La Mostra di Fotografie Bizzarre [p.t 2]
Tornai il giorno dopo. Feci la strada già fatta di corsa. Arrivai alla sesta sala.
La foto era bianco e nera, un poco mossa, ma molto scura.
Sembrava scattata in una prigione. Attraverso le sbarre in penombra, luccicavano gli occhi di un uomo. Brillavano, della stessa luce di quelli di un gatto.
L'ombra dietro a quei due occhi era la figura di un uomo, non c'erano dubbi. Stava in una posa un po' forzata.
'Purtroppo no, non sono io quello nella foto.' disse una voce stanca alle mie spalle.
Mi girai. 'Come lo sapeva che...'
'Ascolto. Avevate dei pensieri forti come una sirena.'
Guardai l'uomo che parlava. Aveva un vecchio cappello "da esploratore" logoro che copriva le orecchie. Mi chiesi...
'Ah. Questo...' disse il tipo, probabilmente ascoltando i miei pensieri.
Si tolse il cappello.
I lobi delle orecchie non erano i soliti dischetti di carne tutte pieghe della gente normale. Erano formati da fili sottilissimi e trasparenti, come le vibrisse di un gatto. Formavano una fitta criniera attorno alla cavità dell'orecchio.
'Ascolto ogni tipo di cosa... gli animali, le persone, le cellule e gli oggetti... qualche volta ascolto gli spiriti... ogni tanto sento la Terra, il Sole e le altre stelle. E mi capita di recepire anche extraterrestri... e io capisco tutto.'
Annuisco.
Cambiò argomento.
'Quell'uomo nella foto... ci conoscevamo. Eravamo amici. Poi... poi è morto.'
'Mi dispiace...' mormorai.
'I suoi occhi mi raccontavano come erano modellati. Come quelli di un gatto.'
Annuii. Sapevo che i gatti hanno delle cellule negli occhi che riflettono la luce permettendo loro di vedere meglio al buio.
L'uomo si rimise in fretta il cappello.
'Ah, questo vecchio cappello... tipo simpatico, nato da tanto amore e abilità manuale, viaggiato tanto, mi racconta ancora dei suoi viaggi...'
Prima di andarsene, mi sorrise.
'Comunque, io le consiglierei di mangiare la colazione la mattina presto.'
Sorrisi. Era vero, non avevo mangiato quella mattina. Il mio stomaco brontolava. Come per dire:"Ha ragione, dovresti mangiare, eh!".
'Proprio così, caro signore!' disse lo sconosciuto, scomparendo alla mia vista.
Andai nella settima sala.
Vuota.
La foto era a colori. Ambiente: una strada deserta.
Si vedeva uno scheletro correre, fuggendo. Una sua gamba stava diventando evanescente.
'Immagino che dev'essere stato imbarazzante.' dissi, rivolto a me stesso.
'Già.' disse una felpa nera col cappuccio tirato sulla testa, accompagnata da jeans e scarpe sportive.
Sotto il cappuccio non vedevo nessuno.
'È una specie di malattia a comando.' disse la voce di prima. Apparve il viso di un adolescente. 'Le mie cellule a volte non rimandano indietro la luce, così mi passa attraverso e divento incolore.'
Annuii.
'E poi i vestiti assorbono questa... malattia, e diventano invisibili finché non smetto di toccarli. Una peste, ti dico.'
Le sfuggì una parolaccia.
'... sta succedendo di nuovo!'
Si guardava i jeans, colore dell'aria.
'Scusa ma devo scappare.' e corse via.
Quasi mi venne da ridere per la sua buffa situazione. Poi ricordai che non avevo mangiato.
Mi sbrigai a visitare il resto della mostra.
La foto seguente, stavolta a colori, mostrava una donna, dai capelli grigi e "vaporosi", e occhi color acqua.
Ma non era questa la cosa strana.
Le uscivano delle parole dalla bocca.
Mi sfregai gli occhi. Se fissavo gli occhi sulla foto, non c'erano parole. Ma in secondo dopo, quando cercavo di ricordare l'immagine, il mio cervello ricordava perfettamente delle parole uscire dalla sua bocca.
Poi altre parole mi ballarono davanti agli occhi. Mi comunicavano che la signora della foto era dietro di me.
Era strano: non appartenevano a nessun alfabeto. Non le riconoscevo. Ma appena mi apparivano nella testa, era come se sapessi leggerle, decifrarle.
Mi girai e la vidi.
Mi sorrise.
Disse qualcosa. Non ricordo di preciso. Ma il senso delle sue parole era questo: nel mondo ci sono cose più strane di quanto immaginiamo. Non le vediamo. Non si mostrano a noi, diffidenti come sono molti di noi del diverso. Non si sa com'è che succedono certe cose.
Tacque. Poi parlò ancora.
Disse che il senso della vita era vivere. Siamo venuti per vivere, andare avanti, migliorare. Altrimenti perché i nostri corpi si erano adattati per sopravvivere alle circostanze? Perché esistevano i geni egoisti, la selezione naturale?
Per vivere. Non si deve vanificare i loro sforzi. Persino la paura è un meccanismo di sopravvivenza. Il coniglio che non ha paura del predatore muore perché non ha l'istinto di mettersi a correre.
'Perché mi dice questo?' chiesi.
Lei rispose dicendomi che era importante che il più possibile di persone doveva sapere.
Ah, e potevo anche risparmiare il mio povero stomaco. La mostra era finita. Non erano molte le foto che circolavano su gli umani "bizzarri".
《Così poche?》pensai. Poi mi ricordai di una cosa nella foto che mi aveva interessato.
Diedi un'occhiata alla foto. Nella foto la signora stava parlando del senso della vita. Quello che aveva appena detto a me. Quando distolsi lo sguardo la signora se n'era andata.
Dopo c'era l'uscita. Uscii.
Uscendo mi parve di sentire la fotografia dell'uomo che si muoveva ridere e dire:'Ci rivedremo presto!'
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