Storia di un sogno
«Ho bisogno di parlarti», disse lui. Poi, mi prese la mano e mi trascinò per i corridoi affollati da genitori e bambini.
L’avevo visto mentre parlava con una mamma, molto giovane e piuttosto carina, e subito mi era risalito l’acido in bocca. Sapevo che, dopo tutti quei mesi, avrei dovuto farmene una ragione eppure il mio cervello andava in tilt quando si trattava di lui.
Andrea Ludovici era insegnante di inglese presso l’Istituto comprensivo “Gabriele D’Annunzio” ad Amaranta, cittadina sperduta tra i monti dell’Appennino, al confine tra Puglia, Basilicata e Campania: una sorta di “terra di mezzo”, dimenticata da Dio e dal mondo.
Non si trattava di semplice fascino, ma piuttosto di una qualche reazione chimica, che si attivava quando una donna entrava in contatto con il suo campo magnetico e capace di stordire la vittima di turno. Andrea era un connubio di proibizione e passione, fuoco che bolle nelle vene.
Mentre io, Greta Valente, ero una normalissima donna dai tratti marcatamente mediterranei e nessuna caratteristica particolare che potesse destare l’interesse di un uomo del genere.
L'unica cosa che poteva farmi entrare in collisione con una tale forza - che definirei “erotica” - era il fatto di essere insegnante di italiano e arti visive presso il medesimo istituto, oltre che una donna, ovviamente.
La mia vita scorreva piatta. Ero madre di un meraviglioso bimbo di 9 anni, Enea, e moglie dell’architetto più rinomato di tutto il sud Italia, Umberto De Matteis. Eravamo una famiglia benestante ma non vivevamo degli eccessi che ci si aspetterebbe da chi ha una vita agiata come la nostra. Eppure avrei dato qualunque cosa per scappare da Amaranta, o affinché capitasse qualcosa di eccezionale che potesse rendere la mia vita più movimentata e simile a quella delle mie amiche e coetanee, stabilitesi a Milano. Certo, avevo la scrittura a tenermi compagnia - quando non ero troppo impegnata ad assolvere i miei doveri familiari e lavorativi - ma null’altro.
Nella mia mente avevo costruito un futuro parallelo in cui mi vedevo seduta in una prestigiosa libreria a firmare copie a file di lettori.
Sono una sognatrice, ma il grande Shakespeare, autore a me particolarmente caro, diceva: “siamo fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita”.
Forse è proprio per colpa di questa “dote” che il mio cuore vola leggero tra le trame della vita regalandomi emozioni sconosciute al resto dell'umanità.
Ho sognato storie meravigliose e, in ognuna di esse, ho intrecciato una piccola parte di me così da renderle più vere e pulsanti. Chissà se un giorno qualcuno avrà il buon cuore e la sensibilità d'animo adatta a scovare le bellezza in questi piccoli fiori che oggi ho piantato.
Ma ritornando alla realtà, a volte troppo dura da mandar giù e altre talmente travolgente da lasciare senza respiro, la mia vita da mamma, moglie e insegnante era a momenti descrivibile come una landa desolata interrotta da qualche alberello sottile.
Più volte mi ero ripromessa di iscrivermi in palestra, non solo per buttar giù qualche chiletto, che mi trascinavo dietro dalla gravidanza di Enea, ma anche per intrattenere rapporti umani con gente differente dai componenti della mia famiglia o dei colleghi di scuola. Ogni anno però, mi ritrovavo all’inizio dell'estate con il certificato di idoneità all'attività fisica inutilizzato e il tempo utile per iscriversi in palestra terminato. Ero così costretta a comprare un nuovo costume da bagno abbastanza modellante che potesse assolvere al compito di contenere un adipe crescente.
Eppure quella mia vita tanto placida e monotona era stata investita da un uragano che minacciava di sradicare ogni certezza.
Quel pomeriggio c’erano i colloqui con i genitori e la scuola traboccava di persone. Il vociare degli adulti e gli schiamazzi dei bambini che si rincorrevano per i corridoi avrebbero fatto venire il mal di testa persino a un monaco tibetano.
Avevo lasciato Enea e il suo compagno di classe Mattia nel laboratorio d’informatica dove il professor Virgili aveva il preciso compito d’intrattenere i piccoli studenti, permettendo così ai genitori di parlare con calma con gli altri docenti. Una sorta di suicidio al quale il professore si era votato consapevolmente.
