Capitolo 14 - Anonimo
La guardo per qualche secondo. Ha dipinta sul volto un'espressione strafottente, gli occhi grandi e verdi mi sfidano; i capelli lunghi sono poggiati su una spalla, ma qualche ciocca ribelle le viene spostata davanti al viso dalla lieve brezza, che fa fluttuare quei fili castani di ragnatela.
«Allora?» incalza. I suoi occhi si piantano nei miei, quasi a volermi entrare nell'anima.
Forse è vero, negli occhi c'è qualcosa di strano. Håbe cha ragione. E se fossero davvero il portale oltre il quale capire il mondo dell'altro? Un passaggio che, attraversato, permetterebbe di percepire un legame talmente forte da poter dire di essere... com'era? Quella roba assurda e dal retrogusto quasi fantascientifico? "Anime gemelle", già.
Ovvio: tutto ciò ammesso e non concesso che l'anima esista e non sia una propaganda di speranza, un po' come le pubblicità in TV. Immagino proprio lo spot. "Credi nell'anima. In paradiso avrai buoni sconto del valore di cinquant'anni anni, da sottrarre al tempo necessario per la tua reincarnazione!"
Ricordo una frase di Håbe dell'altro giorno: "Riuscirò a fare breccia nei tuoi occhi" e per qualche secondo, mi sembra una minaccia bella e buona.
«Io non ballo» chiarisco, mentre finisco la sigaretta e la butto giù, guardandola sparire oltre il parapetto, diventare sempre più piccola. Poi mi volto di nuovo verso la mia intelocutrice.
«Lo sapevo che la tua era tutta scena.» La ragazza si dondola un po', il mento alzato verso il cielo, le braccia incrociate dietro la schiena.
«Lo sai che sembri proprio una bambina?» "Bambina"... potrebbe essere un perfetto soprannome per lei.
«Sembro una bambina, esternamente, ma solo chi mi conosce sul serio sa che non è così» afferma, sicura, il mento ancora all'insù, fiera e convinta.
Inumidisco le labbra, mentre rifletto sulla sua risposta. «Quanto a lungo te la sei studiata questa? Non intendo che sembri una bambina esternamente, no. Dico che lo sembri negli atteggiamenti. Ma penso sia solo uno scudo per la paura che provi di uscire fuori.»
Håbe dà l'impressione di vivere sotto una campana di vetro: felice e contenta, ma sempre e comunque seguendo determinati schemi. Non esce mai dai binari. Non deraglia mai, il suo treno.
Lei sta qualche secondo in silenzio. «Forse hai ragione. Ho i miei muri da superare. Ma a differenza tua, ho anche il coraggio di scalarli. Di provarci, almeno.»
Alzo un angolo della bocca. Se sapessi ridere, credo lo farei. «Non pensare di sorprendermi o di scalfirmi dicendo ovvietà.»
«No, non sei uno che sa sorprendersi. Ma non venire a parlare a me di "uscire fuori", quando tu per primo ti sei chiuso dentro.»
E, detto questo, si volta e cammina verso la porta, aprendola e tornando dentro. Oltre la parete di vetro, la vedo chiamare Dana: spariscono, incamminandosi forse verso la pista, inghiottite dalla folla.
"Ti sei chiuso dentro".
Ha ragione. L'ho fatto. Forse però perché c'era qualcosa fuori.
Distolgo lo sguardo dal locale e guardo in fondo al balcone: riconosco la figura di Taito in jeans e giacca nera. A fianco a lui, una ragazza con un lungo vestito verde: Alexa. I due ballano, i loro corpi impattano, si allontabano e si uniscono di nuovo, attraendosi sinuosi al ritmo con la musica. I capelli corvini, corti e un poco mossi di lei le finiscono sulle labbra, attaccandosi al rossetto rosso fuoco. Taito le poggia le mani sui fianchi e la bacia con trasporto.
"Ti sei chiuso dentro".
