Capitolo 11 - Solo
Il supermercato è piccolo, ma pieno di gente. È il turno dello Sconosciuto al bancone del pane in fondo alla corsia gremita di persone alla ricerca di questo o quelll. Mentre dice ciò che vuole all'addetta del reparto, tutto il resto della fila guarda il ragazzo.
Allora lui si tira su il cappuccio del giacchetto; lo vedo prendere il sacchetto che gli viene passato e poi metterlo nel carrello frettolosamente, voltandosi a guardarmi subito dopo. Mi inchioda con quegli occhi blu per qualche istante; dopodiché fa un cenno con la testa verso sinistra, prima di sparire.
Mi metto a ridere. Nonostante sappia benissimo di attirare in modo inevitabile l'attenzione, cerca lo stesso di nascondersi.
Lo seguo. Quando svolto nella corsia del reparto surgelati, lui sta allungando il braccio verso una vaschetta di prosciutto. Io non sarei mai riuscita ad arrivare fin lassù dal mio metro e sessanta scarso.
Mi guarda per una frazione di secondo. Ha ancora il cappuccio sui capelli.
«È inutile che ti nascondi, sai.»
«Nascondermi?»
«Anche col cappuccio, la gente ti noterà lo stesso.»
Lui mette un'altra busta nel carrello, poi si volta e cammina, chiedendo: «E perché dovrebbe?»
Sbuffo. Ma non faccio centro. Lo Sconosciuto non fa una piega, non alza un sopracciglio, non ha un'espressione che sia una. Continua a guardare i banconi, con gli occhi sfuggenti che percorrono frettolosi le varie marche. La corazza che ha addosso è più spessa di quanto pensassi.
Decido di cambiare argomento. «Sai, nella mia testa continuo a chiamarti "Sconosciuto". Proprio non vuoi dirmi come ti chiami?»
Non risponde. Anzi, cambia proprio corsia, così che io sia costretta a seguirlo, ancora.
«Va bene, lo prendo come un "no", non te lo chiederò più. Ma almeno dimmi un modo con cui chiamarti. Che so, un nomignolo o un soprannome.»
Non ci pensa su un secondo. «Man.»
«Man» ripeto.
«Con la lettera minuscola. Uomo. Niente di più, niente di meno.»
«Beh, è già un passo avanti» dico.
Lo vedo scuotere la testa. «Se lo dici tu.»
Incrocio le braccia, piccata. «Secondo te non dovrebbe esserlo?»
«Non c'è niente di più impersonale della parola "uomo". Non credo che chiamarmi man ti aiuti a capirmi. La tua missione scarseggia un po' di informazioni, a quanto vedo.»
«Ehi, per quanto riguarda la mia "missione", quelli sono fatti miei. Piano piano farò breccia nei tuoi occhi, non ti preoccupare.»
Il cappuccio mi cade quando mi volto a guardarla.
I miei occhi. Vuole fare breccia nei miei occhi. Con tutto quello che potrebbe fare, lei ha scelto di fare breccia nei miei occhi. Potrebbe andarsene in giro da sola a scattare foto, oppure comprare un pacchetto di pop corn e correre casa a vedere un film con la sua bella famigliola, oppure ancora potrebbe chiamare Sam e chiedergli di uscire, quello accetterebbe subito.
No.
Lei vuole fare breccia nei miei occhi.
«Pensa tu. È proprio strana, l'umanità. Non smette mai di stupirmi» commento, sospirando.
«Ne parli come se tu non ne facessi parte.»
È proprio questo il punto.
«Infatti, io non faccio parte di niente.»
«Sei solo?»
«Sì.»
«E ti sta bene così?» insiste. I capelli ramati le scendono tutti davanti al viso e sfiorano i prodotti riposti con cura dentro al banco frigo dove la ragazza sta osservando chissà cosa.
«Sì.»
«Beh, allora, dal mio punto di vista, sei un povero illuso. Se non ti lasci andare, se non ti apri e non ti riveli, nessuno verrà a salvarti.»
Mi viene quasi da ridere. «Salvarmi? Da cosa, da chi?»
«Da te stesso.»
Sussulto. Se ne sta lì a fissarmi, adesso, mordendosi il labbro inferiore. Il vestito blu che porta rende i suoi occhi screziati e li fa sembrare del colore del mare, quel verde che non è verde ma non è nemmeno azzurro: è qualcosa di indescrivibile.
La bestia ulula, cercando di capire anche lei perché quella ragazza è così diversa. E mi scuote le ossa, i muscoli, mi blocca il sangue nelle vene, quando ringhia.
Forte.
In un secondo, sono costretto a voltarmi, a distogliere lo sguardo da Håbe.
Davanti a me trovo l'uscita del supermercato ma non l'uscita da me stesso. Forse quella, quella non l'hanno ancora inventata.
«Ho finito. Vado alla cassa. Tu puoi anche tornare a casa.»
Non appena il sangue torna ad arrivare al mio cuore e la bestia si assopisce, posso di nuovo pensare.
"Il povero illuso sei tu. Nessuno verrà a salvarti. Da te stesso." Quelle parole volteggiano come bolle di sapone nel mio cervello. Inconsistenti e così volubili, così sottili e così fragili, da non dar loro la minima importanza. Eppure ci sono, sono lì, anche se presto scoppieranno, come le mille altre parole simili che mi son state dette nel corso di questi vent'anni.
Non sono mai riuscito a tenermi qualcosa. Ogni volta ho fallito. Le mie mani sono piene di buchi e il mondo intero è una cascata di sabbia, la quale, senza che io voglia, mi cade addosso e scivola via, inesorabilmente. Quei pochi granelli a cui mi aggrappo, alla fine, non sono altro che illusioni. Mi aggrappo alla voglia che ho di credere che tutto questo avrà uno scopo un giorno, che tutto questo troverà una sua fine, fine che magari giustificherà l'inizio.
Le bolle di sapone nella mia testa scoppiano, annientate dai miei stessi pensieri.
Perché è così: magari cambierà, ma per adesso, tutto è solo sabbia.
«Ehi, aspetta! Non puoi piantarmi così.»
La sento raggiungermi. Intanto, mi metto in fila nella cassa numero tre, dopo una coppia con un bambino. La ragazza che è dietro il bancone sorride e mi saluta. Vengo spesso qui, quindi ormai è un volto familiare. Ricambio il saluto.
Håbe arriva al mio fianco. «Insomma?! Secondo te davvero io ti lascerei da solo e me ne andrei? Siamo soci, vecchio mio.»
Finisco di mettere la spesa sul nastro, poi le passo il carrello che lei mette apposto.
Una volta pagato e messo gli acquisti nelle buste, saluto la commessa e usciamo dal supermercato. Il vento si è calmato un po', ma lo sento ancora scompigliarmi i capelli.
Per essere il diciassette maggio, inoltre, fa davvero caldo. Il sole è ormai tramontato e sparito dietro i grattacieli, eppure c'è ancora luce. Le insegne e gli appartamenti si accendono e gli enormi cartelloni pubblicitari, arrampicati sui palazzi come scimmie, mandano il mio cervello in tilt per quanti colori mi riversano addosso tutti insieme. I pullman panoramici sono pieni di persone e turisti che da lassù si gustano quel chiasso di profumi, suoni e tonalità diverse che è New York. Anche i marciapiedi pullulano di persone: io e Håbe siamo costretti a farci largo tra la folla. Imbocchiamo lo stesso stretto vicolo, e lì fortunatamente non passa nessuno.
Respiro. Stare tra la folla non mi piace.
«Ehi, man. Ho... Ho detto qualcosa di sbagliato, prima?», chiede Håbe, dietro di me.
«No. Perché?»
«Perché non mi hai più parlato.»
«Non ti ho parlato perché non avevo nulla da dire, evidentemente.»
«Già. Ma avevi molto da pensare.» La sua voce è bassa, quasi cauta. Attenta.
Scrollo le spalle. «Io ho sempre molto da pensare.»
«Lo ho notato. Chissà come deve essere stare nella testa di un tipo del genere.»
«Non è come pensi», mi affretto a dire.
«E com'è? Spiegamelo, perché io non lo so.»
«Non ci riuscirei.»
"Non capiresti, soprattutto", penso, ma non lo dico.
«Se ti arrendi in partenza è ovvio che non ci riesci! Tu devi...»
Mi blocco e mi volto a guardarla. Lei se ne rende conto troppo tardi e io credevo fosse più distante, quindi mi viene praticamente addosso. Barcolla un secondo e si allontana da me di un passo, lamentandosi: «Santo cielo non puoi fermarti così all'improvviso! Stai atten...»
«Senti. Io non sono il giocattolo nuovo di nessuno. Questa cosa sta diventando imbarazzante. Non per me, a me non frega niente, ma per te. Io non uso mezzi termini, Håbe. Quando mi stufo di qualcosa, non ci penso due volte a piantarla. Invece tu?»
Rimango immobile, e ci penso qualche secondo. «Anche io se mi stufo di qualcosa non ci penso due volte a piantarla. Ma questo che significa?»
«Significa che se dovessi stufarmi di te, beh, te ne accorgerai. Ma penso che ti stuferai molto prima tu di me. Ricordatele, queste parole.»
Sposta entrambe le buste della spesa su un braccio. Mi studia in volto e ho paura che legga il mio stato d'animo: confusione. Perché dovrei sentirmi in imbarazzo? Perché gli sto andando dietro, per questo?
Ma allora non ha capito proprio niente. Non ha capito che la mia intenzione è solo aiutarlo: voglio stargli al fianco, non dietro.
«Sei troppo abituato a essere seguito, e non accompagnato», gli rivelo.
E lui alza le sopracciglia. «Cosa ne sai, tu?»
«Non lo so. L'ho tirato ad indovinare. Ci ho preso?», ammicco.
La risposta è affermativa perché il suo volto si indurisce e gli occhi si fanno ancora più vitrei. Sta per dire qualcosa, quando una musichetta familiare ci interrompe. Solo dopo qualche istante realizzo che è il mio cellulare.
Lo prendo dalla borsa e vedo che è Dana. «Scusami un secondo», mormoro velocemente, e rispondo.
«Ehi Håbe! Tu non immaginerai mai!»
«Dana? Che succede?»
La sua voce è a dir poco sudigiri. Mi allontano di un passo da man, facendogli segno di aspettare.
«Che succede? Te lo dico io che succede! Alexa Dawson, ecco che succede! Ti ho detto che abbiamo cominciato a sentirci spesso, no? Beh, si dà il caso che dia una mega-festa questo sabato e ci ha invitato! Io e te! E indovina dove? All'hotel più figo degli hotel fighi! E indovina chi ci sarà? No aspetta devo dirlo io! Taito Cruz ed i Fourth-off July! Ci pensi? Oddio!»
Mentre la sua voce squittisce nel mio orecchio destro, mi volto di scatto verso man che mi guarda come a dire "Beh?"
Ricordo della telefonata che ha avuto lui prima. Aveva risposto a Taito "Non so se ci sarò."
Che si riferisse proprio alla festa di cui sta parlando ora Dana?
«È fantastico, Dana, davvero!»
Le ho parlato di man nei giorni scorsi. I Fourth-off July sono la sua band preferita e sarebbe svenuta per terra sapendoci insieme.
«Ci saranno tutti! Ti rendi conto? Tutta la band! Anche il tuo amico, lì, SenzaNome! E un sacco di altra gente. Pazzesco, no? Che figata! Tu che ti metti? Io ti giuro non ne ho idea! Ma... sei a casa? Sento rumore di traffico o sbaglio?»
«No, beh...» Decido di dirglielo. Un infarto in più o in meno, non avrebbe fatto la differenza. «Sono in centro con SenzaNome.»
Quando dico così, man alza il capo, e si rende conto che "SenzaNome" è lui. Sembra anche divertito dalla cosa, perché storce un angolo della bocca.
Un attimo di silenzio, e poi sono costretta ad allontanare il telefono dall'orecchio per non giocarmi la sensibilità di quest'ultimo. «COSA?! E non mi dici niente? Oh merda, ma ti sei resa conto di quanto è bello? Håbe POWELL! Io e te dobbiamo fare un discorsetto! Adesso vi lascio, piccioncini! Appena torni vieni da me ok? No, non è una domanda, è un ordine. A dopo menina bonita!», e chiude la chiamata.
Rimango un attimo a fissare il telefono, scuotendo la testa per la follia della mia migliore amica; lo rimetto in tasca subito dopo.
«SenzaNome, eh?», fa lui. «Mi piace.» Si poggia le buste della spesa sulla spalla destra, tenendole con la mano.
«Ci vai alla festa?», chiedo, fecendo finta di nulla, curiosa della sua reazione.
Spalanca gli occhi e forse è il secondo accenno di emozione che gli vedo sul volto da quando l'ho conosciuto, contando la mezza risata di qualche giorno prima. «Cosa? Tu..?»
Scoppio a ridere. «Quella con cui ero al telefono è Dana, la mia migliore amica. Conosce la fidanzata di Taito, Alexa, e beh, la conosco anche io. Quindi ci ha invitato alla festa.»
Torna subito nei ranghi dell'apatia, e inclina un po' la testa, lo sguardo perso nel vuoto o perso altrove, chissà. Si volta e continua a camminare.
Lo seguo. Che altro posso fare? Voglio sapere se verrà.
«Allora? Ci sarai?»
Ma non mi risponde.
Il tragitto verso casa sua sembra infinito. Lui non parla e io nemmeno. Comincio a imparare come funziona con questo qui: dopo un po', lui si eclissa.
Sospiro. Lui se ne accorge e mi guarda. Siamo fianco a fianco, così vicini e così lontani. Allora lo guardo anche io. Reggo per qualche secondo, ma mi stanco subito di sostenere quegli occhi così intensi, e torno al marciapiede. Spero di non essere arrossita.
Penso che ci vorrà tempo.
Tanto tempo.
Ma voglio gustarmi ogni giorno con lui, perché non so come, non so perché e non so secondo quale piano o quale stupido progetto ma... Sento che lui è speciale.
Arriviamo fino al palazzo, saliamo le scale. Quando siamo di fronte alla sua porta, la apre con le chiavi ed entra dentro. Io tentenno sulla soglia, lui posa le borse della spesa per terra.
Sto per girarmi e andare via. Non voglio dargliela vinta, no.
Mi volto, e poi... «Tu ce l'hai la macchina?», mi chiede. Mi dà le spalle, e io gli do le spalle. Fisso la tromba delle scale.
"Che razza di domanda è?" «No, quando posso uso quella dei miei. Che ti importa?»
«Ti passo a prendere alle otto, sabato.»
E chiude la porta.
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