Cap. 1 L'esilio

"Per te questo passaggio si chiuderà senza nessuna possibilità di ritorno. Da questo momento, in nome del nostro popolo, ti bandisco".

La sagoma dei tre guerrieri incaricati di portarlo sin lì si stagliava contro la luminosità del loro cielo. Al contrario, lui era nell'oscurità di un bosco terrestre, all'altra estremità di quel tunnel spazio-tempo aperto per allontanarlo della sua gente, per sempre.

Si guardarono ancora per qualche secondo, consapevoli dell'irreversibilità di quanto stava succedendo e feriti, malgrado tutto, da quella frattura che stava aprendosi. Era la prima volta che accadeva, da quando, nella notte dei tempi, aveva preso forma la loro coscienza di essere un popolo. Poi l'aria tremò davanti agli occhi di Aigachak e la luce del giorno svanì.

Il vecchio ascoltò i rumori sommessi del bosco, il frinire dei grilli, e un lontano, debole singhiozzo, triste e ripetitivo richiamo d'un uccello notturno. Annusò il sentore pungente dell'erba bagnata dall'umidità della notte e adattò la vista al buio, appena rischiarato da un ondeggiare di lucciole in una siepe vicina.

Bello, il bosco! E stupenda, la Terra, non fosse stata anche madre degli umani. Quello era ciò che li aveva spinti a lasciarla, e tornare così, da esiliato, era un dolore difficile da gestire. Tolse lentamente le sue insegne da Megoat e si apprestò a seppellirle. Da secoli non vivevano più lì, visitavano occasionalmente quei territori solo per brevi ricognizioni o per appagare la curiosità dei più giovani. Gli umani conservavano appena il loro ricordo, identificandoli con creature demoniache. Eppure non erano mai state combattute guerre, tra le due razze; loro, anzi, trovato il modo di spostarsi in un mondo nuovo, avevano lasciato gli uomini padroni di tutto. Ma Aigachak non dubitava che la sua natura avrebbe sollevato ostilità e ribrezzo, se non si fosse travestito.

Condividevano una fisionomia alquanto prossima, megoat e umani, eppure le caratteristiche fisiche che li differenziavano risultavano fonte di tale reciproco disgusto che nulla aveva potuto superare quella reazione istintiva. O forse, né da una parte né dall'altra c'era mai stata autentica volontà di farlo.

E ora, lui era un espatriato a vita. Una vita che non sarebbe stata ancora lunghissima, certo, ma che si sarebbe trascinata solitaria. Aigachak era prostrato dalla condanna, che aveva ritenuto ingiusta e miope, ma non poteva che tentare di reagire. Non era nella sua natura sedersi e lasciarsi morire.

Si rialzò e fissò le stelle, per orientarsi. In fondo era stato considerato un traditore della razza perché aveva predicato l'opportunità di cercare un contatto con gli umani, dopo gli eventi terribili che avevano travolto la loro dimensione. Ecco, da esiliato avrebbe avuto l'opportunità di tentare un contatto di persona. Benché, per onestà intellettuale, fosse costretto ad ammettere che persino a lui ripugnava alquanto l'idea; nonostante le belle parole e le buone intenzioni, anche lui temeva, in fondo, quegli esseri grossolani e ignoranti, terribilmente violenti.

Stabilì la direzione e si avviò, non senza aver guardato con tristezza l'albero tra le cui radici aveva sepolto elmo e armi. Non che gli servissero: portare un'arma induce prima o poi a usarla, con conseguenze irrimediabili; la tristezza gli veniva solo dall'abbandonare oggetti fatti da mani megoat, tenendo addosso pochi indumenti che, anche quelli, avrebbe abbandonato quanto prima, per vestirne di umani e mimetizzarsi. Prima, possibilmente, di svelare la sua natura e d'essere magari additato come creatura diabolica, massacrato e bruciato vivo.