Come se avessi mai avuto l'opportunità di raggiungere la chiave della mia prigione. La vedo, forse, adesso. In fondo a questo balcone, che si muove con la musica. È qualcosa di potente, coi contorni sfocati e sbiaditi. È qualcosa di totalizzante, è un'emozione forte.
Ma come si chiama? È il nome. Non riesco... non riesco a pensarlo. C'è Lei, dentro me, è Lei che mi blocca, forse. È Lei che m'impedisce di dargli un nome e una definizione. Ed ecco che i contorni sfocati si affievoliscono sempre più quando Taito e Alexa tornano dentro.
L'immagine si oscura del tutto e ritorno al buio, rinchiuso in quella cella fatta della stessa materia dell'anima.
Indistruttibile.
Ma solo perché non sai se esista davvero.
Ordino al mio corpo di ignorare il dolore. Sento il cinturino delle scarpe col tacco praticamente dentro la carne ormai e la pianta del piede chiede pietà, ma continuo a saltare al ritmo con la musica, nonostante tutto. Mi sembra di essere in un limbo e improvvisamente, qualcuno mi porge un bicchiere, palesandosi davanti a me come una visione. «Tieni!» grida Doreen, al mio orecchio, mettendosi a ballare con noi.
Il cocktail di rumore e gin che ho nel corpo si mixa con un po' di urla. Presto intorno a noi arrivano altre ragazze: amiche di Doreen.
«Balla Håbe, vai così!» mi incita la bionda, mentre cinge la mia vita con un braccio e con l'altro fa la stessa cosa a una ragazza molto bella, dai capelli castani e biondi, fasciata in un vestito di pelle nera che lascia poco spazio all'immaginazione. «Ti presento Viviette!» mi urla Doreen. Io protendo la mano e la ragazza me la stringe. Sul volto ha un'espressione tra il disgusto e la curiosità. «Piacere Håbe!»
«Piacere!» urlo in risposta.
Il volume della musica è cosi forte da farmi vibrare. Mi sembra quasi un terremoto. Lo stesso che man ha portato, senza magari neanche rendersene conto, dentro la mia vita.
Prendo un altro sorso dal bicchiere e comincio ad avvertire uno strano giramento di testa, ma stavolta non ho intenzione di smettere.
Dopo tre canzoni, vedo Dana farmi strani gesti e dirmi di seguirla fuori dalla folla. Doreen ci segue: usciamo dalla pista e la mia migliore amica in arancione ci guida verso una coppia. Il suo vestito brilla quando le potenti luci vi si riflettono conto e quasi mi acceca. Mi paro gli occhi con la mano, superandola per evitare di andare a sbattere contro qualcuno.
Mi blocco davanti alla coppia, frenando malamente sui tacchi. Riconosco lui: è Taito. Accanto a lui, ovviamente, Alexa.
«Ciao Dana!» Alexa la saluta con un abbraccio, prima di fare la stessa cosa con me. Profuma di viole e il lungo vestito verde smeraldo la fascia a risaltarle la vita stretta e i fianchi poco più larghi. Taito mi si avvicina dopo un paio di minuti: anche lui è vestito di tutto punto, con una cravatta nera un po' stropicciata e di traverso, una camicia dello stesso colore e una giacca blu come i jeans.
«Non pensavo ti avrei mai visto così elegante!» affermo.
Lui inclina le labbra sottili e rosee in un sorriso sghembo. «Visto, eh? So sempre sorprendere. Non dimenticarlo mai. Tu, piuttosto. Hai le guance rosse... stai bene?»
Mi tocco il viso con la mano: è bollente.
«Oh, sì, sì tutto ok! Ho ballato tanto, è per quello!»
«Hai anche bevuto tanto, vero Håbe?» mi chiede. Cambia espressione, aggrottando la fronte: Taito Cruz è preoccupato per me.
«Sì, forse un po'» mento: un po' tanto. La testa mi gira, come conferma della risposta.
