Cerco un posto chiamato casa


Questo racconto partecipa al concorso "Sol Invictus" indetto da profilo TenebrisIT


Pacchetto rosso


[3492 parole]



Con il naso schiacciato contro il vetro osservo la neve cadere leggera in questa Vigilia di Natale.

Ho sempre amato il 24 dicembre, mi piaceva essere svegliato dal tintinnio delle pentole di mia madre che già di prima mattina si dava da fare per il grande cenone, urlando ordini alle mie sorelle grandi e alla nostra domestica. Mi piaceva scendere le scale e vedere, con gli occhi ancora impastati di sonno, l'albero luccicante circondato da tutti i regali comparsi magicamente durante la notte. Mi piaceva sedermi al tavolo della cucina accanto a mio padre che, indifferente alla baraonda della mamma, stava tranquillo a leggere il giornale davanti alla sua tazza di caffelatte. Ogni tanto alzava gli occhi dal foglio e mi sorrideva complice, grato che almeno a noi uomini fosse risparmiato il supplizio della preparazione della cena.

E mi piaceva ancora di più quando il tempo decideva di regalarci la neve, che noi bambini guardavamo scivolare dal cielo come sto facendo ora.

Abbandono la mia posizione e, strascicando i piedi nella polvere, mi avvio verso la vetrinetta dei bicchieri di cristallo. Appena tocco l'anta una ragnatela enorme mi si appiccica alle dita mentre il suo proprietario sfugge spaventato. Non pulisco la mano: con il tempo ho imparato a non avere più paura dei ragni.

In realtà ho imparato a non temere un sacco di cose, come il cigolio della porta della cantina o il sibilo del vento nel grosso camino della cucina.

Prendo in mano quanti più calici riesco e li dispongo sulla tovaglia ricamata che ho steso sul tavolo. Molti sono scheggiati, per colpa mia, lo ammetto, e tutti coperti di polvere. Ho deciso di non toglierla più perché l'ultima volta che ci ho provato ne ho rotti troppi. D'altra parte mamma non mi ha mai insegnato come spolverare le cose fragili, diceva sempre che si tratta di un lavoro da donne. Sono sicuro che Meggy e Gio non li avrebbero mai fatti cadere.

Uno strano odore comincia a diffondersi nell'aria. Arriccio il naso mentre di colpo mi torna in mente la carne che ho messo sul fuoco tempo fa. Corro in cucina passando davanti al grande albero di Natale in ingresso, mesto con i suoi addobbi che nessuno ha mai smontato dall'anno scorso. Le lucine sono spente nonostante il buio sia calato da tempo, ma credo che in casa non ci sia più la corrente. Non ne sono certo perché tanto a me non serve più. Un'altra delle cose che ho imparato è vedere nelle tenebre e non averne più paura.

Spengo la fiamma sotto la pentola e, timoroso, alzo il coperchio. Mamma di solito per le feste cucinava una fantastica anatra all'arancia ma io non ne sono capace: non so nemmeno dove trovarla un'anatra. E così mi sono dovuto accontentare di un piccione. Se devo essere sincero non ha un bell'aspetto.

All'improvviso sento degli schiamazzi provenire da fuori. Stupito mi affaccio alla finestra. Attraverso il sottile velo di neve vedo delle luci accese nella villetta di fianco e rimango un po' stupito: non sapevo che si fosse trasferito qualcuno, da che ricordo quella casa è sempre stata disabitata.

La porta che dà sul giardino si spalanca vomitando un'ondata di bambini imbacuccati in mille strati di giacche, sciarpe e cappelli, armatura con cui madri premurose cercano di proteggere i loro pargoli dal freddo di dicembre.

Richiudo la finestra e torno a concentrarmi sul mio stufato di piccione. Lo dispongo sul piatto da portata, dopo aver pulito quest'ultimo dal cadavere di una falena morta e un po' decomposta. In realtà per essere la prima volta che cucino non sono andato poi così male. A mamma sarebbero venuti i capelli bianchi a vedere il suo ometto davanti ai fornelli.

