ferrea. E mi disse soltanto una cosa: "Ètuo fratello".

«Se non fosse stato per lui, io... avrei lanciato quella bottiglia. Invece scappai. Corsi finché non seppi più dov'ero. Dormii su una panchina. E due giorni dopo, tornai da man. Che mi accolse in silenzio.
Pian piano, ricominciai a suonare. A vedere Damian, prima cinque minuti al massimo, poi qualche ora. Il tempo passò veloce.
Tornai a casa da mia madre ma non la perdonai del tutto. Non ancora.
Man mi aveva permesso di vedere le cose come stavano. Ma fu un'altra persona a tirarmi definitivamente fuori dal baratro: Alexa.

«La conobbi sempre grazie a man: mi diede il suo numero, dicendomi che era carina, e che avrei dovuto darle una possibilità. Altrimenti, mi avrebbe tirato un pugno.
Io non lo accettai. E mi tirò un pugno per davvero.

«Così... beh, il resto è storia. Credo che fu proprio man a permettere che il nostro primo incontro succedesse, ma non ne ebbi mai la conferma. La incontrai al bar dove lavora lui. Mi sedetti affianco a lei e cominciai a parlare con man. Ma poi quando mi accorsi di lei non ci capii più niente.
Persi in conto dei caffè che ordinammo quel giorno. Ma fu la prima volta in cui vidi man sorridere.»

Il ragazzo si ferma. Io ho le lacrime agli occhi. Gli metto una mano sulla spalla, d'istinto. «Mi dispiace tanto Taito... hai avuto un periodo difficile.»

Lui mi stringe il ginocchio. «Grazie. Comico, comunque, non trovi? Tirato fuori dal baratro da una persona che sta più in fondo di me. Il mio consiglio è questo, Håbe: man con me non ha mai, mai mollato. Non ha mai smesso di provarci. Nonostante tutte le volte che mi doveva raccattare di fronte al portone ubriaco fradicio. Nonostante tutte le volte che l'ho insultato in un momento di rabbia. Nonostante tutti i nonostante. Era deciso a salvarmi perché forse... forse mi voleva bene. E ce l'ha fatta. Non mollando mai.» Mi guarda negli occhi: i suoi sono lucidi quanto i miei. «Håbe, non mollare. Lui è sicuramente un caso più disperato del mio: io l'ho appena toccato il fondo, mentre lui ci si è stabilito. Ho tentato di tirarlo su, quando lui mi ha tirato su, ma non ci sono riuscito. Eppure tu... tu sei speciale. L'ho capito dal primo giorno che ti ho vista, su quelle scale. Non permettere che questi mesi siano vani. Non mollare. Portalo su anche per me.»

Una lacrima cade sui suoi pantaloni.
Tiro su col naso, e mi chiedo come posso sentirmi più forte dopo un racconto del genere. Eppure è così.
Ho fatto bene a chiamare Taito: mi ha dato la forza che mi sembrava di aver perso.

«Grazie. Di cuore.» Lo abbraccio, piangendo un'altra lacrima.

Domani sarei andata da man.
E gli avrei raccontato anche del grande amico che ha proprio lì accanto.


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