«Beh, ora cerca di regolarti, ok? Io vado a ripescare man. Ci vediamo tutti alle poltroncine, tra un'ora: dobbiamo giocare! Dillo alle altre!»
E detto questo, sparisce.
"Cerca di regolarti... sì, come no." È proprio quello che non voglio più fare: regolarmi.
Sento la mia testa protestare mentre mi dirigo al bancone del bar: ordino un altro gin tonic. Man ha ragione: seguo continuamente degli schemi e ho paura al solo pensiero di uscirne. Credevo che con quello che era accaduto l'anno scorso fossi diventata più forte.
In effetti è vero: sono diventata me, una ragazza migliore, testarda. Sono riuscita a trarre forza da ciò che mi aveva distrutto, pensavo, per sempre. E lui non è nessuno per dirmi che non sono forte abbastanza.
Non è nessuno per parlarmi di schemi e muri.
Non è nessuno per dirmi che non so distruggerli.
Posso farlo quando voglio.
Posso fare ciò che voglio.
Dondolo con la musica, batto il piede destro al ritmo, sento i miei capelli muoversi sulle spalle. Un sorso, un disperato bisogno di evadere dalla mia vita: metto un piede davanti all'altro per pura fortuna, prendo Doreen e Dana e dico loro che voglio ballare.
Allargo le braccia, chiudo gli occhi, abbandono la testa: stanotte sarà la più vera e la più irreale di tutte.
Le persone, il gin, la faccia di Doreen, il colore del suo vestito, i neon, la musica nei timpani: tutto diventa un vortice, colorato e disturbante.
Riesco a formulare l'ultimo pensiero compiuto, ed è un "vaffanculo". Non so rivolto a chi: forse a man, forse a me stessa.
Poi non ricordo altro.
Mi accascio sul divano, rovesciando per sbaglio un po' di vodka sul ginocchio: poco male, i pantaloni sono già macchiati dell'assenzio che stava bevendo Jazz prima di cominciare a rovesciarlo ovunque. Lo osservo passare davanti a me, accompagnato da Damian, mentre dice parole sconnesse. Si muove a scatti e singhiozzi, completamente andato. Poi finalmente si accascia a terra, sul tappeto, ma continua imperterrito a parlare. Damian scuote la testa, mi guarda e ride, prima di mettersi seduto vicino a me.
L'orologio segna le tre di notte.
«Ma dove sono quei coglioni?» chiede Damian. La barba rossa, lasciata un po' incolta, gli incornicia le labbra, mentre i ciuffi di capelli ricci e ribelli gli cadono fin troppo sugli occhi. Si passa una mano sulla fronte, per tirare su quella zazzera color rame.
Taito fa capolino dalla folla, come se avesse colto la domanda di Damian: tiene ovviamente la mano di Alexa.
Poi spunta fuori Koky, nel suo mezzo smoking azzurro. Riemerge dal bancone del bar con un'intera bottiglia in mano. Si siede su una poltroncina, dopo avere aiutato Taito a disporne alcune altre a cerchio.
«È il momento dei giochi dei ciucchi!» singhiozza Jazz. «Voglio le donnine nude!»
Damian si leva una scarpa e gliela lancia, prendendolo proprio sul ginocchio. Lui si limita a ridere, accasciandosi a terra.
Mi metto comodo sul divano. La mia camicia, una volta perfettamente stirata, è adesso tutta stropicciata.
«Taito, menomale che dovevamo essere qui un'ora fa» si lamenta Damian. «E poi Lazy-Jazzy ha ragione, che fine hanno fatto le altre?»
Taito fa spallucce. «Le ho viste ballare qualcosa come due ore fa.»
«Beh? Vai a cercarle!» lo incita Damian, un un gesto della mano.
Mi alzo. «Vado io.»
Prima che possa fare anche un solo passo, scorgo il completo rosso di Håbe, che esce dalla folla. Davanti a lei, Doreen, che la tiene per mano, la trascina e ogni tanto si gira a guardarla ridendo.