Mentre parlavo con la dirigente scolastica, Andrea, sfruttando il suo ascendente e charme esercitato sul sesso femminile - e non solo - mi aveva sottratta alla mia conversazione con una scusa.
«Cosa vuoi? Di colpo hai ripreso a vedermi?» Chiesi indignata mentre mi costringeva a seguirlo tenendomi con forza per mano.
«Stai zitta e cammina, stiamo già dando abbastanza spettacolo», ribatté senza voltarsi.
Facevo fatica a stargli dietro ma cercavo comunque di non inciampare nei miei stessi piedi. Nello stomaco avvertivo un aggrovigliarsi di intestini, mentre il cuore mi martellava nel petto per la paura e per l’eccitazione prodotti dall’intreccio delle nostre dita.
Mi bastava un solo sguardo di quell’uomo affinché dal mio basso ventre sgorgasse un desiderio rovente di abbandonarmi a lui tale da avviluppare ogni parte di me.
Oddio, quanto avevo desiderato un semplice contatto con la sua pelle eppure, in tutti quei mesi trascorsi fianco a fianco, mi ero dovuta accontentare di formali e fugaci strette di mano o tocchi distratti.
Mentre la mia mente mi portava in luoghi oscuri vedevo scorrere persone, pareti, aule, disegni di bambini, festoni cadenti dai soffitti incrostati, appendiabiti, finestre, porte, porte e ancora porte e infine le scale. Non gli importava che ci vedessero insieme, che vedessero un insegnante trascinarsi dietro una mamma, un’insegnante, una donna concupiscente.
Scendemmo quei gradini di marmo bianco e ancora vedevo le pareti ocra scorrermi davanti. Se attraversare il corridoio sui miei tacchi dodici senza cadere era stata un’impresa, scendere quei gradini sempre trascinata per mano poteva considerarsi qualcosa di prodigioso.
Lo seguivo in silenzio mentre una tempesta di pensieri contorti affollava la mia mente. Le nostre dita sembravano stringersi l’una intorno all’altra sempre con più forza, sentivo il suo calore attraverso i polpastrelli, quel calore che avevo più volte anelato di avvertire sulla mia pelle, vedevo la sua nuca ben rasata e corvina, le spalle larghe, il fisico asciutto e tonico, il sedere… Beh, quello sì che era poesia per i miei occhi.
Avevo la gola in fiamme, la bocca asciutta e le mani terribilmente sudate. Ero bagnata davvero ovunque e la mia condizione mi angustiava ad ogni passo. Dio, come mi sentivo miserabile. Sì, una piccola donna miserabile e di dubbia moralità. Ma no, non potevo essermi ridotta così per uomo che continuava a sbattermi in faccia tutto il suo disprezzo. Sicuramente voleva fare a brandelli quel minimo di autostima che albergava ancora in me e gettarmi a marcire negli inferi della mia coscienza macchiatasi di un tradimento platonico.
Il pensiero della mia famiglia aggiunse una nota drammatica a tutta quella situazione. Era come se la mia mente cercasse disperatamente di farmi rinsavire.
“Io, Greta, accolgo te, Umberto , come mio sposo. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”.
«Accidenti!» imprecai improvvisamente quando sentii lacerarsi lo spacco della gonna dietro le mie cosce.
Andrea si fermò di colpo voltandosi verso di me.
«Che succede?» Mi chiese con un tono misto di biasimo e preoccupazione.
In quel momento avvertii i suoi occhi nocciola penetrarmi fin dentro l’anima.
«Questa gonna da quaranta euro non era stata disegnata per fare la maratona di New York», risposi mostrando lo strappo dietro il mio sedere.
Andrea mi squadrò da capo a piedi e io potei sentire il suo sguardo bruciare ogni centimetro della mia pelle. Lo vidi soffermarsi sul mio sedere accennando un sguardo lascivo e poi risalire fino alle mie labbra.
«Vieni, dobbiamo parlare prima», disse per poi afferrarmi la mano un’altra volta e trascinarmi finalmente all’interno di una stanza.
Quando accese i neon mi resi conto che si trattava del laboratorio di chimica. Il ronzio proveniente dalle luci che pendevano dal soffitto rompeva il silenzio snervante tra noi.
