Capitolo 15 - Profumo


Sono sulla rotaia di una ferrovia, ne sono cosciente ma non riesco ad aprire gli occhi. Sento il treno arrivare, il suo rumore crescere e crescere e rimbombare nella mia testa. Prima che mi investa, però, riprendo possesso del mio corpo.

Il frastuono del treno nel sogno non era altro che il mio respiro. Lo sento così forte, pare amplificato alla ventesima potenza. La seconda cosa che realizzo dopo il mal di testa è il male ai piedi: li sento gonfi e non riesco a muovere le dita. Poi, per terzo, viene il mal di schiena. Ecco, di quello non ho spiegazione.

Aspetta un attimo, ma... dove sono?

Il mio corpo supplica tregua, così provo a stirarmi. Mi scappa quasi un gemito. Percepisco una superficie morbida sotto di me, e qualcosa di più spigoloso proprio sotto le ginocchia. Sembrano quasi altre ginocchia. Di qualcun altro. Come se...

Mi sfrego le mani sugli occhi, impastando tutto di mascara. Sbatto un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco; mi sembra di fluttuare, come se non avessi un corpo né memoria di nulla.

«Buongiorno», una voce.
Sorrido. «Buongiorno», ricambio, e sbadiglio.

Metto a fuoco, e lo vedo. La nuca poggiata allo schienale del divano bianco, i capelli neri scompigliati. Ha gli occhi chiusi e il volto disteso; proprio in quel momento espira e del fumo esce dalle sue labbra rosse: sta fumando, in casa. Apre gli occhi, girando quasi impercettibilmente la testa e mi guarda. Bello come mai. "Quanto vorrei avere la mia macchinetta fotografica". Una foto del genere avrebbe valso milioni. Sospiro.
Scendo con lo sguardo giù dal suo volto: è senza maglietta. Si agita un po' e lo sento muovere anche le gambe, dato che è seduto sotto di me.

Sento la sua pelle contro il retro delle ginocchia. Sorrido, e mi rimetto di nuovo giù, chiudendo gli occhi e coprendomi con la coperta, la testa che batte.

E si, insomma, poi ci metto circa cinque secondi.
Cinque secondi, per realizzare.

«AAAAAAAAAAAH!»
Mi tiro su a sedere così in fretta che mi viene una fitta al cervello. Tiro le coperte a me, coprendomi, sono nuda, insomma, nuda! Così facendo però... scopro man.
«OH MIO DIO NO, COPRITI!», urlo ancora, portandomi la coperta sopra gli occhi.

E lui che fa? Sbuffa. Tira a sé un pezzo di coperta e si copre le parti intime. Poi torna nella stessa posizione di prima, poggiando la testa sullo schienale, portando la mano destra sopra gli occhi con la sigaretta accesa tra l'indice e il medio. «Urlare di prima mattina è reato, Bambina.»

Io non capisco nulla, mi gira la testa, mi sembra di stare al luna park, in cima alla ruota panoramica senza nessuna cintura di sicurezza. La mia parte razionale fa così tanto macello dentro di me che la sento quasi urlarmi nelle orecchie:
"HÅBE? Cosa? Cazzo? Hai? Combinato? No. No. Nonono. Ho bisogno di prendere aria. No, ho DAVVERO bisogno di prendere aria. La coscienza qui vuole staccarsi dal corpo! Ehi, qualcuno mi sente? Ehilà?"

«Tu... Io... Insomma... Oh mio Dio.» Cerco di respirare e soprattutto di ricordare, mi prendo la testa con le mani, raggomitolando il mio corpo all'estremo lato del divano, lontano da lui.

Lui che non fa una piega. Anzi, è rilassatissimo. Mi guarda con fare interrogativo, come se dei due quella strana fossi io.
«Che c'entra adesso Dio? Hai fatto sesso con me, mica con lui.» Fa un altro tiro e nel buttare il fumo via alza la testa al soffitto.

Cerco di mantenere la calma. «Ok, ok, ok, cerchiamo di mettere le cose apposto. Adesso tu ti volti e io mi vesto, e se ti azzardi a guardare giuro che ti mollo un calcio nei testicoli!»
«Ti piace violento», scherza, e si gira.
«Cosa... Non dire stronzate!» Divento rossa dalla testa ai piedi, e mi assicuro che lui non stia guardando. Poi mi alzo e mi metto a rovistare a terra: trovo la biancheria intima e i pantaloncini ma nessuna traccia del top; solo dopo aver alzato lo sguardo lo vedo appallottolato davanti la porta d'entrata. Corro a prenderlo una volta abbottato il reggiseno, saltellando su un piede mentre infilo i pantaloncini. Quando sono finalmente vestita mi volto e mi rendo conto che mi sta guardando.

