Him - Lui
« C'era, sai, un uomo, che conoscevo un tempo, diceva sempre una cosa vera e una cosa falsa. Un giorno mi disse:
- Dario, a Manhattan, quando cala la mezzanotte, pare di ritrovarsi ancora in pieno giorno e mentre, con le vetrine dei centri commerciali ancora illuminate, in un continuo via vai di sconosciuti passanti, con la festa che risuona ancora come un rimbombo, basso e sinuoso, nelle orecchie, sì, mentre sorseggi un caffè appoggiato al bancone di un bar del centro, il sole è ancora alto nel cielo, giuro, in quel cielo caldo d'estate. Ed è come se fosse di nuovo mezzogiorno. -
e subito dopo aggiunse:
-Ma qui, a Torino, ci sono molte più strade, tantissime e nessuna è mai quella sbagliata.
- Non ho ancora capito cosa intendesse dire né tanto meno quale delle due affermazioni fosse vera o quale fosse falsa. Forse non mi disse mai la verità. In fondo, di lui sapevo solo questo.
Per dieci lunghi anni, solo questo.
Ah, dimenticavo, conoscevo il suo abito, lo riconoscevo ogni volta, il medesimo vestito elegante ogni santo giorno, lavato, stirato e gessato. E poi, e poi c'era quella ventiquattro ore, rettangolare. Dentro teneva solamente due cose, solamente quelle due cose, per tutto il tempo: qualche foglio e una penna.
Diceva, indicando la valigetta:
- Nel caso dovesse venirmi voglia di scrivere a qualcuno. Non perderei tempo a cercare un edicola, soprattutto alla domenica mattina. Sai com'è, con i negozi di città. -
Allora gli chiedevo:
- A chi pensi di scrivere quel giorno? -
Ma lui mi guardava, con quello sguardo duro, deciso, di chi conosce la risposta ad un indovinello, ma non ha la minima intenzione di condividerla con qualcun'altro che non fosse se stesso.
- Scriverò, non ha importanza a chi, scriverò, sarà, ma sarà, per certo, qualcosa di importante.-
Dev'esserlo?
Gli chiedevo, mi chiedevo.
Si può scrivere e basta, così tanto per passare il tempo, tanto per appuntarsi qualcosa, insomma. Si scrive e ci si dimentica di aver scritto. Dopo tutto, è questione di costanza e di abitudine. Ma lui era irremovibile e con una smorfia ribatteva:
- Oh,Dario, lo scrivere è una cosa, lo scrivere d'una vita è un'altra. Non puoi buttarti sulla prima cosa che ti passa accanto o meglio cheti colpisce a piene mani il viso, devi sapere aspettare. E se quelle parole arriveranno, buon per te se le coglierai all'istante. Altrimenti rimarrai arido di queste, per sempre, ma con l'integrità necessaria per saperle aspettare una seconda volta. E quando finalmente il momento incrocerà il tuo sguardo e voi, soli, ve ne starete ad aspettare quel singolo, piccolissimo, istante, avrai la certezza di scrivere della vita, quella vera, in modo totalmente sincero. E di quella bellezza non sarai mai stanco. -
Te l'assicuro, parlava così, spesso si perdeva, perdeva il filo del discorso capisci? Restava sveglio una, due, tre notti di seguito seduto su quella panchina, senza un capello fuori posto, senza mangiare e dormire, a fissare l'orizzonte o qualsiasi cosa ci fosse, qualunque cosa rientrasse nel suo campo visivo e che attirava così minuziosamente la sua attenzione, restava immobile.
Sapeva fare questo. Pareva in trance. I bambini avevano paura di lui. Un pomeriggio, uscendo da lavoro, lo incontrai sul bus diretto a San Mauro, appena fuori il Comune di Torino, pareva invecchiato, gli chiesi cosa avesse e dove stesse andando, lui mi rispose dicendomi, come ogni giorno, fino a quel giorno, una cosa vera e una cosa falsa.
Mi disse, pressappoco mi disse così:
- Ero solito viaggiare in treno, mi piaceva sentire il fischio e il galoppare delle ruote che stridendo sulle rotaie. Le gallerie erano più buie della stessa notte. Il giorno mi era ostile, in quel periodo. Così viaggiavo di notte. Mi piaceva appoggiare la testa contro il vetro e, fra le luci basse, cantare una buonanotte, una buonanotte al mio qualcuno, si chiama la canzone. Sentire le vibrazioni e il vetro, freddo, a contatto con la mia guancia. Iniziavo canticchiando quasi sottovoce e poi, e poi finivo per urlare. Il vento, fra i capelli, mi sarei arrampicato, sul tetto, nel cielo, ovunque quel suono potesse durare ed il mio canto omaggiarlo. Conobbi una donna, non mi disse neppure una parola, ma io la guardavo e lei mi guardava, ci saremmo guardati per almeno tre ore, mentre il treno procedeva da stazione in stazione e mi portava qui. Non ci parlammo, non seppi mai dove stesse andando, sarei sceso di lì a poco, ma sai una cosa? Già l'amavo. L'amavo da morire. Non ci sarà mai nessun'altro. Non ci sarà neppure lei, quel momento era già trascorso, compenetrato nell'istante successivo. Non le scrissi mai, non avrei che dirle. Le dissi già tutto, quella notte in treno. -
E aggiunse:
- Ma qui a Torino, l'amore ha così tante forme e colori, e istanti, che mi son innamorato dell'amore stesso così tante di quelle volte, e di nessuna, che tutto dell'amore qui, è così sbagliato. -
Dopo quel viaggio non lo rividi più, chissà dov'era realmente diretto. Non so se sia ancora vivo,sono passati altri sette anni da quel giorno, eppure lo ricordo come fosse adesso, qui su questo stesso tram, oggi con me. Non capirò mai o forse nulla era da capire.
Una cosa è certa, voleva essere ascoltato, non da me, forse da se stesso.
Ho ancora nella mente l'odore del dopobarba, quel colletto bianco inamidato, il segno della fede al dito. Non mi scorderò mai delle sue parole, forse un giorno, chissà, lo rincontrerò. »
« Ma scusa papà, come si chiamava il signore? Non mi hai detto il suo nome. »
« Questa sì che è una bella domanda, come di lui non ho letto neppure una riga, e forse mai scrisse a qualcuno, io non ebbi alcun accesso a quest'informazione. Non era necessario, conoscevo le sue storie, e le sue storie solamente raccontano ciò che a me bastò e che a te, ugualmente dovrà bastare.
Scriverà. O penso che sta sera, io scriverò a lui, per me si sbagliava. Ogni momento, di ogni giorno, è un buon momento per scrivere a qualcuno.
Ma ora sbrigati, siamo quasi arrivati, fai cenno all'autista che deve fermarsi. E' tardi e io ho un sonno che non ti dico. »
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