La bionda si ferma e fa un saluto con la mano libera, ma Håbe continua a camminare e va a sbattere contro qualcuno. Scoppiano tutti a ridere.
Scuoto la testa, rimanendo in piedi a guardarla. È rossa in viso, ride di gusto mentre cerca di scusarsi con chi ha urtato. Il ragazzo se ne va indignato, dicendole qualcosa che non sento: lei ride ancora di più.
Poi mi vede, mi saluta con la mano e si dirige verso di me, ma non riesce a stare in piedi, quindi cade. Si rialza dicendo parolacce e si leva le scarpe col tacco, prima di fermarsi a un passo dal mio corpo, barcollando.
Mi guarda negli occhi: i suoi sono enormi e rossi. Ha tutti i capelli scompigliati, la maglia storta, il rossetto sbavato sull'angolo destro della bocca e il mascara un po' colato per via delle lacrime nel ridere.
Sospiro.
Ne ho vista tanta di gente alle prese con la prima sbronza. Ma nessuno era mai riuscito a farmi ridere delle sue condizioni. Nessuno, tranne Håbe.
«Queste cose non le fai quando non sono sbronza, ah! Ride, lui! Sono troppo noiosa da sobria, vero?», singhiozza, e mi dà una spinta con la mano alla spalla. Intorno a me sento tutti gli altri ridere.
«Sei davvero uno spasso. La nuova mascotte del gruppo. Congratulazioni, Håbe.» Scuoto la testa.
Ho una voglia matta di ubriacarmi anch'io, di perdere i sensi, ma questa sbronza non vuole arrivare. Probabilmente comincio ad abituarmi fin troppo all'alcool.
«Su, su, voi due piccioncini! Dobbiamo cominciare!», dice Doreen, battendo le mani e ridendo, entrando nel cerchio di poltrone a ritmo con la musica. Dà una botta col sedere ad Håbe e lei mi crolla addosso.
Mi sottraggo velocemente e torno a sedermi sul divano.
Cerco di non pensare al contatto appena avvenuto con la sua pelle. Questa mia cosa è difficile da spiegare. Penso che il contatto fisico debba essere qualcosa di voluto, da entrambe le parti. Ecco perché mi piace il sesso, ad esempio.
È consensuale: non sopporto essere toccato senza che io lo permetta.
Metto le mani dietro la testa e mi poggio comodamente sullo schienale. Le ragazze sono tutte indaffarate, e ridacchiano tra loro con le bottiglie in mano. Ne mettono una al centro del cerchio.
Håbe rimane lì a confabulare con le nuove amiche, poi si mette seduta sul tappeto.
Doreen al mio fianco cerca di zittire tutti, dice che la direttrice la fa lei per i primi otto giri come al solito e fa girare la bottiglia.
La sorte finisce su Taito. Lui si alza barcollante. I contorni della sua figura sono sfocati, forse l'alcool comincia a fare effetto anche su di me.
«Obbligo o verità?» chiede la nostra bionda direttrice di scena.
«Mi conosci.» risponde il punk-emo poco sobrio.
«Io ti obbligo a... infilare una mano nei pantaloni di Jazz!»
Un coro di "bleah" si alza dalla folla, e la ragazza di Taito, Alexa, si mette le mani sugli occhi. Credo sia effettivamente l'unica sobria qui in mezzo. «Prima di toccarmi di nuovo dovrai lavarti con la candeggina, Taito Cruz!»
Tra le risate generali, Jazz alza il culo da terra. Letteralmente. Si fa avanti carponi, col sedere all'insù e lo sventola verso Taito che lo guarda inorridito. «Io non farò mai una cosa del genere!»
Comincia il tifo da stadio tipico degli ultras o degli strafatti. O entrambe le cose insieme.
Taito infila una mano nei jeans di Jazz. Il punk-emo indietreggia subito schifato, e corre via. A lavarsi la mano probabilmente.
La bottiglia gira ancora.
E finisce su di me.
Un coro di approvazione.