Scuoto la testa. «Stronzo. Hai guardato, vero?» Incrocio le braccia.

«Anche se fosse, Håbe, ti ho visto nuda, sai?», le ricordo, mentre faccio l'ultimo tiro e lascio quel che rimane della sigaretta nel posacenere sul tavolino di fronte al divano. La ragazza esplode in una risata per mascherare l'imbarazzo e probabilmente anche il fatto che è rossa come il suo completo. I capelli sono scompigliati e in disordine; il trucco è sfatto, gli occhi verdi impastati di mascara. Si riavvicina, si piega sul tavolo basso di fronte a me, arraffa la borsa, il telefono, si scosta una ciocca dal viso e sbuffa. «Tecnicamente non è vero che mi hai visto nuda! Ti sbagli!», ride ancora. «Perché né tu né io ci ricordiamo niente di stanotte, quindi non ci provare. Adesso devo andare. Merda.» Guarda il telefono, mentre indietreggia in fretta verso la porta. «Sono le quattro di pomeriggio. Merda. Trenta chiamate perse. Merda

Apre la porta, sta per uscire. Poi si blocca, chiedendo: «...Perché tu non ti ricordi niente di stanotte... Vero?» Si volta e mi guarda.

Inspiro, mi stiracchio, mi abbandono con la schiena sul divano. Con gli occhi chiusi, espiro.
Cosa dovrei risponderle?
No, forse non è la domanda più corretta. Cosa mi sento di risponderle? Ecco, così va meglio.

«No», mento, senza esitare.

Lei fai un sospiro veloce. «Bene, ecco, appunto, perfetto, menomale.» Altra risata isterica.«Allora, ehm, si, ciao, insomma, come ti chiami, ah eh non lo so...»

«Come ci torni a casa Håbe?», chiedo.
Si blocca, ci riflette un secondo. «Prendo un taxi. O me la faccio a piedi. Credo, io...»

Mi allungo verso il tavolo e le lancio le chiavi della mia macchina. «Tieni. La vengo a riprendere io domani.»
Lei non riesce a prenderle al volo, così le raccoglie da terra, passandosi successivamente la mano destra fra i capelli. «Grazie, grazie davvero, si... Però, non voglio farti scomodare, insomma... No va bene, vieni tu a prenderla. Ok, credo di non stare molto bene. Quindi, sì, ciao ehm...»

E rimane ferma.

«Ciao, Håbe.» Sorrido un po' della sua goffaggine, lì immobile e imbranata, con un piede fuori e uno ancora dentro la stanza.
«Sì. C-ciao», balbetta, e chiude la porta.

***

Apro la tenda, mi spoglio, getto tutto quello che ho addosso in un angolo del piccolo bagno, vicino ai cesti dei panni da lavare. Mi infilo sotto il getto d'acqua bollente. I capelli lunghi si attaccano alla mia pelle, lascio il vapore acqueo entrare nel naso, respiro a stento, fa caldo. Aumento il getto. Prendo il bagnoschiuma e comincio a lavare il mio corpo con vigore, insapono più volte le gambe, le braccia.

Ma lo sento ancora.

E allora ricomincio d'accapo.

Ricordo la voce elettrizzata di Dana poco prima, mentre mi raccontava della sua notte in giro per la città con Koky.
Mentre mi chiedeva come era stato fare l'amore per la prima volta.
Ricordo di averle risposto solo di "no", di essere stata troppo fragile anche per parlare, di avere chiuso bruscamente.

Insapono per la quinta volta il collo.

Ma c'è ancora, non si leva.
Il suo profumo.

È ancora lì.

Ormai ho la pelle tutta rossa, a forza di strofinare e di acqua bollente. Qualsiasi profumo dovrebbe essere andato via. Invece quello lì, no, quello no. Mi fermo e rimango insaponata, poggiandomi con la schiena nuda sulle piastrelle della doccia, prendo la testa, mi chiudo a riccio e scivolo giù fino a sedermi.

Può un profumo rimanerti nel cuore?

«Sei in ritardo. Di ben trenta minuti.» Taito mi guarda male, distogliendo l'attenzione dal distributore di bibite. Quando si sente il tonfo, segno che la sua amata 7-Up è finalmente scesa, si piega a infilare la mano nella fessura, nello stesso momento in cui io faccio l'ultimo passo e poso a terra la chitarra piegandomi sulle ginocchia, col fiato corto.
«Mi ero completamente dimenticato di oggi, Taito. Mi dispiace. Pensavo che dopo ieri potessimo concederci una tregua.» 