Mentre porto la cena in tavola vengo per un attimo distratto dai bambini che urlano e ridono fuori dalla finestra. Sembrano divertirsi e in un attimo mi ritrovo ad odiarli, loro e i loro giochi. Loro e la loro ingenua infanzia. Vorrei aprire la finestra e gridare di smetterla. E vorrei piangere, chiudere gli occhi abbracciando il mio orso di peluche e svegliarmi in un altro mondo.

Ma faccio finta di niente e con un sorriso stampato in viso torno in sala da pranzo. Metto il piatto in centro tavola e faccio per sedermi. Poi all'improvviso mi ricordo dei regali che ho lasciato vicino al mio letto.

-Torno subito!- esclamo e corro come una scheggia in cantina. Supero deciso la porta cigolante e mi accuccio vicino alla mia bara d'ebano da cui pende la coperta con i girasoli che aveva ricamato mia nonna apposta per me. La tiro su e rimbocco il lenzuolo al mio orsetto che stasera quando mi sono alzato ho lasciato abbandonato in una posizione scomposta. Raccolgo quindi i regali e faccio ritorno in sala.

-Eccomi qua- affermo orgoglioso. -Ho dei regalini per voi!

Prendo il pacchetto avvolto in una carta che un tempo doveva essere stata celeste ma che ora è di un indistinto grigio-azzurro e mi avvicino saltellando a mia madre. Di solito non tengo le bare aperte, non voglio che i corpi si rovinino, ma oggi è Natale e quindi ho deciso di fare un'eccezione. Le accarezzo dolcemente i capelli rattrappiti fingendo che siano ancora morbidi e setosi come un tempo mentre le porgo il pacchetto che ho confezionato con tanta cura. Dal momento che lei non fa nulla per afferrarlo lo poggio delicatamente sulle sue mani unite sul petto.

Nelle casse bianche delle mie sorelle deposito invece due peluche avvolti nelle tende della cucina, quelle belle a nuvolette che avevamo scelto tutti insieme al mercato un paio di anni fa. Ne avevamo comprati un sacco di metri perché Gio aveva voluto che la nonna le cucisse anche una camicetta con quel tessuto. Meggy la prendeva sempre in giro, ma sono quasi sicuro che in realtà fosse invidiosa perché non era stata una sua idea.

Un po' mi è dispiaciuto usare le tende per impacchettare i due giocattoli, ma avevo finito la carta da regalo e sono sicuro che a loro così piaceranno. Tolgo una ragnatela dal naso raggrinzito di Gio e poi finisco il giro dei pensierini passando da papà, dai nonni e dalla vecchia zia della mamma, che era così rugosa e raggrinzita anche da viva che sembrava morta già allora. L'ho sempre pensato ma ora posso dirlo con assoluta certezza: in tutto questo tempo non è cambiata di una virgola.

Affetto il piccione e lo distribuisco nei piatti posti davanti a ciascuna bara. Il mio resta vuoto: non posso più mangiare queste cose e comunque sono uscito l'altra sera per soddisfare la mia fame. Ho incontrato una ragazza ubriaca che cercava di chiamare un taxi e ho subito capito che era quella giusta: così triste e sola che sono sicuro nessuno senta la sua mancanza. Era talmente brilla che non si nemmeno accorta del bambino che le è saltato fulmino al collo e che, dopo averglielo spezzato, si è dissetato col suo sangue.

Mi siedo composto e pongo addirittura il tovagliolo sulle gambe: mamma sarebbe immensamente fiera di me. Mi obbligo a sorridere, in fondo è Natale e siamo tutti qui riuniti per il grande cenone, come tutti gli anni. E questo dicembre addirittura nevica! Tutto è perfetto. Me lo ripeto con voce decisa.

-Tutto è perfetto.