A questo punto, la vita gli dava l'occasione di esplorare la Terra, e non rimaneva che guardarsi intorno, per conoscere magari qualche umano più da vicino. Per questo, puntò a un piccolo agglomerato di case che il suo olfatto sensibilissimo gli segnalò a qualche chilometro a nord di quel punto. Fuori del villaggio una insegna rozzamente scritta ne indicava il nome: Valunus.

A Valunus viveva, da quasi ventun inverni, Caitlin. Ci viveva occupandosi della cucina dell'osteria, lavoro che aveva accettato dieci anni prima, subito dopo essere rimasta orfana e poi vedova.

Nel villaggio gli uomini soli non erano molti, e li aveva respinti tutti. Troppo vecchi, troppo giovani, soprattutto troppo stupidi. Nessuno con un cuore capace di sentire appena più in là del proprio torace. Questo aveva fatto di lei una donna poco raccomandabile, perché in una comunità piccolissima non c'è spazio per l'anticonformismo.

Rese però semplice, questa cosa, occuparsi del vecchio, quando arrivò in cerca di un posto dove trascorrere in pace il suo ultimo tempo. Era strano, scontroso, e nessuno voleva averci a che fare. Caitlin, considerata parimenti strana e scontrosa, accolse come una fortuna i pochi soldi che le offrì per tenere in ordine una casupola minuscola che il fabbro aveva venduto allo straniero con la gioia di liberarsene, essendosi appena costruita una bella casa grande vicina alla fucina.

Tra le pulizie e il cucinare in osteria, la donna riusciva a mantenersi discretamente, e anzi ad accantonare qualcosa per i tempi grami. Però non era felice. Sentiva l'inutilità dei giorni scorrere tutti uguali, poveri soprattutto di affetti, e pativa il non conoscere il mondo. Non quello lontano, poiché non desiderava propriamente viaggiare, benché farlo non le sarebbe dispiaciuto. Era il mondo vicino, quello che vedeva, che aveva la consapevolezza di non conoscere. Perché il fuoco si accendeva? Perché l'acqua del fiume correva sempre nella stessa direzione? Cos'era il vento? Cosa accadeva nel ventre di certi animali, comprese le donne, che portava alla vita nuove creature? E cosa accadeva nella morte, cosa restava, se qualcosa restava, di chi era vivo e improvvisamente smetteva di respirare e sbarrava gli occhi, col cuore ormai immobile?

Nessuno sembrava avere vere risposte a tali domande. I più la spiegavano la realtà con incerte credenze, fatte di spiriti maligni da esorcizzare o di anime sante e di antenati che talora proteggevano, talora condannavano; e che mai, mai!, davano una incontestabile prova della loro esistenza. Per spiegare ogni fenomeno, che fosse vento o pioggia o fioritura, la gente ricorreva a quelle che a Caitlin parevano infantili fantasie. Ma pareva che farsi domande ulteriori fosse improprio: lei si sentiva ignorante, per gli altri era solo strana.

Finché, non accadde che il vecchio la vide seguire incantata il volo di una punta d'anatre. Andavano via, chissà dove. E dal quel dove, sarebbero tornate colla nuova stagione tiepida, sfuggendo all'inverno che arrivava. Le chiese se le sarebbe piaciuto andare con loro, oltre il mare.

"Oltre il mare?"

Annuì, e le spiegò che c'erano altre terre, oltre la distesa che invece dicevano infinita del mare. Ma Caitlin scosse il capo e si trovò a spiegargli il suo senso di povertà, di ignoranza, e il desiderio di conoscere cose ben più vicine di quelle al di là del mare. E per la prima volta, qualcuno non la trovò assurda. Fu l'inizio di uno stranissimo rapporto, in cui l'anziano, molto più esperto e saggio, tentò di trasmettere parte della sua ricchezza alla giovane, che si doleva di non avere le qualità per farne tesoro. Purtroppo, le differenze di razza pesavano.


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