Capitolo 2
Arrivammo in paese in pochi minuti -il lago non era particolarmente distante- con le lacrime che ci rigavano le guance sia a causa delle risate sia per il vento che per colpa della velocità si insinuava violentemente tra le palpebre facendole bruciare. Le bancarelle che erano state adibite il giorno prima per la festa per l'avvento della luna piena non erano ancora state smontate e la gente continuava a passarci pigramente davanti lanciando occhiate alla merce. Alcuni bambini correvano giocando a prendere intorno ad una quercia, mentre i genitori se ne stavano in un angolino a discutere tra loro di cose da grandi, cose a cui nessun bambino è permesso sapere.
Jordan mi face il favore di poter riappoggiare i piedi per terra solo arrivati nella piazza principale. Ovviamente fece finta di lanciarmi nella fontana centrale, ma io nemmeno finsi di preoccuparmene. Un po' perché non volevo dargli soddisfazione, un po' perché sapevo che non mi avrebbe lanciata. A noi licantropi non piace particolarmente l'acqua, ed io inoltre non avevo mai imparato a nuotare. Era una cosa che mi aveva sempre spaventata. Lui lo sapeva, perciò ero sicura, nonostante il suo carattere e il suo talento nello sfottere gli altri, di potermi fidare di lui.
- Che codardo. - sospirai appena mi posò a terra. - Che uomo mancato che sei. Non sei nemmeno in grado di lanciarmi. I tuoi muscoli ti hanno mandato una cartolina da dove sono andati in vacanza o no? - commentai. Non ce la feci a stare zitta, era sempre stata una delle mie grandi difficoltà. Ero troppo orgogliosa per darla vinta agli altri così facilmente e in più penso di non avere alcun tipo di filtro tra la bocca e il cervello. Lui non la prese male, anzi. Mi trascinò sghignazzando vicino alla fontana e mi schizzò con la mano. Gli schizzi freddi mi colpirono in faccia.
Continuammo a giocare come due bambini di due anni e mezzo correndo per la piazza. Eviterò accuratamente di raccontare dell'istante in cui mi sono inciampata in una pietra sporgente del lastricato e per poco non mi consumavo la faccia rendendomi simile ad uno di quei personaggi per cui i bambini non riescono a dormire la notte, uno di quelli che fa loro controllare sotto il letto prima di coricarsi la sera. E intanto l'ho raccontato, ma questi sono dettagli. L'ho detto di non avere filtri tra bocca e cervello.
Solo qualche minuto dopo mi accorsi che due occhi freddi e impassibili ci scrutavano dalla porta di una delle case che costeggiavano la piazza. L'espressione arcigna e la barba bicolore a causa dell'invecchiamento mi confermarono che si trattava del Signor Flint. Diciamo che lui era molto vicino all'immagine che i bambini del paese avevano per un mostro. Era l'insegnante tuttofare, insegnava a bambini e ragazzi, teneva anche qualche corso serale. Non penso che qualcuno lo avesse mai visto senza una pila di volumi retti sulle braccia secche. Era un personaggio alquanto inquietante e certamente non si era mai impegnato minimamente nel cercare di cambiare l'idea che tutti avevano di lui. E vi assicuro che non ne facevano un bel ritratto, nessuno. Si bisbigliava addirittura che fosse arrivato nel nostro villaggio cercando un rifugio da un violento passato, passato di cui però nessuna anima viva era a conoscenza. Nonostante tutto, però, era un personaggio abbastanza rilevante: era infatti una specie di consigliere per il nostro Harek. Quest' ultimo era colui che era al comando del nostro villaggio. Dalle altre stirpi veniva più comunemente chiamato capobranco. Tutto era ovviamente democratico, ma la decisione finale spettava a lui, che veniva eletto dal villaggio ogni dieci anni.
Il nostro era molto rispettato. Veniva chiamato in molti modi: chi lo temeva lo chiamava Harek , chi invece lo amava gli aveva dato l'appellativo di Hardex, un banale misto tra il titolo e il suo vero nome, Dexter. Ma io... beh, io... lo potevo chiamare solo in un modo. Per me lui era infatti più che altro il padre di Jordan. Da quando ero arrivata nel villaggio, era l'adulto che mi aveva aiutata maggiormente ad integrarmi, anche per questo avevo stretto un legame così forte con suo figlio.
-Che guardi? - mi urlò Jordan dall'altra parte della piazza. - Stai per confessare il tuo amore segreto al Signor Flint?- sghignazzò. Gli lanciai un'occhiataccia, e controllai se il diretto interessato avesse sentito. Fortunatamente non era più sull'uscio. Ringraziai tutti gli Dei possibili e immaginabili a cui però non avevo mai creduto.
-Sei proprio un'idiota!- urlai al ragazzo che mi guardava con gli occhi da pervertito a qualche metro di distanza. - Quello poi mi viene a prendere a casa. - No. Decisamente non mi sarebbe piaciuto affatto.
Jordan alla velocità della luce mi raggiunse ridendo. Anche in quella situazione, però, mi ricordai di ciò che mi aveva detto qualche attimo prima, al lago.
-Senti... ora andrei dai miei. Sai, dopo quello che hai sentito... forse è meglio. - gli dissi. Lui annuì solennemente.
- Va bene, buona fortuna. Dimmi poi se è tutto a posto. - rispose prima di schioccarmi un bacio sulla guancia. Un attimo dopo era scomparso, lasciando dietro di sé solamente il suo odore di erbe aromatiche e limone che mi era ormai così tanto familiare.
