Quello del secondo piano
Quando risuonò Vivaldi per la stanza, Daniel aprì gli occhi. Per lui il momento del risveglio era cruciale; avere la giusta sveglia lo era altrettanto. Aveva provato con le sveglie tradizionali, un orologio a pendolo e addirittura quello a cucù. Nessuna delle opzioni che aveva provato lo aveva aiutato come la musica. La giusta musica. In questo fu metodico: aveva selezionato una canzone per ogni giorno della settimana. Oggi era lunedì, e il lunedì, poteva esserci solo Vivaldi.
Una volta in piedi la prima cosa sulla lista era sempre lavarsi i denti. Era ossessionato dai denti. Li lavava minuziosamente senza essere troppo aggressivo e facendo sempre gli stessi movimenti. Contava i secondi passare e una volta arrivato a novanta si fermava. Sapeva che l'avvertenza che di solito danno i dentisti era di almeno centoventi secondi, ma per lui erano troppo. Erano non necessari. Poteva impiegare meglio quei trenta secondi, ad esempio sciacquando mani e volto. Ed ecco che in centoventi secondi era riuscito a fare tutto. Anche se erano due cose che amava, tra efficienza e igiene, sceglierebbe sempre la prima. Anche perché, secondo lui, la prima portava sempre anche alla seconda.
Prendeva dal suo piccolo armadio dei vestiti. Erano indifferenti quali, tanto aveva un solo modello di pantalone, delle polo dalla tinta non troppo vistosa, come ad esempio il bianco o il verde chiaro. Infine la sua solita cintura nera.
Questo era l'abbigliamento che in ufficio era al minimo tollerabile. Non potevano dirgli niente, ma allo stesso tempo preferirebbero che indossasse qualcosa di più "consono". Odiava quella parola, soprattutto se ad usarla era il suo supervisore. Ma comunque non era il momento di rovinarsi già la giornata pensando al lavoro. Si vestì, andò in cucina, prese un grosso bicchiere di vetro e lo riempì d'acqua. Quella era la sua colazione. Per lui non aveva senso mangiare di prima mattina, bastava solo tanta acqua. E poi, se avesse l'abitudine di fare colazione, dovrebbe lavarsi i denti due volte ogni mattina e questo era controproducente.
Prese le ultime cose e andò verso la porta.
Abitava al secondo piano in una catena di appartamenti dai colori grigi. Poteva permettersi di meglio ma non era necessario. Stava a due passi dall'ufficio, aveva un supermercato e diversi negozi nei dintorni. Inoltre fu anche fortunato. Era rimasto un ultimo appartamento proprio al secondo piano e per lui era fondamentale questo. Non sarebbe mai riuscito a dormire con la paura di trovarsi qualche animale in casa, rischio che invece quelli del primo piano e pian terreno rischiano continuamente.
Un posto che amava di quella zona era un piccolo parco dove la sera andava a correre. Era comodo e silenzioso, due caratteristiche che Daniel apprezza molto. Qualcuno che invece era scomodo e chiassoso, era Jane la tabaccaia. Non aveva altre strade per andare a lavoro, doveva quindi sia all'andata che al ritorno, passare per quello squallido buco di negozio. Odiava tutto: i clienti, i prodotti e quella pianta appassita all'ingresso che non si decideva mai a togliere. Fosse stato solo questo però sarebbe stato sopportabile. Il problema era proprio quell'ubriacona di Jane. Si diceva che fosse diventata cosi da quando il marito e il figlio l'abbandonarono. Da allora si diverte a importunare chiunque gli capiti a tiro. La odiano probabilmente tutti e quei pochi clienti che ha sono tutti dipendenti dal tabacco come lei.
La mattina era sempre fuori al suo negozio, in attesa dei clienti, e aveva sempre già un bicchiere e la puzza di vino che infestava la strada. Ogni volta che Daniel passa, lei lo guardava dal basso verso l'alto e rideva. A volte faceva qualche battuta, oppure sputava a terra. Ci fu una volta però, mentre Daniel tornava da lavoro, che prese una bottigliata in testa da quella donna.
Stava litigando con un'altra donna, entrambe ubriache, e Jane ne aveva prese di santa ragione. La donna borbottò qualcosa su un debito e poi andò via. Per tutto il tempo Daniel rimase lì ad osservare. Fu lì che Jane gli lanciò una bottiglia in testa. Daniel fece un respirò profondo e se ne andò per la sua strada, con in sottofondo le stupide provocazioni di quella donna che tanto odiava. Eppure ricorda con piacere quella sera. La vista di Jane che veniva malmenata lo faceva godere.
