La bicicletta rosso sangue

- Storia breve ad ambientazione storica -

Austria, 1900

Odiava Amos. Non perché fosse bello. Non c'era niente di bello in lui. Aveva i denti storti, gli occhietti piccoli e scuri, infossati in uno volto tozzo e pallido da maiale. Era grosso, alto e largo, senza una forma definita. Non lo odiava nemmeno per il suo aspetto grottesco e fastidioso alla vista. Non era neanche per la ricca famiglia da cui proveniva. I Wellzer producevano macchinari per l'industria tessile, macchine per fare macchine per fare soldi a palate. Ci vedeva lungimiranza in questo. Non li odiava per la loro lungimiranza, anzi, li invidiava per quello. Prevedere l'andamento di un investimento poteva portare frutti inaspettati. Dalla finestra della sua modesta abitazione al centro della piccola cittadina in mezzo alle Alpi Orientali, osservava da dietro le tende Amos, mentre passava in bicicletta con i suoi amici. Adorava quella bicicletta. Aveva il manubrio da uomo, con i manici che tornavano indietro, di ferro, verniciata di rosso carminio, scuro e lucido, come una goccia di sangue che si rapprende sulla pelle. Vedeva Amos sfrecciare sul suo destriero di ferro rosso, ridendo e gridando, in testa al gruppo, sempre, con i suoi amici al seguito, che pedalavano sui loro destrieri di ferro inneggiando al loro capitano. Lo guardava sfrecciare per le stradine sterrate del paese, tra i ciotoli del centro, sul lastricato dell'argine lungo il fiume Inn. Diavolo andava dovunque con quella bicicletta. Desiderava quel pezzo di ferro verniciato più di ogni altra cosa. Purtroppo, però, era in mano al suo nemico. Amos non ce l'aveva specificatamente con lui. Era solo arrogante, quell'arroganza congenita di ogni dodicenne che dimostra quindici anni e viene da una famiglia ricca. Praticamente uno stronzo. Lui, a soli unidici anni, non poteva competere con Amos e i suoi tirapiedi. Lavorava per il padre, falegname, ripara tutto, imbianchino. Lo aiutava come poteva, portando i materiali, passandogli gli attrezzi o semplicemente facendogli compagnia. Imparava un mestiere, che forse, per come giravano le cose, per un austriaco di un paese sperduto nel nulla, era la cosa migliore da fare.

Mentre andava a lavoro, un giorno, passò di fronte a una vetrina dove stava esposta la locandina dell'esposizione universale di Parigi. In primo piano, svettava la Tour Eiffel, con il Globo Celeste sotto. Un simbolo di grandezza che s'innalzava verso il cielo, sovrastando il mondo. Sognava di poterci andare, anche se ormai il tempo era quasi agli sgoccioli. Sognava, perché in realtà sapeva che lui e suo padre non potevano permettersi quel viaggio. Dio quanto avrebbe voluto vedere il cinematografo dei fratelli Lumière. La notizia era giunta anche lì, a Braunau. Ovviamente, la voce si era sparsa perché i Wellzer erano andati, avevano visto il cinematografo, raccontando a tutti di come si erano spaventati quando un treno li aveva quasi investiti mentre stava per uscire dallo schermo di fronte a loro. Un'esperienza, l'aveva definita Levi Welzzer in persona, oltremodo eccitante e unica. Avevano viaggiato sui treni sotterranei di Parigi, in mezzo a milioni di persone da tutto il mondo. Poggiò una mano sul vetro sporco. Suo padre gli aveva sempre detto di non sognare più in la di ciò che poteva raggiungere con una mano. Ed era tutto lì, a portata di mano, Parigi, la magia del cinematografo, il Globo Celeste. Fu in quel momento, mentre sognava, che arrivò Amos e la sua banda di scagnozzi. Non li aveva sentiti, impegnato com'era a immaginare il suo mondo perfetto. Come al solito, lo picchiarono, tutti, a turno. Solo dopo molti calci e pugni qualche adulto si fece avanti per mandare via il gruppo. Avevano paura di quel ragazzino che somigliava a un maiale, anche gli adulti, paura del potere dei Wellzer, della loro impotenza nei confronti di chi poteva rovinare loro la vita. Solo il proprietario del negozio dove stava esposta la locandina si era opposto. Un giovane alto, biondo dal fisico atletico, che avrebbe messo paura a chiunque, anche a un bambino viziato figlio di ricchi.