Vorrei solo non sentirmi come se avessi perduto qualcosa. Come se al posto del cuore avessi un enorme buco nero che piano piano sta fagocitando tutto.

Inghiotto il groppo che mi si è formato in gola e comincio a parlare a mamma di cose senza senso, quel genere di cose per cui mi rimproverava sempre ma che in fondo la facevano divertire. Ma lei non risponde nulla e mi fissa senza vedermi con i suoi occhi opachi, che paiono macabre bocce incastonate nella pelle tirata e rinsecchita del viso.

Un rumore improvviso mi fa saltare sulla sedia, come se qualcosa di fragile si sia rotto in mille pezzi. I bambini fuori dalla finestra urlano qualcosa, ma non riesco a distinguere le parole. Forse dovrei alzarmi e andare a vedere cosa è successo, ma non ne ho alcuna voglia. Alla fine è il rumore inatteso del campanello che mi costringe ad abbandonare il mio posto. Sono secoli che nessuno suona più a casa nostra ed è proprio la sorpresa ad avere la meglio sulla stanchezza.

Arrivo alla porta un po' strascicando i piedi e un po' correndo impaziente. Non è chiusa a chiave e la maniglia cigola in modo sinistro quando l'abbasso.

Davanti ai miei occhi compare una bambina di poco più piccola di me avvolta in così tanti giri di sciarpa che quasi non se ne vede la faccia. Un cappello calcato sulla fronte da cui sfuggono ribelli dei riccioli biondi completa lo spettacolo.

Rimaniamo per un attimo fermi a fissarci, sorpresi, con i suoi grandi occhi castani fissi nei miei. Poi un caloroso sorriso fa capolino da dietro la sciarpa celeste.

-Lo sapevo io che dovevo bussare! La mamma me lo ripete sempre, ma Nick sostiene che qui non abita nessuno e quindi si può entrare e basta. Aspetta, ma tu non sei un fantasma, giusto?- una rughetta di preoccupazione si allarga sulla sua fronte.

Io riesco appena a mormorare un flebile "no", travolto come sono dalla vita emanata da quella bambina colorata.

-Perché Theo dice che di notte dalla sua camera sente sempre degli strani rumori, ma io e Nick non crediamo nei fantasmi. Invece Theo è un gran fifone, ha anche paura che sotto il suo letto viva il mostro della polvere, ma non dire a nessuno che te l'ho detto altrimenti mi uccide.

Si zittisce un attimo, forse per scrutarmi meglio con quei suoi occhi indagatori.

-Tu non sei uno che parla tanto, vero? Beato te, io a volte non so proprio come si faccia a stare zitti. Nick ripete sempre che il suo più grande desiderio è che un topo mi mangi la lingua.

Si sistema sulla testa il berretto a righe colorate.

-Io sono Tilly. Tu come ti chiami?- mi chiede poi.

È talmente tanto che nessuno usa più il mio nome che esito un attimo prima di rispondere, come se dovessi fare un grande sforzo per potermelo ricordare. E quanto finalmente lo dico lo sento grattare arrugginito sulla lingua.

-Pin.

La sua risata suona cristallina nell'aria fredda e pungente di questa notte di dicembre. Mi fa venire in mente il rumore dell'acqua che scorre sui sassi nei torrenti di montagna.

-Ma Pin non è un nome!

La guardo piccato, incrociando le braccia sul petto.

-Perché, Tilly sarebbe un nome?

Lei pare pensarci un attimo prima di rispondere.

-Hai ragione. In realtà mi chiamo Matilde, ma nessuno lo usa mai.

-Il mio nome completo è Giuseppe, però non mi piace, è da vecchi.

-A me piace, Giuseppe è un nome da persona importante, sta persino nel presepe. Tu di solito fai il presepe o l'albero?

-Tutti e due, tanto la casa è grande. Vuoi vederli?- le propongo tutto eccitato. Sono così contento che sia venuta a trovarmi, era tanto che non avevo una vera conversazione con qualcuno. Ho voglia di farle vedere tutto e di raccontarle le battute divertenti che mi diceva sempre il nonno.