Mi volto verso Doreen. «Sorprendimi, bionda.» le dico, prima che possa anche solo farmi la domanda.
Lei ci pensa su e mi guarda negli occhi, ridendo, la mano davanti al viso. Quando abbassa lo sguardo, dice. «Io ti obbligo a ballare con Håbe!»
«Scherzi, vero?»
«E' un obbligo, devi farlo!»
Mi alzo, Håbe intanto sta ridendo e si è tirata su. «Ma non vale, son bassa, mi rimetto i tacchi io, come faccio a ballare con un lampione del genere, insomma...»
Mi avvicino a lei e le metto una mano sulla vita. Al contatto con la sue pelle sento una scossa elettrica molto poco piacevole. «Facciamola finita presto, ok?» Mi manca l'aria, ad avere qualcuno così vicino.
Comincio a camminare in avanti. Lei è tutta rossa in viso, ed evita di guardarmi. Così la provoco, tra i fischi e gli schiamazzi animaleschi dei miei amici intorno, e le urlo: «Sai cosa mi rassicura?»
«Cosa?» mi chiede.
«Che non ricorderai un cazzo di tutto questo domani! E spero anche io!»
Lei butta la testa all'indietro, poi quando torna su mi dà uno schiaffo. «Stronzo!»
I ragazzi esplodono.
La faccio girare, ma insieme a lei vedo girare anche il resto del mondo. Mi butto sul divano, l'alcool quasi finalmente al cervello. Lei barcollando mi segue con l'ultima giravolta e mi si butta addosso, tossendo e ridendo.
Cerco di scansarmi, ma il divano è troppo piccolo. Il suo viso è proprio sopra il mio, i suoi capelli mi cadono sul petto, e riesco a sentire le poche tracce del suo profumo rimaste sul collo, oltre all'odore di mojito e vodka.
La guardo negli occhi e lei mi guarda negli occhi, non so cosa ci sia fuori ma non ho abbastanza neuroni sobri per concentrarmi anche su quello che stanno facendo gli altri.
«Sai una cosa? Mi ero ripromessa di lasciarli perdere quelli come te! E lo sai anche? Beh, io sono vergine! Immagino sia come avere la peste per te vero?»
Noto per la seconda volta l'unica fossetta che le si forma al lato destro della bocca quando ride.
«Sei uno spasso da ubriaca.»
«E poi – prosegue, mettendo apposto il colletto della mia camicia – io non uscirei mai con uno così bello. Quelli belli portano solo guai. Te lo hanno mai detto che di solito quelli belli baciano male?»
«Ah si? Questa mi mancava!» urlo ancora più forte.
È un attimo, i suoi capelli si muovono e all'improvviso non sono più sul mio petto ma sul collo. Il suo viso è più vicino, i nasi si toccano e le sue labbra si muovono sulle mie.
Rimango immobile, cerco di non fare nulla, ricambio solo alla fine il bacio.
Lei si stacca un po', io sospiro, guardandola.
Che mi aspettavo?
Non lo so neanche io.
Magari credevo fosse diversa.
E invece è come le altre. Ma alla fine? Che mi importa?
Decido che lo scherzo può finire qui. La scanso e mi alzo.
Getto un saluto al vento e raggiungo l'ascensore facendomi largo tra la folla in pochi minuti. Sono deluso? Forse un po' sì. Forse non me l'aspettavo e basta.
Sento qualcuno chiamarmi, mi volto.
Håbe mi corre incontro, schivando le persone a terra e quelle chissà come in piedi.
«Ehi! Io devo tornare a... casa», singhiozza. Inciampa davanti a me, sbanda, però riesce a raggiungermi. Ha le scarpe in mano, la borsa sottobraccio e i capelli scompigliati.
«Vuoi davvero tornare a casa così?», le chiedo.
Sembra pensarci su.
«Perché? Oh... beh, magari potrei... Dana...» La ragazza si volta, e cerca l'amica con lo sguardo.
«L'ho vista andare via un'ora fa», ricordo.
«Oh, diavolo! Dovevi vedere come la sbranavano con gli occhi i tuoi amici. Avrà rimorchiato sicuro!», dice felice e mi guarda fisso.
Alzo le spalle, la testa che batte. «Muovi il culo, sali.»
Entro nell'ascensore, lei mi segue, io gioco con le chiavi della macchina nella tasca. Non è proprio il caso di guidare: prendo il telefono e faccio una chiamata.
«Ehi, ciao man! Serve un passaggio?» La voce dell'autista dell'albergo sembra uscire dal telefono ed entrarmi nell'anima, la sento scavare dentro alle ossa: un'eco distruttiva.
«Sì, Carlo, sono ridotto male.»
«Prendo la macchina, ti aspetto fuori.»
«Grazie.»
Chiudo la chiamata.
***
Cerco per un minuto intero di infilare la chiave nella serratura di casa. E di certo Håbe non aiuta.
«Comunque, avevano ragione: quelli belli baciano male. Chissà come fai ad avere tutte quelle ragazze che dici di avere. La fila, no. Già. Credo di dover vomitare. Se vuoi una mano chiamo i vigili del fuoco e buttiamo giù la porta», ride.
Apro ed entro. Accendo le luci e il riscaldamento con dei gesti automatici. La sento entrare e chiudere la porta alle mie spalle. Mi abbasso le bretelle, tolgo le scarpe, e mi godo il silen...
«Hai una casa anonima, sei una persona anonima, ti nascondi dietro una vita anonima. Nessuno sa niente di te, nessuno sa, non serve sapere, tanto a chi cazzo importa come ti chiami no? Sicuramente non a te. Cazzo, mi gira tutta la test...»
Mi volto e la imprigiono tra il mio corpo e la porta, stando attento a non toccarla.
Lei rimane immobile, per un momento sussulta mentre andando all'indietro colpisce il legno.
«Ok, Bambina. Ne ho abbastanza. Se vuoi qualcosa da me devi dirmelo in faccia. Altrimenti vai a vomitare in bagno, è libero.»
Lei inarca un po' la schiena, sistemandosi contro la porta. Poi si mette a ridere, e mi viene sempre più vicino.
Le sue mani toccano lentamente il mio petto, scivolano fino alla cintola, dove prendono la camicia e la sfilano dai pantaloni.
Chiudo gli occhi e cerco di calmarmi. Sospiro. Scollego il corpo dal cervello, ora non mi appartiene più. In un certo senso accetto che lei mi sfiori, disattivando lo scudo biologico del mio corpo, almeno finché lo vorrò.
«Ma per inciso: solo perché sono ubriaca, e non sento più neanche un briciolo d'orgoglio in...» Premo le mie labbra sulle sue. Lei risponde con foga mentre mi sbottona la camicia: veloce la sfilo, gettandola a terra. La sollevo, le mani sulla sua vita, mentre lei mi chiude il busto fra le gambe. Ci baciamo ancora, le nostre lingue si uniscono e si allontanano, per poi incontrarsi ancora. Le sfilo il top, lei mi spinge.
Un attimo di vuoto, il mio cervello si annebbia, ci ritroviamo sul divano, sento le sue mani sulla schiena. Le slaccio il reggiseno, mentre lei sussulta e il suo corpo sotto di me si inarca: ho le dita congelate. Quando non rimangono più vestiti da togliere, comincio a baciare la sua pelle e lei, completamente persa, manda la testa all'indietro, gli occhi chiusi.
Farò piano, non intendo farle male.
Non fisico, perlomeno.
E quindi, facciamo sesso. Non perdo conoscenza finché non mi sdraio su un fianco, schiacciato tra lei e lo schienale del divano.È in quel momento che, mentre chiudo gli occhi, il mio cervello finalmente si spegne e mi sembra di fluttuare via, di non essere nemmeno più me, di diventare un'altra persona.
Una persona un po' meno... anonima.
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