Capitolo 19 - "Heartbeat"
La posso quasi sentire pensare, in quel silenzio colorato dai grilli. Lo sciabordio delle onde in lontananza sembra quasi un sussurro e i colori sono stati tutti assorbiti dalle stelle, le quali hanno reso tutto bianco e nero.
Posso sentire il mio cuore battere. Non me ne ero mai reso conto, ma il silenzio è la voce del cuore.
«Perché tu hai preso il materasso e sei venuto qui fuori?» mi chiede.
«Non vale rispondere a una domanda con una domanda» controbatto.
«Tu lo fai sempre» esclama divertita e la sua risata si mescola al canto del mare. Posso sentire il profumo dei suoi capelli: è un misto di camomilla e viole.
«Questa non è una scusa» chiarisco, mentre scanso il mio ciuffo dal viso.
«Vediamo, allora. Io ti faccio una domanda e tu devi rispondermi con una risposta che sia tale.»
«Ancora non hai risposto...»
«Mi parli del tuo posto preferito?»
Inspiro. Torno a guardare il cielo. Non ha ancora risposto al mio "Perché?". Espiro e ribatto: «Prima tu. Ti sei appena intrufolata sul mio materasso. Me lo devi.»
Sbuffa. Si sistema di nuovo e anche lei guarda il cielo. «Va bene. Il mio posto preferito... È la mia camera da letto. Può sembrare stupido, lo so. Ma è così importante per me, è un posto in cui mi sento in grado di essere quello che sono. Insomma, lì posso cantare, leggere ad alta voce e anche... anche crollare. La mia camera non dirà mai nulla. Ora tocca a te.»
«Quand'è che tu potresti mai crollare, Håbe?» mi viene spontaneo chiederle. Lei è sicuramente molto più forte di me. Una forza di spirito quasi travolgente.
Improvvisa una risata, un po' forzata, forse. «Visto? Lo hai fatto di nuovo! Questa è una domanda. Una cosa per volta. Prima rispondi alla mia.»
La guardo. No, non la guardo. Faccio finta di parlare con le stelle, lei non è davvero lì. «Ho... due posti preferiti. Il primo... oh, non è proprio un posto preferito, ma comunque... la spiaggia di Coney Island.» Mando giù uno strano groppo in gola, prima di proseguire: «Il secondo e più importante, è anche quello un po' più accessibile. In realtà non potrei proprio andarci, ma sono riuscito a rubare la chiave, così quando voglio posso salire fino al terrazzo del grattacielo dove vivo. E posso guardare New York brillare dal cinquantesimo piano. So che non è normale, ma quando sono lì mi sento... non lo so, ma mi sento. Mi sento qualcosa. Sento qualcosa. È l'unico posto dove riesco a vedere la mia anima senza dover prima morire.»
Aggrotto la fronte, ho detto tutto velocemente, quasi trattenendo il fiato.
Poi capisco che non sta respirando neanche lei.
È lì.
Ferma.
Mi guarda.
E non sa. Lei non sa. Non sa che io non so, non sono capace. Quando mai ho detto una cosa così a qualcuno?
Per un istante, le stelle si spengono. È buio.
Ma il mio cuore batte.
Lo sento forte.
Posso dire che sia la prima volta?
«Håbe.»
«Sì?»
«Ho bisogno di sapere perché sei qui.»
Silenzio.
«Non te lo saprei descrivere, man.»
«Provaci.»
«È... rosso. Si muove insieme alle onde. Fa male. Se ti morde uccide. Ma se ti sceglie, vivi.»
Ma io non resisto più.
«Mi irriti» sbotto.
«Cosa?» Non sono certa di aver capito bene.
«Ti ho detto che mi irriti.»
Ha improvvisamente il respiro pesante, come se avesse corso chilometri, e mi punta gli occhi accusatori dritti in faccia. Non riesco a sottrarmi da quella morsa, è come se mi stesse tenendo ferma con l'intero corpo. Lo guardo anche io, rossa in viso più di quello che provo.
Per fortuna di notte non ci sono colori.
E allora perché i suoi occhi fanno eccezione?
«Mi irrita il tuo stesso esistere. Mi irrita come cerchi di capire le cose. Mi irrita come ti infili nella mia vita. Mi irriti perché non ti fai scrupoli e perché non hai la minima idea di con chi hai a che fare eppure riesci lo stesso a farmi dire cose che non ho mai neanche pensato. Mi irriti Håbe. Perché sei tu.»
Ecco.
Questo momento.
La sua espressione contrariata, i capelli sparsi e spettinati, la fronte aggrottata, lo guardo serio e confuso.
Confuso. Arrabbiato.
Sono felice.
Sorrido.
«E ora perché sorridi?»
«Perché ti irrito.»
Non capisce. Allora chiarisco: «Provi qualcosa per me.»
Sbuffa e si passa una mano fra i capelli. «No, no, non mi irriti. Ti detesto» rettifica, dopo un secondo di silenzio.
Scoppio a ridere. Lui pare calmarsi piano piano. Chiude gli occhi.
Un po' di silenzio ancora. Ma stavolta è un bel silenzio, almeno per me. Quando riapre gli occhi, mi scappa uno sbadiglio.
«Dovresti dormire, adesso, Bambina.» Potrei quasi giurare di aver sentito un pizzico di dolcezza, nel chiamarmi così, questa volta.
«Un'ultima cosa. Dimentichi che io ho una missione.» Mi ricordo di una curiosità che mi è sorta questa mattina.
«Uhm.»
«Tu e Taito... da quanto vi conoscete?»
«Perché vuoi saperlo?»
Schiocco la lingua e faccio segno di "no" col dito. «Domanda.»
Mi maledice, facendo roteare le pupille. «Penso un paio d'anni, contenta? Ora, perché me lo chiedi?»
«Niente, solo... sembra la persona a cui sei più vicino.»
«È una sorta di migliore amico. È... era l'unica persona con cui mi sentivo di parlare.»
Sbadiglio di nuovo. Ma me ne accorgo. «Era?»
«Adesso ce n'è anche un'altra.»
«Oh, e com'è?»
Schiocca la lingua. «Infantile, testarda, orgogliosa e morta di sonno.»
«Hai dimenticato irritante.»
«Giusto.»
Le mie palpebre si fanno pesanti, man mano che l'adrenalina mi abbandona.
«Man, giurami che stanotte non è stata un sogno.»
«Lo giuro.»
«E che domani non passerai tutta la giornata a fare l'asociale.»
Non giura, ma lo sento ridere un poco.
E addormentarmi così, è perfino più bello delle stelle.
Mi punirà. Appena chiuderò gli occhi, mi balzerà addosso come una furia. Scaverà dove ora sento per la prima volta calore. Si ciberà di quello che è caldo dentro me: lei odia il caldo. Inonda tutto di gelo con un solo grande ringhio.
Mi punirà. Ma Håbe si è appena addormentata al mio fianco. Rimango a guardarla.
E so che mi punirà, ma sollevo una mano verso i suoi capelli.
Una pugnalata al petto. "Non sei capace!", urla. "Non puoi!"
Non posso.
Mi giro.
Mi arrendo.
Chiudo gli occhi e urlo in silenzio nei miei peggiori incubi.
C'è una grande aquila. Ha le penne bianche e marroni. Se ne sta comoda, a guardarmi dall'alto del suo ramo. A un certo punto, prende fuoco. Letteralmente. Le fiamme sbucano dal nulla e la accendono come un pezzo di diavolina. Eppure lei non si muove, come se non se ne fosse neanche accorta.
Cambia la scena. E mi rendo conto di essere io l'aquila. Sto bruciando. Ma non mi muovo. Non posso farlo.
Sotto di me, c'è mia madre. I capelli neri al vento. Sta raccogliendo delle margherite nel bosco sottostante, senza degnarmi di uno sguardo.
Ma qualcosa non quadra.
Poi capisco.
Il suo abito.
È interamente fatto di fotografie.
E anche da sopra quel ramo, le riconosco tutte. Vederle incrementa le fiamme, e mi sento morire. Lei finalmente mi vede.
E come se non bastasse, comincia a lanciarmele, una ad una. Il fuoco attorno al mio corpo da volatile le brucia. Mentre mi brucia.
«Ti ricordi di queste cose amore?» mi chiede la donna, ormai rimasta nuda. Ma la scena è di nuovo cambiata: la sto guardando dal basso. L'erba è alta intorno a me.
«Ormai sono ceneri di una vita finita. La tua.»
Prima che possa accorgermene, lei soffia, e io mi perdo per sempre.
***
«Håbe, man! Siete... OH! WOW, ragazzi! Credo di averli trovati!»
Mi volto. Faccio segno a Taito di chiudere quella dannata bocca. Lui si fa avanti piano, nel chiarore del sole appena sorto.
Gli indico Håbe, e gli faccio capire che dorme ancora. Lui non la pianta di sorridere, mentre torna dentro. Intravedo Doreen, accorsa, oltre la finestra, ma la bionda scompare subito dopo.
Mi godo l'alba in silenzio. Quando finalmente Håbe si sveglia, si stiracchia un po' e con la mano tocca il mio petto. Mi ritraggo.
Lei apre un occhio. «Buongiorno» dice, la voce impastata.
«'Giorno.»
«Dormito bene?» mi chiede, sorridendo. Spettinata, struccata e appena sveglia. Ha il segno del bordo del cuscino sulla guancia, e un po' di occhiaie.
Tolgo lo sguardo dal suo viso. Le sue parole della notte mi rimbombano ancora in testa.
Mi accorgo di avere un suo capello sulla maglia. Lo tolgo, e poi le dico: «Stanno aspettando tutti per la colazione. Andiamo.»
Dopo quel giorno, gli altri continuarono a guardarmi di sottecchi e chissà quali film si son fatti su me e Håbe.
Ma a me non importa.
Non feci più "l'asociale" per il resto della vacanza. Non ricordo di essermi divertito così tanto negli ultimi anni. Quei giorni furono pieni di cose nuove per me. Beh, forse non proprio nuove; ma c'era Håbe. Lei rendeva tutto un po'... diverso.
Per fare un esempio: organizzammo un falò, con tanto di marshmallows e lei cominciò a ballarci intorno. Trascinò tutti, uno dopo l'altro, e naturalmente mi ritrovai in mezzo. Sembravamo dei maghi o dei pazzi, ma è stato forte.
E ancora, una mattina, mi svegliò alle cinque e mi disse che aveva bisogno di una mano. Camminammo per ore, da soli, in silenzio, e arrivammo a questa enorme fabbrica abbandonata sul ciglio del fiume.
«L'ho trovata su internet!», aveva detto. «Devo assolutamente scattare qualche foto qui. Dai, aiutami a scavalcare.»
Ci intrufolammo senza alcun permesso. I muri erano imbrattati di murales di tutti i tipi e colori, uno diceva "rivoltati ora non nella tomba", un altro ancora "un diavolo è stato qui", un altro "heartbeat" e mi ricordò la notte con Håbe sotto le stelle. Mentre ne decifravo qualcun altro, lei scattava foto.
Sapevo già prima di averne la prova, che ne aveva fatta qualcuna anche a me.
Insomma, i cinque giorni finiscono con la velocità con cui a casa finisco la birra. Un battito di ciglia, ed è ora di ripartire. Håbe mi costringe a sedermi vicino a lei al ritorno, per farmi vedere tutte le foto scattate.
«Man, guarda questa! La faccia di Koky è epica.»
«Sembra un alieno, guarda la sua bocca.» Indico sullo schermo.
Lei ride, e gira qualche altra foto. Appaiono quelle della nostra gita segreta. «Aspetta, torna indietro» le dico, colpito.
«Perché?», fa "la gnorri".
«Torna indietro», insisto.
«Non serve.» Continua ad andare avanti. Allora allungo la mano e sfioro la sua, premendo indietro più volte.
Come pensavo: sono io. Guardo davanti a me, il cappuccio sulla testa, le mani in tasca. Una figura nera circondata da disegni colorati.
«Non la cancellerò. Scordatelo. Non riuscirai mai a...»
La interrompo. «Non devi farlo.È bella.» Torno sul mio sedile, comodo. Mentre lei farfuglia qualcosa tipo "Oh...ok", mi sento degli occhi addosso: sono quelli di Loren, seduta al posto del passeggero accanto alla guida. Appena si accorge che la sto guardando, mi sorride e torna a chiacchierare con Doreen.
Håbe se ne è accorta. Sospira. La guardo, interrogativo.
«Mi ha chiesto dove abiti...», confessa.
«Chi? Loren?»
«Già.»
«E glielo hai detto?»
«Sì. Perché no? Mi fido di lei, credo.È nella nostra compagnia ormai. Adesso che... abbiamo fatto pace. Lei ha... stava con il mio ex-ragazzo, più o meno.»
Uhm. Così Håbe ha avuto un ragazzo.
«Perché più o meno?» chiedo, ma la Bambina sembra improvvisamente molto presa da una foto che sta mostrando a Dana.
«Ècosì figa, non trovi? I tuoi capelli sembrano rossi!» dice, rivolgendosi a Dana ma guardandomi di sottecchi.
I saluti sono sempre la parte più difficile. Dopo qualche abbraccio, e la promessa di rivederci presto, io, Dana e Sam, montiamo sulla macchina di quest'ultimo e ci dirigiamo a casa. Mi rendo conto che non mi è mancata neanche un po'. Mi stringo nelle braccia, sul sedile posteriore, e abbasso un poco il finestrino, lasciando l'aria della notte carezzarmi il viso.
Sospiro. E immagino di tornare su un materasso sotto le stelle, invece che in una macchina sotto delle luci al neon.
***
Tornare alla routine quotidiana fu noioso. L'estate è cominciata, questo vuol dire che devo aiutare mia mamma con le pulizie, visto che lei è sempre via, e pure papà. Non ho mai capito perché ma quei due lavorano più in estate che in tutto il resto dell'anno.
Comunque, non sono solo loro a lavorare, ma anche Sam. Non mi sorprendo affatto quando mi molla il suo cane: un enorme labrador marrone di nome Lilo — che io chiamo Cavallo —, con una bava da record: riesce a inzupparmi tutto il tappeto dell'entrata in tre minuti.
E così, sono in giro a portare il Cavallo a fare i suoi bisogni, la mattina del ventun giugno. Sto ancora cercando di riprendermi dall'ultima uscita con Dana e Doreen: quattro ore di shopping ininterrotte. Loro hanno riempito diverse buste, mentre io mi sono limitata all'essenziale. Non ho un soldo, e devo assolutamente trovare qualche lavoretto part-time.
Penso a questo, mentre aspetto che il dannato Cavallo si decida a farsi piacere l'albero, quando mi sento chiamare da dietro: «Ehi Hubby!»
Mi volto, e mi ritrovo faccia a faccia con Loren. «Ciao, Loren!» La abbraccio con una sola mano, l'altra stretta sul guinzaglio.
«E chi è questo amorino?» La ragazza si china a salutare il Cavallo. Non che serva chinarsi tanto, visto che è alto quasi metà me.
Chiacchieriamo un po', e lei sembra su di giri. «Oh, mi vedi felice? Beh, sai... sono così contenta di averti ritrovata! E grazie a te ho conosciuto persone fantastiche come man e tutti gli altri. A proposito! Per caso hai il numero di telefono di man? Perché ho un bisogno urgente di chiamarlo: ha lasciato la maglia nel mio pulmino.»
«Oh! Beh, sì...» "...e ci ho messo così tanto per averlo". Man si è deciso a darmelo poco prima di partire per il viaggio. E Loren ora mi viene a chiedere di darglielo?
Mi rendo conto di essere gelosa, e cerco di frenarlo come posso, per non darlo a vedere. «Non so se lui vorrebbe che te lo dessi. Ti ho già detto dove abita, potresti andare direttamente lì.»
«Ho paura di non trovarlo! Devo essere certa che ci sia, ho un sacco di lavoro da fare allo studio e non posso permettermi di fare strada e perdere tempo! Per favore, Håbe!»
La me di quel momento sta per commettere un grandissimo sbaglio, che sconvolgerà tutto.
Ma ovviamente ancora non lo sa.
*SPAZIETTO CREDITS FOTO: immagine sopra creata da me sottoscritta ME quindi giù le manine; la figura di lui è presa dal music video Faded di Alan Walker, che è tra l'altro — giusto per farvi sapere i cavoli miei — da dove ho preso l'ispirazione per questa scena. Dai che morivate dall'idea di saperlo. Dai. Ok mi dileguo. Al prossimo capitolo!*
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