-Certo!- esclama contenta battendo le mani guantate di verde smeraldo. Poi però il viso le si corruccia in un'espressione rattristata. -In realtà non ho molto tempo, i miei cugini si chiederanno che fine ho fatto. Ero venuta solo a recuperare la palla che per sbaglio è finita in casa tua. Mi spiace che ti abbiamo rotto il vetro, è colpa di Theo che non sa tirare.

-Oh, sì, certo- rispondo io incurvandomi sotto il peso della consapevolezza che presto se ne andrà, veloce come è apparsa. Con lo sguardo basso resto immobile a fissarmi le punte delle scarpe consunte. Poi d'improvviso una mano verde di lana si posa sul mio braccio, calda e delicata.

-Ma un po' di tempo per vedere il tuo albero ce l'ho di sicuro.

Rialzo la testa di scatto mentre un sorriso mi sorge spontaneo sul viso. Non accadeva da così tanto tempo che mi pare quasi di sentire scricchiolare i muscoli della faccia.

-Su, entra!- le dico cominciando a saltellare. Mi sposto per farla passare, ma lei si immobilizza non appena varca l'uscio.

-Com'è buia e fredda casa tua...- sussurra con la sciarpa che le soffoca la voce. Le sue parole mi colpiscono dritto al cuore e per un attimo vedo l'ingresso un tempo grandioso e imponente con occhi nuovi. Sono così abituato alla polvere e alle ragnatele che ormai non ci faccio più caso, certi giorni mi pare addirittura che non sia mai stato diverso. Ora invece si fa palese il confronto con i pavimenti chiari e i corrimani scintillanti di un anno fa, quando le nostre domestiche avevano appena finito di tirare a lucido la casa per le feste e io e Gio pattinavamo sul marmo consumando così tutti i calzini.

La porta si chiude di botto alle nostre spalle sospinta da un'improvvisa raffica di vento e Tilly fa un balzo in aria, spaventata. La luce del lampione che ci ha illuminati finora rimane chiusa fuori e nell'atrio cala un buio totale. A me non crea nessun problema, i miei occhi ci vedono comunque benissimo, ma per lei dev'essere alquanto inquietante.

-Vieni, ci deve essere una torcia in cucina- le dico prendendola per mano e guidandola attraverso le stanze. Lei cammina appena dietro di me e quando mi volto a guardarla non posso non notare la rughetta di preoccupazione che le attraversa la fronte.

-Tutto bene?- le chiedo, temendo che possa decidere di andarsene via subito. Annuisce nell'oscurità sussurrando un flebile "sì". Ora che si è fatta d'improvviso taciturna noto che è molto più piccola di quanto mi era sembrato in un primo momento.

-Ma perché vivi al buio?- mi chiede non appena trovo la torcia e riesce nuovamente a vedermi. Con il ritorno della luce pare riacquistare un po' di sicurezza.

-Non mi serve la luce, ci vedo bene anche senza.

-Davvero?!- esclama lei spalancando gli occhi. -Sei una specie di pipistrello?

-Non credo, altrimenti sarei anche in grado di volare.

-Mi piacerebbe saper volare- afferma con aria sognante. All'improvviso sembra che la vita abbia ricominciato a scorrere in lei, come se non fosse mai stata terrorizzata dalla mia casa. Sembra quasi che parlare le dia coraggio e forza.

-Una volta io e Nick abbiamo convinto Theo a provare a saltare dalla finestra con un paio di ali costruite con le lenzuola, ma la zia ci ha scoperti e ci ha messi in punizione per un mese- racconta mentre con la torcia che ci fa strada la porto al piano di sopra a vedere il presepe. Cammina stretta a me, come se avesse paura di allontanarsi troppo dalla luce e di cadere di nuovo preda dell'oscurità.

Entriamo nel salotto e una ventata fredda e carica di neve ci travolge. I miei occhi scattano subito verso la finestra il cui vetro giace in mille pezzi sul pavimento.

