Morgue



Il toscanello al caffé di Alila mi stava facendo venire voglia di scendere e proseguire a piedi.

"Ai poliziotti non dovrebbe essere permesso fumare in un'auto d'ordinanza" pensai. Forse in effetti non era permesso, ma questo non avrebbe certo fermato Alila.

Risposi al fuoco accendendomi una Camel; che anche se mi faceva schifo era comunque meglio di un sigaro aromatizzato.

Manco fossimo al liceo.

Alila aggiustò lo specchietto della volante e mi guardò con quella sua solita espressione, quella da gatta che sa qualcosa che tu non sai. Quando mi guardava così avevo la sensazione che il mondo mi avesse giocato un brutto tiro e io ancora non me ne fossi accorto.

Ma Alila sì. I suoi occhi scuri si accorgevano sempre di tutto, e la sua bocca sottile rimaneva stiracchiata in quel suo sorrisetto.

«Ehi, Konrad, hai già sentito i tuoi amici becchini?» mi domandò, riportando subito gli occhi sulla strada deserta, dove le uniche luci erano i nostri fari e la luna.

«Sono un becchino anch'io.»

«E chi ha mai detto il contrario?» replicò a bocca stretta, per non far cadere il sigaro mentre si sistemava i capelli su una spalla.

Con l'altra mano continuava a guidare, e se fosse stato qualcun altro a quell'ora avrei già preteso il volante.

Ma mi fidavo di lei.

Eravamo una strana coppia, io e Alila. Io avevo le idee geniali, lei si concentrava sui dettagli. Avevo preso l'abilitazione come becchino di Stato lo stesso anno in cui lei era entrata nel corpo di polizia, e avevamo lavorato assieme fin da allora.

Non c'era stato un motivo particolare per cui lei era diventata poliziotta: era semplicemente una cosa in cui era brava, ed era diventata sempre più in gamba nel suo lavoro. Non che non avesse a cuore quello che faceva, ma io avevo desiderato diventare un becchino fin dal momento in cui lo stato aveva dato i natali a quell'impiego.

Le prime tracce d'oro nelle ossa erano state rinvenute una trentina d'anni prima, e la Morgue Society era stata istituita pochi anni dopo. Avevo tre anni all'epoca: non c'era giorno, nei miei ricordi, in cui non avessi desiderato diventare un becchino di Stato.

«Ho contattato il caposezione per dirgli che la pista era sicura. Ora devo dargli le coordinate.»

«La signora Cunning è stata portata all'obitorio provinciale?»

«Sì. Meglio riportarle il corpo del marito alla svelta, così crederà che questo Stato abbia ancora un barlume di efficienza da offrire.»

Tirai il mio fonografo fuori dalla tasca del soprabito e segnalai la mia posizione al quartiere regionale della MS.

All'inizio, quando la percentuale di oro nelle ossa era più bassa, la squadra operativa della MS girava in tenuta da combattimento. Il corpo a corpo era ancora un'opzione, a quei tempi, e indossare divise tecniche era obbligatorio.

Tuttavia – nel corso degli anni – la percentuale dell'oro nelle ossa si era incredibilmente fatta prima del 30%, poi del 40%, del 45%, del 50%, fino ad arrivare all'attuale 85%. Gli esseri umani erano diventati molto pesanti, l'efficacia e il senso del corpo a corpo erano diminuiti.

Per quanto i nostri muscoli si fossero adattati all'aumento di peso subito dal nostro corpo, eravamo comunque meno agili e più lenti.

L'uniforme dei becchini di stato si era fatta via via meno restrittiva, fino a quando si era arrivati al punto in cui aveva smesso di esistere e gente come me aveva avuto il permesso di portare un soprabito nero.

Un sublime soprabito nero, che faceva sempre la sua dannata figura.

Il covo che i ricettatori avevano scelto era una casa isolata, una di quelle baracche che i contadini utilizzano d'estate e che rimangono vuote in inverno. Dalle finestre si spandeva una luce fioca nella cui pozza si agitavano delle ombre.

Fermammo la macchina a ridosso di un terrapieno, sicuri che non ci avrebbero notato: proseguivamo a luci spente e con il motore al minimo già da svariati minuti.

Scesi dalla macchina e mi misi in spalla la sacca contenente i miei strumenti, impugnando con una mano una pistola a piombo e una a fumogeni.

Trovare, recuperare, non uccidere.

Ci avvicinammo a passi lenti e precisi lungo il fianco della piccola collina, confondendoci con la notte che si era mangiata vivi i campi coltivati. Non ci videro nemmeno arrivare.

Erano completamente immersi nella loro attività, probabilmente certi che nessuno li avrebbe mai scovati, e avevano abbassato la guardia.

O calato le braghe, come diceva Alila.

Fu sufficiente sbirciare dentro la finestra per avere la quasi totale sicurezza che non fossero in possesso di artiglieria pesante; facemmo irruzione dalla porta principale.

«Altolà.»

Erano due uomini sulla cinquantina, uno dalle articolazioni nodose e dallo sguardo offuscato, l'altro dalle spalle larghe e curve. Probabilmente due poveri diavoli che credevano di aver fatto il colpo della vita, di solito mi capitava di peggio e facevo il mio lavoro più volentieri.

Dissero a malapena mezza parola mentre Alila li ammanettava, non protestarono neppure.

Le ossa, luccicanti nella loro triste perfezione, erano distese su un panno sporco, ma erano state pulite con perizia e la scarnificazione era quasi ultimata.

Assieme a spazzolini con setole d'acciaio, piccole lime, coltellini e cucchiai chirurgici c'era una soluzione liquida in una bacinella che mi chinai ad annusare. Solfato di sodio.

Forse erano due imbalsamatori, per hobby o per professione, e avevano pensato bene di riciclarsi come becchini irregolari.

«Non ti viene mai voglia di tenertene un po' per te?» chiese Alila con blanda curiosità, fermandosi un attimo prima di accompagnare i trafficanti alla macchina.

Sapevo di cosa parlava, e ogni tanto mi faceva quella stessa domanda. Così, per prendermi in giro.

«Vedo ossa tutti i santi i giorni» le risposi, mentre sistemavo i resti mortali del signor Abraham Cunning nelle sagome predisposte «Non riesco a entusiasmarmi per loro.»

«Quindi un ginecologo non riesce più a godere delle grazie di una bella donna?» replicò lei divertita, facendomi l'occhiolino. Erano anni che continuavamo questa nostra danza. Forse prima o poi sarebbe successo qualcosa tra di noi, forse no, ma non mi dispiaceva lasciarmi condurre dalle impressioni momentanee: nell'aria c'era sempre un senso di aspettativa adolescenziale, quando ero con Alila.

E di sicuro, tra noi due, la più maliziosa era lei.

«Non saprei» le dissi con un sorriso «Sono solo un becchino.»

Chiusi le ossa nella valigetta porta valori e accettai il passaggio verso casa.



N.d.A.: La consegna era "Un becchino onesto in un mondo in cui le ossa sono d'oro".

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