Ma eccolo il momento che più odiava. Quel sorriso da ebete che la donna faceva mentre lo giudicava. Quei denti, quei maledetti denti corrosi per via delle sigarette. Un ribrezzo unico che provava solo in quelle occasioni.
«Certo che quella faccia da scemo non te la levi mai, eh?» Disse la vecchia mentre rideva.
Daniel fece finta di nulla come sempre, ma proprio come sempre, il suo livello di irritabilità si alzò.
Una volta giunto a lavoro era sempre in compagnia di Eric. Lavorava alla scrivania affianco ed era la persona più logorroica che Daniel conoscesse.
Parlava sempre delle sue stupide serate, di impossibili business plan che secondo lui gli avrebbero svoltato la vita e , infine, parlava continuamente di sesso. Era un cane arrapato che sbavava dietro qualsiasi cosa avesse una vagina. Questa cosa gli faceva provare disagio. Daniel non si era mai avvicinato al sesso e nemmeno all'erotismo. Era una sezione di vita che non gli interessa, anzi, cercava di evitare. Avere qualcuno che per dieci ore al giorno fa continui riferimenti sessuali, per uno come Daniel è una tortura.
Ma di certo non poteva ucciderlo. Sarebbe troppo sospetto se scomparisse da un giorno all'altro.
C'era una cosa di utile che però disse una volta. Nel periodo in cui si lasciò con una certa Jenny, o Sally, non ricordava di preciso; Eric parlò per giorni di quanto fosse stata importante la sua psicologa per "riprendere la sua vita in mano", come disse lui.
«Dovresti provarci Dan, farebbe al caso tuo» Concluse quella volta.
A parte quel "farebbe al caso tuo", la cosa gli ispirò. Peggior decisione non poteva prendere. Quell'incontro fu un incubo. Dopo una serie di domande di cui Daniel non capiva l'importanza, improvvisamente la dottoressa Finch chiese: «Che rapporto avevi con tua madre?» Il proseguimento fu orribile e Daniel preferisce non ricordarlo.
Ogni giorno, dalle 10:00 alle 20:00, partiva la corsa all'oro. L'oro dei contratti. L'ufficio diventava una giungla, poteva esserci un solo re: colui che aveva accumulato più contratti durante la giornata. Fu un giorno sfortunato per Daniel. Molto sfortunato. Aveva concluso con zero contratti in tasca per il terzo giorno consecutivo, e questo voleva dire una sola cosa: ufficio del supervisore. Mentre si alzava e andava verso l'ufficio, c'era chi lo guardava dispiaciuto, chi lo compativa, chi lo guardava in silenzio e chi invece faceva finta di non guardarlo. Li odiava tutti alla stessa maniera. Perché sapeva perfettamente che a nessuno interessava realmente. Quell'ufficio era la rappresentazione in miniatura di com'era il mondo: Un posto dove tutti fingono per convenienza.
«Prego Daniel, siediti pure».
Eccola lì, Rosalinda Esposito: la donna più ordinaria dell'universo. Aveva sempre quello sguardo acido, freddo. Quanto lo odiava.
«Non perderemo tempo, sai già perché sei qui» si aggiustò minuziosamente gli occhiali «I tuoi risultati sono al quanto orripilanti. Una media del genere è inaccettabile».
«È un periodo della stagione dove può capitare. Lo dice spesso anche lei, supervisore».
«Osi anche controbattere? Hai sempre avuto una media orribile. In realtà non capisco neanche come tu sia riuscito a trovare lavoro qui». Tornò quello sguardo da imperatrice che Daniel non riusciva a sopportare. Gli ricordava cosi tanto sua madre, anche nelle parole. Passò il restante tempo a calmare quel fischio di rabbia che gli era partito nel cervello, senza ascoltare minimamente quello che la signora Rosalinda stesse dicendo.
«E questo è tutto. Può andare signor Rowe».
Uscì senza fiatare e tornò alla scrivania.
Era fuori l'ufficio con Eric. La notte stava già calando e si potevano già notare le luci abbaglianti dei lampioni.
Eric ruppe il silenzio «Cazzo, quella donna è un vero demonio. Non so come tu faccia ad essere ancora vivo». Era distratto dal telefono, stava cercando di chiamare qualcuno ma quest'ultimo sembrava non rispondere.
«Ti va una birra da qualche parte, Dan?»
«No, passo».
«Già, come sempre ...» Fece una smorfia di frustrazione all'ennesima non risposta alla sua chiamata «Cazzo, ma perché non risponde?»
«Chi cerchi?» Chiese senza pensarci troppo, Daniel.
«La mia psicologa, dovevo prenotare la prossima seduta ma ancora non mi risponde».
