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Basato sulla vera storia di Bella Orsini.
Fiano Romano, 25 giugno 1528
In nome di Dio, io Bellezza Orsini, figlia di Orsini Pietro Angelo, nata un dì del 1475 a Collevecchio, scrivo di mio pugno questi fogli per chiedere perdono per i grandi mali che ho commesso, ammettendo i miei errori, le mie colpe e, anche se non l'ho mai voluto ammettere prima d'ora, di essere stata, agli occhi della gente, una strega. Quanto bene e quanto male ho fatto nella mia vita, giudicatelo in coscienza. Se troverò misericordia la domanderò, altrimenti sia fatta la volontà vostra, nobile conte e signore di Fiano.
Si pretende da me che confessi tutto quello che conosco riguardo la stregoneria, eppure essa è talmente complessa che non basterebbe una vita per spiegarla. Si pretende da me che mi penta di averla esercitata, eppure essa è un'arte che non può essere accomunata al peccato in quanto è assolutamente necessaria; in verità, nasce dal più importante tra tutti i nostri bisogni, grazie al quale ci distinguiamo dalle bestie: il desiderio di conoscenza.
La stregoneria si fa in modi diversi e ognuno la fa in base alle proprie inclinazioni e mettendoci del suo. È un continuo sperimentare, quando inizi non ti puoi fermare. È la più grande tra le arti, la devi continuamente esercitare e più vai avanti più non ti puoi fermare, siccome è un pozzo senza fine: tante più cose cerchi di comprendere e tante più sono quelle che scopri di dover capire, che prima nemmeno ne conoscevi l'esistenza. È inevitabile, quanto più apprendi tanto più vuoi proseguire, giacché hai l'irrinunciabile bisogno di capire. Così è la stregoneria e così si fa, questa è la verità!
Non c'è colpa in nessuna di noi, che definite fattucchiere, forse a metterci in testa mille e più dubbi, per poi suggerire le sue invenzioni, è il diavolo.
Un rumore, simile a un forte tonfo, mi fece sussultare e distogliere lo sguardo dal manoscritto. Proveniva dal lato più buio e lontano dell'enorme sala sotterranea, con il soffitto a botte e le pareti in nuda pietra.
Mi fermai immobile in ascolto, mentre il cuore mi batteva tanto forte quanto la campana che annuncia l'esecuzione di un condannato a morte. Nell'aria persisteva la puzza di qualcosa che continuava a marcire da lungo tempo e si mescolava con gli ancor più nauseabondi odori di feci e urina umana, di cui era impregnata la paglia sul pavimento.
Mi trovavo nell'ala più nascosta delle segrete del Castello di Fiano Romano, sede del locale tribunale. Ero distante almeno un paio di corridoi dalle carceri in cui erano rinchiusi i detenuti comuni, isolata dal mondo intero. Perfino le guardie evitavano di avvicinarsi a me, trattandomi come se avessi la peste. Le vedevo raramente, qualche volta si affacciavano dallo spioncino della porta per ingiuriarmi, ma non si arrischiavano mai a entrare, se non quando erano costrette, bestemmiando, a prelevarmi per trascinarmi a forza innanzi a quel ragazzotto altezzoso, che ero obbligata a chiamare giudice.
Non seguirono altri rumori, tutto era immerso in un immobile silenzio, ciò nonostante mi rimase la sensazione che qualcuno, nascosto in un angolo buio, mi spiasse.
Intorno a me intravedevo solo parte delle pareti, celato nell'oscurità poteva esserci chiunque, persino Satana in persona. Forse era solo un orrido ratto in cerca di cibo. Anche lui non andava sottovalutato e fatto avvicinare troppo. Se avesse preso troppa confidenza, nel momento in cui mi sarei abbandonata stanca al sonno, si sarebbe avvicinato, sicuramente, per annusare le piaghe sulla mia pelle, prima di assaporare, rosicchiando, la carne viva. Un brivido percorse il mio corpo, nell'immaginare l'orrenda scena.
Non sapevo nemmeno più da quanto tempo ero rinchiusa in questo luogo. Mi sentivo debole e stanca. Anche la morte non sembrava più una prospettiva tanto terribile. Raccolsi tutte le residue energie e mi imposi di non cedere alla disperazione. Nonostante la schiena, le spalle, le braccia e i polsi mi dolessero oltre l'umana sopportazione, decisi di proseguire a scrivere, ignorando le tremende fitte che provavo a ogni singolo tratto, di ogni lettera che tracciavo sul quaderno. Ogni frase era un parto, ogni capoverso un calvario.
Perché mi accusate? Con la mia scienza feci soprattutto del bene e lo possono testimoniare anche i frati francescani del convento di Civitella San Paolo, con cui per mesi ho mangiato nello stesso refettorio, seduta allo stesso tavolo e con le stesse posate d'argento. Loro mi volevano bene perché ero generosa nell'assecondare le loro richieste insistenti, dando loro consigli di ogni genere, spiegando la preparazione delle pozioni di erbe che utilizzavo per curare tanti mali. Persino quando volevano distrarsi un po', gli procuravo le donne, tutte le donne che volevano.
Qualche volta per fare del bene, per sbaglio, ho fatto del male e altre volte, lo confesso, ho fatto volontariamente del male, perché una strega lo deve fare, ma soprattutto perché non è sempre facile capire dov'è il bene e dov'è il male. Per troppo amore ho fatto cose persino orrende, perché ho rivolto il mio amore nella direzione sbagliata, seguendo il diavolo, che si è mostrato a me come un bellissimo uomo di pelle nera, elegantemente vestito e dai modi gentili. Non ho saputo oppormi quando, in groppa a un cavallo mostruoso che era più simile a uno spettro che a una creatura vivente, mi ha portato in volo fino sotto le maestose fronde del noce di Benevento, per la cerimonia del Sabba. Poi mi ha posseduto, procurandomi grande piacere, mentre gruppi di streghe, intorno a me, festeggiavano con balli sfrenati. Da allora ho dovuto fare del male e non so quanti lattanti ho soffocato, abbracciandoli con amore al petto, perché noi streghe facciamo così, ma non è colpa nostra, è solo e soltanto il diavolo a guidare i nostri gesti, le nostre azioni e perfino a dettare le parole che ho appena scritto. Il diavolo ci mette in testa tanti di quei cattivi pensieri, che non potete nemmeno immaginare. Io sono una vittima, una povera vittima, la colpa è solo di Satana.
Un lieve movimento dell'aria fece sussultare la flebile fiamma della candela, unica luce nelle tenebre che mi circondavano e ultimo appiglio per non sprofondare nella follia più completa. Un brivido percorse lentamente la mia schiena indolenzita.
Un nuovo rumore, questa volta simile a uno scricchiolio di ossa, fece tremare il resto del mio corpo.
Il diavolo, poteva essere.
Spalancai gli occhi. Mi avrebbe portato via con lui, nel luogo destinato alle anime dannate, se solo avesse voluto. No, non dovevo avere paura, l'inferno non poteva essere peggio del posto in cui mi trovavo. Nell'oscurità, nel silenzio e nell'umidità di quel sotterraneo mi sentivo seppellita viva.
Feci un respiro profondo, guardandomi intorno. Solo in quel momento mi resi conto che la porta d'uscita, in legno massiccio rinforzato in metallo, era socchiusa.
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Un saluto a tutti coloro che mi leggono.
La domanda nasce spontanea: cosa ne pensate?
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