CAPITOLO 6
Jeff si sveglia. Percepisce un calore sul lato destro del suo corpo, e questo dapprima lo allerta; tuttavia poi gira la testa, e vede Toy.
Non può fare a meno di allargare un lieve sorriso. Non è abituato ad avere qualcuno al suo fianco, ma adesso si rende conto di quanto questo sia bello. Sapere che non è più solo come prima, che c'è un paio di occhi da guardare.
Fissa il cane con aria neutra, mentre pensa. Non riesce a spiegarsi il motivo preciso per cui abbia deciso di salvare quella bestia. Insomma, lo aveva già accoltellato...che motivo aveva avuto di salvargli la vita?
Da quando provava un qual si voglia genere di sentimento?
Questa per Jeff è una situazione del tutto strana, e continua a chiedersi che senso abbia aver agito in questo modo.
Tuttavia, ogni volta che si gira a guardare quel cane, sente qualcosa dentro di lui che non riesce a descrivere o spiegare. Deve essere qualcosa di molto simile ad un sentimento d'affetto.
Ad un tratto, Toy si sveglia ed alza la testa. I suoi occhi sono scuri ed intelligenti, contornati da alcuni peli divenuti bianchi a causa dell'età.
-Buongiorno fido- dice Jeff ridacchiando. Il cane scatta con la testa verso di lui e lo lecca improvvisamente sulla guancia.
Il ragazzo si ritira di scatto, cambiando improvvisamente espressione. Poggia le mani sulla schiena della bestia e lo allontana. -Che cazzo fai!- grida.
Toy scuote la testa e gli lecca la mano, ma questa volta Jeff gli molla uno schiaffo sul muso.
-Non mi toccare!- grida alzandosi dal divano. Una sensazione di panico improvviso lo assale. Sente la gola chiudersi, ed ha l'impressione che gli manchi aria.
Porta le mani alla testa, piegando il volto in un'espressione di dolore, e preme i palmi sulle tempie.
Nulla da fare. Non riesce a calmarsi.
Le pareti scrosrate tutt'intorno sembrano piegarsi, distorgersi, intrappolarlo. Poi arriva quel maledetto impulso.
Rapido corre nel bagno, ove si ferma davanti al mobiletto a specchio. Lo apre, e prende una cosa che non toccava più da diverso tempo: una lametta.
La sofferenza è ciò che gli da piacere, che lo fa sentire vivo. Ma non necessariamente deve essere quella degli altri.
Tira su le maniche della felpa, e scopre le braccia cariche di cicatrici, lunghe e sottili, che si intersecano tra loro a creare una fitta rete.
Le osserva con infinita tristezza, e quasi si mette a piangere. Poi poggia la lama sulla pelle chiara, e la affonda.
La sente scorrere sulla sua pelle, graffiarla, inciderla. Sente il bruciore delle ferite, la sensazione umida del sangue che ne fuoriesce e scivola lungo i gomiti.
Solleva la testa, ed emette un sospiro profondo, mentre spinge la lama sempre più forte, sempre più a fondo.
È la sua cura e la sua malattia. Un vizio, una droga, un desiderio così profondo e irrazionale.
Ne ha bisogno.
È questo che fa, quando uccidere non basta. Talvolta la sofferenza degli altri non è sufficiente. Talvolta ha bisogno di provarla sulla sua pelle.
Ed è così che le ferite si aprono sulle cicatrici, che il sangue rosso e caldo si riversa sul pavimento, che calde lacrime scendono dai suoi occhi chiari e profondi ed attraversano la pelle bruciata del suo volto.
La lama affonda.
Quanto dolore sarà ancora necessario a placare questa immensa sofferenza?
Le dita tremano mentre spingono sulla lametta. Sono umide, adesso. Umide di sangue. Del suo sangue.
Ma non si ferma, taglia ancora.
Lo spazio non manca. E quando mancherà, potrà sempre passare alle gambe. Non c'è limite alla sua sofferenza, e neanche alla sua follia.
Incide l'ultimo taglio, che si allunga in prossimità del gomito, poi lancia la lametta nel lavandino. Il sangue è ovunque, e testimonia la sua ricaduta.
Non si tagliava da un mese, ormai.
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