Mi ritrovai di colpo al centro della stanza, tra i lunghi banconi del laboratorio e subito un gelo sinistro mi avvolse facendomi rabbrividire, nonostante la temperatura esterna fosse piuttosto mite.
«Siediti», mi ordinò indicandomi con un cenno del mento una delle sedie davanti a me. Andrea si era allontanato e il suo contatto mi mancava come l’aria, in quel posto tanto asettico.
Mi scrollai di dosso quella sensazione spiacevole e cercai di ricompormi mostrandomi forte.
«Non ho nessuna intenzione di sedermi. Mi hai trascinata fin qui, costringendomi a lasciare mio figlio nelle mani del professor Virgili per parlarmi di cosa?» ringhiai esasperata.
Sentivo di non poter reggere oltre la tensione di quella situazione. I miei nervi erano talmente tesi che non riuscivo a controllare neanche i muscoli della faccia e mi odiavo per questo.
«A che gioco stai giocando, Greta?» Mormorò piccato.
Era appoggiato a un banco, con le braccia incrociate sul petto mentre si fissava i piedi.
Trasalì ulteriormente a quell'accusa tanto infondata quanto inopportuna.
«Non lo so. Dimmi qual è il tuo di gioco? Abbiamo collaborato nel progetto “ il teatro shakespeariano a scuola” per un quadrimestre intero, c’era sintonia tra noi così come col resto degli altri colleghi del nostro gruppo. Poi, di colpo, non appena è finito il progetto, lentamente hai iniziato a schivarmi fino a farmi diventare invisibile. Dio mio. Eravamo una davanti all’altro poco fa e tu hai fatto finta che non ci fossi, limitandoti a salutare mio figlio. Ma che razza di persona sei?» Risposi indignata.
Stavo clamorosamente sbottando. Tutto il rancore maturato nelle ultime settimane stava venendo fuori con la potenza di uno tsunami e minacciava di trascinare via e distruggere ogni cosa, compresa me.
«È più facile fare finta che tu non esista», si limitò a ribattere senza alzare lo sguardo.
«Che risposta è? Questa è maleducazione. Se mi disprezzi così tanto potresti limitarti a salutarmi, nessuno ti ha chiesto di intrattenere conversazione o qualsiasi altro rapporto con me. Ma chi ti credi di essere?»
Ero furibonda e confusa, i pensieri pulsavano nelle mie tempie come se volessero spaccarmi il cranio e uscire dalla mia testa. Non riuscivo davvero a capire cosa avesse generato quel comportamento tanto irrispettoso nei miei confronti e guardare Andrea che continuava a fissare il pavimento, invece di guardarmi dritta in faccia, mi irritava ulteriormente. Lo vedevo stringendosi le braccia intorno al busto sempre più forte come se volesse contenere una qualche reazione del suo corpo e non sembrava affatto propenso a svelare il mistero legato a quel suo comportamento. Decisi a quel punto di uscire da quella stanza. Il rumore dei miei tacchi sul marmo scuro del pavimento riempivano il silenzio opprimente che invadeva la stanza soffocandomi.
«Ti rendi minimamente conto di ciò che hai fatto?» Proferì all’improvviso.
Sentii le gambe divenirmi molli e tremanti tant'è che fui costretta ad aggrapparmi allo stipite della porta.
«Ho finto», aggiunse con un tono monocorde.
Quelle parole, delle quali non riuscivo o non volevo comprendere il senso, risuonarono più gravi di un colpo di pistola dritto al petto.
«Cosa vuoi da me?» Ebbi la forza di dire, ma le mie di parole risultarono invece un sibilo appena comprensibile persino alle mie orecchie.
«Ho finto. Maledizione! Ho finto che fosse tutto normale, di avere tutto sotto controllo. Mi sono imposto di lavorare al tuo fianco, ogni giorno, come se fossi uguale agli altri colleghi, cercando di reprimere ogni istinto che mi portava a compiere gesti inappropriati al contesto. E tu che hai fatto? Non potevi starmi alla larga come gli altri? Tutti avevano compreso quanto fossi schivo e non si impegnavano più di tanto a intrattenere colloqui che esulassero dal lavoro che insieme dovevamo portare avanti. Tu, invece...», sorrise mestamente, «mi gironzolavi sempre intorno, pronta ad aiutarmi anche in cose che non erano di tua stretta competenza. Oh, ma c'è da dire che eri premurosa, dolce, attenta con tutti, quindi perché mai avresti dovuto fare eccezione con me?» Disse sarcastico in un crescendo di tonalità che rendeva quei sentimenti che stava cercando di descrivermi più vivi e laceranti.