Lo aiutò ad alzarsi, a sistemarsi e gli pulì le ferite. Suo padre gli aveva insegnato a tenere la testa alta, a non farsi mettere in piedi in testa da nessuno. Gli aveva anche detto, quando era più grande, che certe volte non si poteva sempre combattere, si poteva solo subire la rabbia e la stupidità della gente. Nemmeno lì bisognava arrendersi, però. Bisognava rispondere con dignità, con onore. Fu quindi stupito, anche se cercò malamente di non farlo vedere, quando quel ragazzone altro due metri che veniva da Berlino, scosse la testa, mentre gli puliva le ferite, e gli disse che le cose non stavano così. Bisognava sapere come rispondere a tono, sempre. Bisognava dar filo da torcere a chi arrecava un'offesa, come facevano un tempo i guerrieri. Nei giorni seguenti e per i mesi successivi, lo andò a trovare, e quel ragazzo gli raccontò di come Roma, da piccolo villaggio, divenne il centro del mondo. Non era per l'umiltà dei suoi valori, ma per la forza d'animo dei loro condottieri, che rispondevano alla debolezza con la forza. L'importante non era essere grandi e grossi, ma essere preparati. Bisognava partire dal basso per raggiungere i propri scopi, dunque. 

Pioveva, in mezzo alle Alpi, durante tutto l'autunno e l'inverno. La pioggia ingrossava il fiume, faceva ribollire quelle acque pure di montagna. Voleva quella bicicletta. Non ne voleva una uguale, non ne voleva una nuova, voleva quella.

Pensava a come realizzare il suo piano, per conquistare quel premio tanto ambito. Ci pensava mentre aiutava suo padre, mentre seguiva la messa in chiesa, mentre guardava la carrozza dei Wellzer sfilare per le strade di Braunau, mentre leggeva, sul libro di zoologia che gli aveva regalato Padre Hansel, delle tecniche di caccia del lupo e dell'aquila. I pestaggi continuavano. L'indifferenza di quegli inetti che abitavano quel paese di montagna pure. Così, giorno dopo giorno, cominciò ad appostarsi fuori dalla tenuta dei Wellzer, osservando, studiando le loro abitudini, per cercare il modo migliore di fargliela pagare. Amos, oltre alla sua bicicletta e ai cavalli del suo amico Friedrich, aveva una sola altra passione. Il suo cane Sigfrid, un bellissimo esemplare di Kurzhaar tedesco dal pelo fulvo. Mise in atto il suo piano dopo aver visto dargli da mangiare. Per realizzarlo, aveva catturato e ucciso uno scoiattolo, lo aveva scuoiato e aveva cotto la carne. Era sgattaiolato fuori da casa sua in piena notte, mentre il padre dormiva dopo la lunghissima e altrettanto fredda giornata di lavoro. Aveva attraversato il paese e si era nascosto nel boschetto di fronte alla tenuta dei Wellzer. Li aveva atteso, nella boscaglia, al freddo, come un lupo in caccia. Una volta intravvisto Sigfrid, lo aveva attirato al cancello, facendogli vedere il succulento boccone. Sigfrid era un cane intelligente, guardingo e fiero, ma sempre un cane. Mentre Sigfrid mangiava, gli piantò in testa un chiodo rubato dalla cassetta degli attrezzi del padre. L'animale fece solo un brevissimo lamento prima di stramazzare a terra senza vita. Raccolse la carcassa dell'animale e lo portò nella piazza centrale, dove, la mattina dopo, i Wellzer sarebbero passati per andare a Linz, a prendere il treno per Vienna. Era notte fonda, nessuno lo vide aprire la gola del cane morto e appenderlo al centro della fontana spenta. Si tolse i vestiti e li fece sparire, pulì per bene la sega del padre con cui aveva aperto la gola del cadavere di Sigfrid e tornò a casa. Il padre dormiva ancora della grossa e non si era accorto di nulla. Il resto della nottata lo passò con gli occhi aperti, a fissare il soffitto. Non pensò nemmeno per un istante alla misera fine del povero Sigfrid, era l'eccitazione che lo teneva sveglio. Puntuale, come da previsione, si fece trovare nella piazza mentre la carrozza sfilava e, visto il nutrito gruppo di persone che osservava la fontana e rumoreggiava turbato, si fermava per constatare di cosa si trattasse. Un sorriso si allargava sul suo viso pallido mentre Amos, disperato, scoppiava in lacrime dopo aver visto la fine del suo cane. Piangeva, il maiale, si disperava. Nessuno avrebbe mai sospettato di lui. O, almeno, così pensava. Un giorno, dopo la messa, Padre Hansel lo convocò nella sagrestia. Lui sapeva di Sigfrid, e poco dopo scoprì anche come aveva fatto. Suo padre lo aveva tradito, probabilmente aveva notato che i suoi attrezzi non erano dove dovevano essere, forse, nella fretta, al buio, aveva pulito male la sega, oppure aveva ritrovato i vestiti sporchi di sangue. Il padre, però, non ebbe l'animo di punirlo. Rimuginava su quello e su altro, a testa bassa, mentre Padre Hansel gli faceva una bella ramanzina sull'importanza di rispettare tutte le creature del Signore, e su come odio e vendetta non portassero altro che odio e vendetta. Un ciclo infinito e insensato. Fu lì che capì. La vendetta fine a se stessa non serviva a niente. I Romani, come gli aveva detto il ragazzo di Berlino, pianificavano ogni loro mossa, non lasciavano spazio a dubbio e improvvisazione, e lo facevano per un motivo ben preciso: raggiungere il loro scopo. Fu con quello nuovo spirito che affrontò il freddo e la pioggia, e la ritorsione di Amos. Il maiale ebreo non sapeva bene chi fosse stato, ma aveva dei dubbi, e, comunque, un motivo valeva un qualsiasi altro per picchiare quel poveraccio rachitico e pallido come la neve. Andava bene così, per ora, anche i Romani avevano subito diverse batoste prima di dominare tutto il Mediterraneo. Lui voleva quella bicicletta, e, in un modo o nell'altro l'avrebbe presa. Attese a lungo, meditando, mentre fuori si alternavano le rigide giornate di Gennaio. Fu in uno dei rari giorni di pioggia invernale che ebbe l'idea, guardando fuori dalla finestra il corso dell'Inn che s'ingrossava pericolosamente.

