Nocturne op.9 n.1
Le note tristi di un pianoforte vagavano per la casa vuota. Le tende impolverate si alzavano e abbassava lentamente col vento. Una volta, quella sala avrebbe ospitato gonne bordate di una stoffa molto simile, e il movimento sarebbe provenuto non da una finestra aperta, ma dallo spostamento di corpi danzanti.
La musica che nasceva dai tasti del pianoforte ogni tanto veniva ammantata dal silenzio, altre volte si faceva più insistente prima di tornare un mormorio sommesso.
Eppure non c'era un pianista.
La casa era vuota, esattamente come lo era stata cinquant'anni fa.
Era vuota, vuota come un piatto lucido, vuota come un vaso che restituisce l'eco di un suono.
La sala di musica era ancora lì, coperta da mezzo secolo di polvere e insetti morti di vecchiaia. Le poltrone erano diventate nidi per i topi, e l'affresco sul soffitto, uscito dalle mani di un maestro del Rinascimento, era ormai un unico grande merletto di ragnatele.
In quella stanza vuota, c'era il pianoforte.
Una nevicata di corpuscoli, foglie secche e gesso avevano sbiancato la sua superficie, e le cerniere accusavano i segni del tempo e della ruggine.
I tasti avrebbero potuto essere i denti di un teschio riesumato: giallognoli, marci, neri e bucati, stavano messi in fila, con molti componenti sgangherati o mancanti.
Eppure la musica era perfetta, armoniosa e scorrevole; non risentita del tempo passato, dell'abbandono che aveva fagocitato la casa, della caducità della materia. Il pianoforte suonava, da solo, e suonava da Dio.
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