Sospirai ansiosamente. D'un tratto sentivo tutta la tensione dell'incontro, speravo solo che Jordan avesse sentito male e di poter festeggiare un normalissimo diciottesimo compleanno. Mi passai la mano nei capelli neri e magenta per rendermi un pochino più presentabile e mi incamminai verso casa mia, lentamente.
Arrivata, misi la mano sulla maniglia della porta lignea e mi preparai a spingere, ma una strana sensazione al ventre me lo impedì. Riconobbi l'istinto animale caratteristico della mia specie, istinto che mi fece bloccare sull'uscio di colpo. Era come se qualcosa mi consigliasse di non muovere un muscolo, solo di stare lì immobile. Mi guardai intorno per avvistare possibili pericoli, ma sembrava tutto alquanto tranquillo. Gli unici suoni che si percepivano erano piacevoli, come un cane che correva fra gli alberi e gruppetti di persone che ridacchiavano allegramente.
Stavo per ignorare quella sensazione ed entrare, quando sentii la voce di mia madre dire qualcosa sommessamente. Appoggiai la testa al legno per sentire meglio.
-Stai dicendo che tu la manderesti veramente a rischiare la vita per una cosa così stupida?- questa era mia madre, con un tono tra l'amareggiato e l'incazzato a morte. Molto pericoloso, fidatevi.
Si sentì un rumore di qualcosa che si frantumava, e così compresi che in quella stanza c'era anche mio padre. Rompere in piatti quando era nervoso era un suo talento. Lo faceva per scaricare la tensione e impedire una possibile trasformazione involontaria. Per un attimo sperai non li stesse lanciando sulla mamma.
-Ti sembra che la manderei? - urlò infatti mio padre. - Ti pare che l'abbia mandata? Ricordati che se in questo momento non le abbiamo ancora detto nulla ed è ancora là fuori serena, è perché abbiamo deciso così entrambi. Ma continuo a pensare che non sia giusto.-
Mia madre disse qualcosa che non riuscii a sentire, la sua voce era troppo rotta da un probabile pianto. O comunque era sicuramente prossima alle lacrime. - E comunque ne abbiamo già parlato abbondantemente. Non ho intenzione di cambiare idea e di mandarla a morire per questa. - aggiunse recuperando il tono aggressivo.
La tentazione di aprire la porta interrompendo la loro discussione era forte, ma volevo capirne di più. Anche se per ora, non ci avevo capito proprio niente. Di chi stavano parlando? A cosa si stava riferendo mia madre? Probabilmente di un qualcosa che aveva lì vicino.
-Si dà il caso che quella sia l'unica speranza che abbiamo per tu sai cosa, Maryna. Non parlarne come se fosse una cazzata, perché non lo è. - la rimproverò mio padre.
- Si, hai ragione. E con questo? - sbottò lei. - Se tutto accadesse tra vent'anni, alla fine, cosa cambierebbe?-
Dall'urlo di mio padre, capii che era esasperato. - Infatti non ho mai detto che gliela daremo, tranquilla.- la rassicurò forzatamente. - E ora mettila via, prima che arrivi. È andata solo al lago.-
Fu in quel momento che entrai di colpo. Volevo vedere a cosa si stessero riferendo, così praticamente sfondai la porta e mi catapultai in salotto. Appena mi videro, mia madre di fretta e furia ripose qualcosa nella borsa, così in ansia che nel farlo rovesciò a terra la tazza di thé che era appoggiata sul tavolo vicino a lei. Con la coda dell'occhio riuscii a vedere un pezzo di carta sporca nella borsa, prima che lei la chiudesse con la cerniera. Per non destare sospetti, distolsi lo sguardo e li guardai sorridendo. Mia madre fece lo stesso. Il suo sorriso era talmente finto che temetti le fosse venuta una paralisi facciale.
Mio padre fece velocemente scivolare una torta alla crema sul tavolo, mentre mia madre puliva il thé e raccoglieva i cocci sparsi sul pavimento senza smettere di sorridere. Vidi che si asciugava la guancia, ma si girò dandomi le spalle per nasconderlo.
Mi cantarono probabilmente la canzoncina di compleanno più triste di sempre.
Mi diedero un regalo: un libro e un taccuino per disegnare. Sapevano quanto adorassi l'arte.
Mi abbracciarono, con un'espressione che avrei associato più ad un funerale che ad un diciottesimo.
Si allontanarono con la scusa di una faccenda urgente da sbrigare.
Mi lasciarono lì da sola, con i regali in mano e un'espressione confusa.
Ma io sapevo come forse potevo renderla un po' meno confusa, quell'espressione. Ero indecisa sul seguire cosa mi stesse dicendo il cervello o no, ma alla fine la ragione vinse. Mi avvicinai alla borsa di mia madre, che lei aveva distrattamente lasciato lì. La aprii lentamente, timorosa su cosa avrei potuto trovarci. Scorsi un pezzo di carta ripiegato, lo presi. Sembrava carta vecchia, talmente fragile che avevo paura mi si sbriciolasse in mano da un momento all'altro. Lo aprii. No, la mia confusione non se ne andò minimamente. Sentii subito il gusto della delusione: era solo una vecchia mappa, che raffigurava gran parte del nostro mondo. I bordi parevano strappati, ma non avevo voglia di notare altre cose di questo genere. La riposi in fretta nella borsa e uscii di casa sbattendo la porta. Non immaginavo affatto che invece, quel piccolo pezzo di carta rovinata, sarebbe diventata la cosa per cui avrei lottato per il resto della mia vita.
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