-La mia pallina!- esclama Tilly non appena illumino i frammenti sparsi sul parquet. Fa per correre a prenderla, ma si ferma esitante dopo un primo passo aspettando che io la accompagni.

-Anche se fuori fa freddo siamo per forza dovuti uscire perché la zia non vuole che giochiamo a baseball in soggiorno- mi spiega facendo saltellare in mano la palla mentre la guido davanti al presepe. Poi si zittisce e si immobilizza a fissare i pastori tristi e coperti di polvere. Sono posizionati esattamente come li ha lasciati Meggy lo scorso Natale, con le pecorelle che si abbeverano alla fonte da cui un tempo scorreva acqua vera e che ora è colonizzata da una famiglia di ragni. Giro la levetta che sporge dalla capanna e il carillon comincia a diffondere nell'aria una melodia malinconica che da piccolo trovavo dolce ma che in questo momento mi pare solo deprimente.

Evidentemente deve pensarlo anche Tilly perché un'espressione triste si accende sul suo viso.

Rimaniamo un attimo a fissare i pastori con la musica che lambisce i nostri corpi che si sfiorano appena. Calde lacrime mi riempiono gli occhi, ma non do loro la possibilità di cadere.

-Vieni, torniamo di sotto, c'è ancora l'albero- le dico ricercando l'entusiasmo che il mio triste presepe ha spazzato via. Le do la torcia e, tenendola per mano, la trascino dolcemente giù per le scale.

-Ma non vive nessuno con te? Dove sono i tuoi genitori?

Quasi inciampo nei miei piedi, spaventato dalla sua domanda. -Non credo tu voglia incontrarli davvero.

-Perché no?

-Guarda! Ecco l'albero!- esclamo per distrarla indicando il grande abete in ingresso, ma lei non sembra più interessata a guardare i nostri addobbi natalizi.

-Sicuro che ci sia qualcun'altro in questa casa? A me sembra un po' abbandonata... In realtà fa anche un po' paura... A te non fa paura?- mi chiede stringendosi le braccia al petto e avvicinandosi ancora di più a me. -Forse dovrei andare...

-No, aspetta!- esclamo spaventato. -Resta, ti prego, ti faccio vedere i miei peluches. Possiamo giocarci insieme se ti va.

Ma lei si avvia a passi incerti verso la porta, in viso un'espressione a metà fra il dispiaciuto e il terrorizzato. Ma è solo quando abbassa la maniglia e varca l'uscio che mi accorgo con orrore che si tratta della porta sbagliata. La luce della torcia inonda la stanza illuminando con violenza le bare da cui occhi spenti fissano penetranti la bimba avvolta nella sua sciarpa colorata.

Tilly comincia a urlare e piangere, così spaventata da non sapere che fare. Io corro da lei e la abbraccio, la tengo stretta come nessuno fa più con me da tempo, ma non riesco a tranquillizzarla. Il suo pianto è così disperato che senza volerlo mi ritrovo a singhiozzare anch'io.

-Non volevo, Tilly- le dico tirando su con il naso. -Io non volevo ucciderli. Non volevo. Ti prego, perdonami.

Le parole che non ho mai detto a nessuno ma che mi dilaniano l'anima da troppo tempo. In questo momento lei è la mia ancora di salvezza, l'unica a cui posso chiedere ammenda per le mie innocenti colpe. La stringo forte, ma non è più per consolare lei quanto piuttosto per tenere insieme il mio cuore spezzato.

Io non volevo ucciderli, non è mai stata mia intenzione. Ma non ho potuto farne a meno.

Mi ricordo perfettamente l'innocente Vigilia in cui l'incubo è cominciato. Tutto era perfetto, mancava solo un bel fuoco nel camino, compito che solitamente spettava al nonno ma quell'anno aveva un brutto mal di schiena e così mamma aveva deciso di mandare me a prendere la legna in giardino. Mi ero avviato saltellando sul terreno gelato, ma all'improvviso qualcosa mi aveva punto violentemente al collo e tutto era diventato nero.