«Non eri schivo. Hai fatto lo stronzo solo con la sottoscritta. Credi che mi siano sfuggite le attenzioni insistenti verso le altre colleghe più giovani? Cavoli, pensavo fossi cieca o stupida? Hai qualche problema con me? Avanti, sputa il rospo è finiamola qui così che possiamo entrambi ritornare alle nostre reciproche occupazioni», dissi esasperata.
«Eri sempre pronta a tendere la mano a chiunque ne avesse bisogno. Ti ho vista star male, cercando in ogni modo di superare persino la tua ematofobia pur di essere abbastanza forte da soccorrere un bambino che si era ferito durante le prove per il saggio finale. Gli hai tenuto la testa affinché non ingerisse il sangue che copioso fuoriusciva dalle sue narici. L’hai pulito, consolato finché non è sopraggiunta l’ambulanza. Poi ti vidi isolarti e cercare di riprenderti tra i conati di vomito.»
«Che significa? Cosa stai cercando di dirmi?»
Il cuore mi martellava nel petto e la gola mi sembrava come stretta in una morsa.
«Mi hai preso in giro, hai scherzato con me mentre io cercavo con tutte le mie forze di starti lontano. Sapevo che era tutto sbagliato, ma ogni volta che mi eri vicina e per caso ci sfioravamo sentivo perdere le forze e soprattutto diveniva impossibile tenere a freno i miei impulsi.»
Andrea mi parlava ma in realtà sembrava stesse biasimando sé stesso. Non riusciva proprio a guardarmi negli occhi e io non riuscivo a sopportare il peso di quella che sembrava una confessione. Facevo piccoli respiri quasi a non voler fare troppo rumore, interrompendo quel flusso di parole che dalla bocca di Andrea rimbalzavano dolorosamente nella mia anima.
Improvvisamente alzò finalmente il volto e i suoi occhi marroni sembravano divenuti di colpo neri come l’onice. Non riuscii a reggere quello sguardo lascivo e, al tempo stesso, furioso. Sembrava arrabbiato con sé stesso quasi quanto con me. Un fremito mi percosse da capo a piedi. Avevo paura di ascoltare ancora, avevo paura che avrebbe detto di odiarmi, avevo paura di scoprire che eravamo in realtà due anime perse, avevo paura per il mio matrimonio. Amavo Umberto e mai avrei voluto farlo soffrire a causa di una stupida infatuazione. Mi convinsi che mai e poi mai, un ragazzo tanto bello e seducente come Andrea Ludovici potesse provare una qualche attrazione verso una come me. D’altra parte lo avevo visto più volte flirtare con colleghe molto più carine e disponibili di me, quindi non potevo di certo piacergli io che ero una donna disgustosamente normale e piatta.
Non potevo mostrarmi debole, dovevo essere pronta a ribattere anche aspramente qualora avesse finalmente espresso tutto il suo disprezzo nei miei confronti. Dopotutto, chi si credeva di essere? Lo avevo reso il mio sogno proibito: lo desideravo come un bambino brama un giocattolo che sa di non poter avere. Mi ero ritrovata a fantasticare su di lui durante un amplesso con mio marito e questo mi aveva turbata parecchio. Mi sentivo sempre più felice quando sapevo di doverlo incontrare a scuola, così avevo iniziato a curarmi un po’ di più, a vestirmi in maniera più seducente, ma non volgare e ogni volta che mi ritrovavo sola con lui fantasticavo sulla possibilità di concedermi a lui. Sapevo che anche quello era adulterio, pur non essendoci stato alcun rapporto intimo, ma questa consapevolezza non era di sufficiente ammonimento tanto da farmi rinsavire.
Ero lì, pronta ad ascoltare eppure la mia mente non mi permetteva di assumere un atteggiamento di difesa da chi avrei preferito fosse il mio nemico. Volevo che in me affiorasse l’odio che avevo provato nei suoi confronti quando corteggiava le altre davanti a me o ancor meglio quando fingeva che non esistessi.
«Perché il giorno del saggio finale non ti sei limitato a stringermi la mano che ti avevo porto, ma hai voluto attirarmi a te stringendomi forte al tuo petto? