Miodesopsie
Racconto horror con elementi splatter, se siete facilmente impressionabili passate oltre.
*****
Quei disgustosi piccioni continuano a bivaccare sul balcone della signora Smith. Il loro tubare mi ha disturbato per tutta la notte. Non mi importerebbe granché di quegli stupidi animali, se non fosse che quel balcone è proprio sopra il mio e gli escrementi di quei volatili rischiano di sporcarlo. Non è igienico.
Finisco di rifare il letto, poi prendo i documenti che devo portare in ufficio e li ripongo accuratamente in una cartella nera, facendo attenzione a non piegarli o stropicciarli. Da quando Gabri se n'è andato, in casa regnano finalmente ordine e silenzio. Niente più dentifricio spremuto a metà tubetto, niente più calzini sparsi in giro, niente più confezioni di latte lasciate fuori dal frigo. Il paradiso.
Esco dal mio appartamento correndo e imbocco con sicurezza le scale. Il vecchio ascensore del mio palazzo è ancora rotto. I tecnici avrebbero dovuto sistemarlo più di un mese fa, ma è ancora inutilizzabile. Poco importa, sono sufficientemente in anticipo da potermi permettere di scendere sette rampe di scale a piedi.
Appena uscita dal portone mi avvio, borsa in spalla e cartella sotto il braccio, verso il mio ufficio. Dista quasi cinque kilometri da casa mia, ma non ho intenzione di prendere l'auto. Ho voglia di camminare. Ho bisogno di camminare. Le passeggiate mi hanno sempre aiutato a riflettere e ora ho molte cose a cui pensare.
Vedo un gatto, dal rivoltante pelo rosso e sporco, che sta comodamente seduto sul ciglio della strada. Se non sta attento rischia di essere investito. Guardandolo attentamente mi sembra che ci sia qualcosa accanto a lui, una sorta di ombra nera sembra affiancarlo. Sbatto le palpebre un paio di volte e mi sembra che l'ombra si sia fusa con l'animaletto. Ora appare anch'esso nero. Sono certa di aver avuto un'allucinazione. Sicuramente ho dormito poco e il non aver bevuto il solito caffè mattutino mi deve aver penalizzato.
Per un istante credo che il gatto mi stia sorridendo.
Quando arrivo in ufficio trovo Felipe davanti alla macchinetta del caffè, sta chiacchierando con quel collega di cui non ricordo mai il nome.
- Ciao Mary!
- Ciao! - gli rispondo sorridente. Lo odio. Fintanto che resta davanti alla macchinetta non posso prendere il mio amato espresso.
Entro nel mio ufficio, sbattendo la porta alle mie spalle. Mi dirigo verso la finestra e faccio ruotare le veneziane fino a che assumono un'angolazione di quarantadue gradi esatti rispetto alla finestra, come faccio ogni mattina. Sul vetro vedo dipinte delle strane macchie nere. Sembrano quelle gocce che vedi di tanto in tanto fluttuare davanti agli occhi. Miodesopsie, mi sembra si chiamino.
Per qualche motivo, appena lascio la cordicella che regola la loro inclinazione, le veneziane tornano al loro posto. Tiro ulteriormente lo sporco pezzo di spago. Le veneziane non si muovono. Inizio a strattonare e tirare la cordicella. Sembra infinita. Non succede nulla. La rompo, mi resta in mano. Le veneziane sono rimaste nella stessa posizione in cui erano prima che entrassi nella stanza. Le macchie sul vetro vibrano. Non capisco se sono realmente lì o sono i miei occhi che mi stanno giocando un brutto scherzo.
Un rumore proveniente dall'esterno del mio ufficio mi impedisce di riflettere su quanto appena successo. Sembra che qualcosa di metallico sia precipitato sul pavimento.
- Accidenti! - sento qualcuno urlare.
Esco dalla stanza incuriosita. Vedo Felipe, girato di spalle che sembra guardarsi la camicia. Quando si volta vedo una macchia di sangue enorme ricoprirgli il petto. Ha uno squarcio nella camicia, attraverso il quale riesco a vedere la pelle lacerata e, al di sotto, la gabbia toracica frantumata. Ai suoi piedi, oltre a un coltello sporco, c'è un denso lago di melma rossa, che continua ad accrescersi, alimentato dalla ferita gocciolante dell'uomo.
- Mary, per caso hai un detersivo a portata di mano? Devo pulirmi subito, altrimenti resta la macchia.
Lo guardo sconcertata dall'assurdità della sua affermazione.
Una macchia nera lo circonda, sembra voglia inghiottirlo.
Quando vedo uno dei suoi occhi squagliarsi per andarsi ad aggiungere alla pozza di sangue nero, corro fuori dall'edificio.
- Quante storie che fa per un po' di caffè. - gli sento dire.
La mia corsa disperata in direzione del mio appartamento spaventa il gatto rosso che avevo visto prima. L'animale si getta in mezzo alla strada e viene afferrato da quell'ombra nera che lo aveva affiancato fino a pochi minuti prima. La stessa che avevo visto perseguitare Felipe.
Sento uno stridere di pneumatici e vedo l'ombra squartare il quadrupede, emettendo un inquietante rumore di ossa spezzate. Le budella fuoriescono dal suo corpicino, come spermute da una invisibile schiacciasassi. Quella specie di misteriosa illusione ottica gli mozza di netto la testa. Una delle zampe finisce vicino ai miei piedi. Non so se mi fa più schifo l'insieme di muscoli e pelle maciullati o il suo pelo sporco.
La cosa che mi spaventa di più è l'indifferenza da cui sono circondata. Macchie nere invadono il cielo. Piove nero. E nessuno sembra accorgesrsene.
Alcuni schizzi di sangue sono finiti sulla mia blusa. Cerco di pulirli con la saliva mentre corro verso casa. Per un attimo spero di trovarci dentro Gabriel ad aspettarmi. Lui è bravissimo a pulire. Gli piace pulire. Io lo odio. Odio toccare le cose sporche. E odio anche lui. Sono contenta che se ne sia andato.
Quando arrivo nell'androne nel mio palazzo vedo la signora Darcy entrare nell'ascensore. Cerco di avvertirla che è guasto.
- No Mary, che dici! Lo hanno aggiustato più di un mese fa!
L'ombra che prima aveva fatto a pezzi il gatto ora sta alle spalle della signora Darcy. Vorrei dirle che è in pericolo. Ma, in fondo, sarei contenta se facesse la stessa fine di quell'animale. La detesto quasi quanto detesto i gatti.
Le porte scorrevoli dell'ascensore si riempiono di aguzzi denti, canini taglienti ed enormi che appartengono all'impalpabile ombra. Si richiudono di scatto sul braccio dell'anziana donna. Vedo il sangue imbrattare le pareti dell'ascensore, mentre quelle affilate fauci tranciano il suo l'arto. E vedo il suo volto rilassato e sorridente attraverso le porte a vetri trasparenti. Sembra che non abbia avvertito nessun dolore.
E poi l'ascensore precipita. Cade verso il seminterrato, spinto da una forza maggiore di quella di gravità. Si schianta al suolo. Credo che il rumore sia dato anche dall'esplosione del cadavere della signora Darcy. Quando mi getto lo sguardo sul luogo dell'impatto vedo una mano e alcune dita sparse in ordine casuale svettare sulle macerie.
Credo di non essere né spaventata né dispiaciuta.
Salgo le interminabili scale. Ho fatto bene ad aver sempre evitato l'ascensore. Sarei morta come è morta quella donna insopportabile.
Arrivo a casa. Il tubare dei piccioni risuona fra le mura del mio appartamento. Quegli uccelli rivoltanti devono essere entrati in casa mia!
Esco sul balcone come una furia. Ci sono volatili ovunque. Defecano sangue. Vedo l'ombra nera ingerire uno di quegli animali, intero. Un lago rosso invade il piccolo terrazzino, macchiandomi anche le scarpe. Le mie belle scarpe nuove sono sporche di sangue di piccione. E la colpa è tutta della signora Smith.
Rientro in casa. Trasecolo quando vedo la testa del gatto rosso fissarmi con occhi spenti. Ha la lingua di fuori, bloccata in un'espressione quasi di scherno, e alcuni nervi fuoriescono dal suo collo lacerato.
Forse è stata l'ombra a portarla lì. O forse è stata la signora Smith. È stata sicuramente la signora Smith. È più ributtante dei piccioni nutre.
Vado in cucina, afferro un coltello dal manico blu. È uno di quelli che servono per tagliare la carne. Gabriel mi aveva detto che poteva tagliare persino le ossa. Era un bravo cuoco, con quei coltelli aveva preparato squisiti manicaretti. Erano buonissimi. Ma a me la carne fa schifo.
Busso alla porta della signora Smith. La donna mi apre con dipinto sul volto un sorriso. Le sono sempre stata simpatica.
La pugnalo. Una, due, tre, quattro, cinque volte. Lei cerca di difendersi. Mi graffia, prova a spingermi via, rantola. È disperata. Glielo leggo in faccia che ha paura.
Urla. Credo. Forse urla solo durante le prime due coltellate. Poi smette. Però io continuo a colpirla. Vedo il suo corpo disintegrarsi sotto le coltellate.
Sono ricoperta del suo sangue. Credo che mi sia schizzato addosso pure qualche pezzo dei suoi organi interni.
Sono sporca. Devo lavarmi. Devo!
In bagno mi aspetta l'ombra nera che mi ha perseguitato per tutta la mattina. Sembra un ricco insieme di macchie scure. Forse è stata lei a spingermi a ferire la signora Smith. Ma è ferita? O è morta?
Quando guardo verso lo specchio posto sul lavandino del bagno ci vedo scritto sopra il nome di Gabri. Lui adorava scrivere sugli specchi. Ci scriveva sopra frasi d'amore per me. Sapeva che mi faceva imbestialire, ma sapeva anche che mi piaceva quando faceva il romantico.
Ora c'è il suo nome scritto a caratteri cubitali sullo specchio del bagno in casa di una semi-sconosciuta. È scritto col sangue.
Un rossetto rosso giace aperto sul bordo del lavandino.
È scritto con il rossetto.
No, è sangue. È sicuramente sangue. Deve esserlo per forza.
Sono sporca di rossetto.
Ho scritto io il nome di Gabriel.
Con il rossetto.
Però sono sporca di sangue.
*****
La polizia ha confermato che quello che si trovava sullo specchio era rossetto rosso. Ed ha anche accertato il decesso della signora Smith. Lei è stata l'unica a morire quel giorno. Felipe non era davvero ferito, né l'ascensore è realmente precipitato. Persino il gatto è sopravvissuto. Mi hanno spiegato che stava per essere investito, ma che l'auto si è fermata in tempo.
Mi hanno anche spiegato che ho immaginato tutto. Mi hanno detto che qualcosa in me non va. Mi hanno detto che il reprimere le mie fobie mi ha causato uno stato di psicosi durante il quale ho avuto allucinazioni e ho ucciso la signora Smith.
A quanto pare, quell'ombra esisteva davvero solo nei miei occhi. Era una miodesopsia dentro la mia mente.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top