Quando mi ero risvegliato il mondo mi era apparso in qualche modo diverso: ogni cosa era più nitida e percepivo cose che mai mi ero accorto esistessero. Vedevo i granelli di terriccio uno per uno e potevo sentire i saltelli dei corvi come se stessero camminando direttamente nelle mie orecchie. Ma soprattutto avevo fame, una fame strana come mai mi era capitato.

Mi ero alzato da terra spaventato ed ero corso a prendere la legna più in fretta che potevo. La mia giacca era sporca di sangue e quell'odore ferroso mi dava alla testa.

Per tutta la cena ero stato distratto da quella fame che nessun piatto riusciva a saziare, poi Gio si era tagliata un dito affettando il pane. Un'unica goccia di sangue sulla tovaglia bianca che aveva fatto traboccare il vaso. Non ricordo cosa accadde, so solo che quando fui di nuovo lucido erano tutti morti ai miei piedi.

Vorrei dire tutto questo a Tilly, vorrei supplicarla di capirmi. Di assolvermi. Ma lei si sta già divincolando dal mio abbraccio cercando di avviarsi alla porta.

-Ti prego, non lasciarmi solo- la mia voce lamentosa trema nell'aria fredda della stanza mentre cerco di riafferrare il suo braccio. Forse uso troppa forza perché lei perde l'equilibrio e sbatte violentemente la faccia sullo stipite di legno scheggiato. Un taglio sottile si apre sulla sua guancia rigandola di sangue.

E io perdo la ragione.

Quando riacquisto coscienza di me Tilly è esanime tra le mie braccia, la sciarpa celeste ora intrisa di sangue. Gliela tolgo e la scaglio lontano, dove non posso vederla. Il cappello le si è sfilato e i suoi riccioli biondi sono ora sparsi come un'aureola intorno alla testa. Glieli accarezzo dolcemente mentre la sollevo e la faccio accomodare su una sedia.

Piango mentre aggiungo un posto a tavola.

Vicino al suo piatto poggio una rosa rossa e secca: avrei voluto donargliela prima, ma non ho fatto in tempo.

Quest'anno a Babbo Natale avevo chiesto un solo regalo: avere qualcuno da cui poter tornare a casa e per un attimo ho creduto di essere stato accontentato. Ma mi sbagliavo.

Torno nuovamente sulla mia sedia e alzo il bicchiere verso la mia nuova amica come a voler brindare.

-Buon Natale, Tilly.












Nota dell' autrice:

innanzitutto vorrei ringraziarvi per essere arrivati fino alla fine del mio racconto: spero vivamente che vi sia piaciuto.

Come ho scritto all' inizio del capitolo questa storia partecipa ad un concorso la cui traccia non consiste in un vero e proprio prompt scritto, ma piuttosto suggerisce degli elementi da cui trarre ispirazione e che vanno assolutamente inseriti nel testo.

Due di questi sono evidenti, ossia il pacco regalo e le gocce di sangue.
Un po' meno esplicito è il riferimento alla canzone "My december" dei Linkin Park, che ora andrò a spiegare.

Ho ascoltato il brano più volte prima di iniziare a scrivere il racconto e mi sono lasciata sommergere dalla sua atmosfera nevosa e malinconica, che poi ho deciso di dare anche alla storia.

Inoltre ho inserito nel testo due citazioni tradotte e vagamente interpretate: una quando Pin è seduto a tavola con la sua famiglia e dice" Vorrei solo non sentirmi come se avessi perduto qualcosa" ("Just wish that I didn't feel like there was something I missed") e una alla fine, nel punto in cui il bambino afferma che "Quest' anno a Babbo Natale avevo chiesto un solo regalo: avere qualcuno da cui poter tornare a casa" ("Give it all away to have someone to come home to").

Grazie ancora.

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