Questa volta, però, nessuno avrebbe capito. Un giorno, preso il coraggio a due mani, sfidò apertamente Amos in una prova di abilità. Oltre a menare le mani, sembrava che non avesse molte altre qualità. Lui, invece, sapeva usare la testa, era lungimirante. Amos, più per noia che per altro, decise di accettare la sfida. La prova era semplice: dovevano rubarsi qualcosa a vicenda, senza che l'altro lo scoprisse e senza che nessun altro se ne accorgesse. Se Amos avesse perso, si sarebbe tenuto la bicicletta, se Amos avesse vinto, sarebbe stato il suo schiavetto per un mese. Avevano una settimana di tempo. Attese il momento giusto. Una mattina di sole, mentre Amos e i suoi compari, come previsto, si dirigevano al parco per dare la caccia alle rane, lui li segui. Parcheggiarono le bici lontano, all'entrata, e lui attese. Rimase li, ad armeggiare sulla sua bicicletta per tutto il tempo, usando gli attrezzi del padre per mettere in atto il suo piano. Amos e i suoi amici, però, tornarono indietro e, da lontano, lo scoprirono, piegato sulle ginocchia, colto sul fatto. Cominciò a correre, verso casa, costeggiando l'argine gelato del fiume. Era già lontano quando gli amici si resero conto che le loro biciclette avevano le ruote bucate. Solo Amos riuscì a inforcare la sua e partire. C'era rabbia ed euforia in lui. Avrebbe vinto la sfida, avrebbe dato una sonora lezione a quel piccolo demente che aveva osato sfidarlo. Lui, però, non aveva paura. Correva, per mettersi in salvo, e, mentre Amos guadagnava metri una pedalata dopo l'altra, sul suo visetto pallido si allargava un sorriso. Se solo quel maiale ebreo avesse saputo che, in realtà, non aveva tentato di rubargli niente. Sorrideva, mentre pensava ai bulloni allentati che tenevano ferma la forcella, alle ruote sgonfie al punto giusto da non avere troppa presa sul suolo. Sorrideva, ascoltando la foga con cui non stava badando al ghiaccio sulla strada, all'argine pericoloso del fiume su cui lui correva. Sentì lo schianto del ferro sulla pietra lastricata e liscia, il tonfo del corpo sull'acqua, ma non si fermò, continuò a correre. Giunto alla chiesa, chiamò Padre Hansel, dicendogli che Amos Wellzer era caduto in acqua e rischiava di affogare. Tornò anche lui sul luogo dell'incidente. Mentre tutti si affannavano a cercare il corpo del ragazzo, il piccolo Adolf raccolse il suo trofeo e, nell'indifferenza generale, si diresse verso casa.

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