«Ormai sarà fuori servizio, prova domani».
«E dovrà rispondermi. Con tutti i soldi che gli do come minimo dovrà rispondermi».
I due fecero un altro tratto di strada insieme. Come sempre Eric parlava e Daniel ascoltava solamente. I due dopo un po' si divisero: Eric andò verso la metropolitana, dove aveva parcheggiato la sua macchina e Daniel proseguì dritto verso il suo quartiere.
Ecco il momento della giornata che Daniel preferiva. Il ritorno a casa con il crepuscolo che dominava nel cielo. Adorava quel periodo di tempo, perché poteva assaporare tutte le bellezze che solo quell'attimo della giornata poteva dare. Quei leggiadri colpi di vento che cullavano i suoi vestiti e che risuonavano come un flauto dolce. Quel colore viola del cielo che trovava sia amaro e sia dolce. In quei momenti tornava ad essere un bambino.
Rallentò il passo per potersi godere tutto quello che il cielo gli stava offrendo. Poi però, un orribile flash. Nella sera in cui sua madre morì c'era il crepuscolo. Bastò quel breve ricordo, quell'orribile ricordo, per rovinare tutto. Adesso aveva davanti agli occhi quell'acida di sua madre e la sua orribile dentatura da tossicodipendente. Iniziò ad avere il batticuore, non riusciva più ad avvertire i rumori esterni. Strinse la mano con cui teneva la sua borsa e digrignò i denti. Chiuse gli occhi per provare a calmarsi. Non stava funzionando, il batticuore stava aumentando gradualmente. Iniziò a contemplare qualsiasi soluzione ... oggi era lunedì, e il lunedì poteva esserci solo Vivaldi. Iniziò a canticchiare qualcosa per calmarsi.
«Hai paura del buio? Stupido di un bamboccio?»
Era Jane. Era totalmente ubriaca e si reggeva a malapena in piedi.
Gli occhi di Daniel scattarono e si aprirono immediatamente. Adesso aveva lo sguardo verso Jane.
«Che hai da guardare, eh coglione? Fai sempre quella faccia da pesce lesso, non ti sopporto» singhiozzò «Continua a camminare come fai sempre, bamboccio».
Daniel iniziò a respirare profondamente, i nervi iniziavano a pulsare sulle tempie e il cuore non smetteva di implodere.
Jane si avvicinò. Aveva un alito che sapeva di morte.
«Certo che sei proprio un deficiente tu» si avvicinò sempre di più ridendo. Quella maledetta risata da analfabeta disfunzionale. Daniel era immobile, in preda ai nervi. Non riusciva a fare niente, sembrava quasi spaventato.
«Che c'è hai paura?» Singhiozzò di nuovo « Hai bisogno della mammina, vero? Perché non vai da mammina farti cambiare il pannolino?» barcollava e rideva, più barcollava e più rideva. Finché Daniel non le mise le mani al collo. La alzò in aria e iniziò a stringere sempre più forte. Jane mentre si divincolava poté notare gli occhi di fuoco di Daniel. Ma soprattutto notò la sua espressione. Sorrideva, gemeva, era euforico. Stava godendo.
Jane iniziò a dare calci più forte e velocemente che poteva, ma sembravano non fargli niente. Con i suoi ultimi sforzi provò a colpirlo in mezzo alle gambe. Al primo calcio Daniel tentennò, ma non bastò per far mollare la presa sul suo collo. Ne diede un altro ma ancora niente. Questa volta notò una certa resistenza in quella zona, come se qualcosa di duro avesse attutito il colpo.
Adesso però Daniel era stufo e decise di utilizzare anche l'altra mano e tramortì per terra il corpo minuto della vecchia Jane. Era sopra di lei con le mani al collo che continuava a fare pressione, che continuava a spingere sul collo. Tutto questo fino all'ultimo respiro di Jane. Daniel finalmente non aveva più il batticuore. Si guardò intorno e si alzò in piedi.
Qualche ora più tardi, Daniel era fuori al suo palazzo. Aveva una maglietta diversa e in mano una busta con dentro una polo sporca di fango.
Aveva il volto esausto che, paradossalmente, sembrava il suo volto di sempre. Raggiunse il suo amato secondo piano, raggiunse la porta del suo appartamento, prese le chiavi ed entrò.
Preparò come sempre la cena, che questa volta accompagnò con un bicchiere di vino rosso. Era affacciato alla finestra, guardava il cielo.
Non pensava a niente. Assolutamente niente. Aveva Vivaldi in sottofondo mentre si godeva le luci del cielo. Perché era lunedì, e il lunedì, poteva esserci solo Vivaldi.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top