Stappa la lattina e fa un sorso. Come diamine faccia a bere quella roba, è ancora un mistero per me: sa di caramella avariata. «No, man, dobbiamo assolutamente finire. I ragazzi dello studio saranno qui tra un'ora, dobbiamo dare il massimo. Dai, vieni dentro.»

Abbandoniamo le pareti rosso scuro dell'entrata e ci affacciamo in sala prove. Saluto tutti gli altri e mi scuso.

«A che ora ti sei svegliato, eh, man? Con chi eri? Quanto è quotata Doreen?» Koky mi fa l'occhiolino. Si sistema i capelli davanti al viso, anche lui un po' provato dalla serata precedente. Indossa un berretto azzurro col frontino all'indietro e mi ricorda molto Ash dei Pokémon. Beh, solo con i capelli biondi e la barba. 
«Io dico Viviette e ci scommetto dieci dollari!», fa Jazz, appollaiato come un gargouille sul davanzale della finestra, con in mano il cellulare e in bocca uno stuzzicadenti.
«Jazz, Viviette è stata tutta la sera con quei ragazzi della squadra di football. E non scommettere soldi per cose che nemmeno sai, eri così ubriaco che non ti ricordavi nemmeno il tuo nome!», esordisce Damian, sbucando fuori da un mucchio di spartiti pieni zeppi di annotazioni.
«Non ero con nessuna delle due, e non sono fatti vostri. Siete come tante nonnine pettegole», rispondo, posizionandomi sullo sgabello e aprendo la zip della sacca dove tengo la chitarra.

«Scherzi? Con chi vai a letto tu è questione nazionale. Io pretendo di sapere. Magari era quella tipa imbucata, com'era... Ah si, Clare. O magari Dana. O magari quella nuova amica sua... Mi sfugge sempre il nome... Håbe!»
«O magari era tua madre, Jazz.» Taito fa scoppiare qualche risata, poi batte le mani. «Ognuno ai propri posti, più riusciamo a provare prima che arrivino, meglio è. Forza guys, andiamo!»

***

Mormoro un "ciao" a Koky e Jazz, che se ne vanno, dopo aver stretto la mano ai ragazzi della radio. Gli abbiamo fatto un'ottima impressione e hanno deciso di seguire in modo più costante il nostro lavoro. Sono l'ultimo ad andare via, è legge per noi: chi arriva tardi all'inizio, mette in ordine alla fine. E quindi eccomi alle undici di sera a sistemare gli strumenti. Dopo aver spicciato tutti i fili, metto la chitarra nella borsa e faccio per andarmene. Appena oltrepasso la porticina che separa l'ingresso dalla sala prove, noto che con me è rimasta una ragazza alla reception. Non sono proprio in vena di parlare, quindi quando le passo davanti spero con tutto me stesso che si limiti a salutarmi.

Ma ovviamente no.

«Aspetta! Voi siete i Fourth-off July, giusto?», mi chiede. Mi giro a guardarla, già con un piede fuori dalla porta.

«Sì, perché?» "Vedi di sbrigarti, anche."

Lei si appoggia al bancone coi gomiti, come ci si affaccerebbe dalla finestra.È una bella ragazza, indubbiamente. Riesco anche bene a leggere diverse marche costose sui suoi indumenti. Ha i capelli castani screziati di viola sulle punte, e gli occhi color nocciola, affusolati e grandi. Porta sicuramente le ciglia finte.

«Ho sempre desiderato conoscervi di persona! Piacere. Molto probabilmente non hai idea di chi io sia, ma va bene così. Ho gestito il pubblico in molti vostri concerti.» Sorride, mostrando i denti bianchi.
«Uhm, da quando mi risulta, credo sia un'altra ragazza, Miriam Guerroni, a occuparsi di gran parte dell'organizzazione dei nostri concerti.»
«Hai detto bene, gran parte», ammicca. «Io sono l'altra parte.» Con tanto di occhiolino.
«Ok, uhm, beh, mi ha fatto piacere allora.» Cerco di fuggire.
«Anche a me, moltissimo.» Mi squadra con gli occhi da gatta, mentre si stacca dal bancone per avvicinarsi a me. «Allora, spero di rivederti presto, ehm, come posso chiamarti?»
«Man.»
«Ottimo», squittisce. «Io sono Loren.»


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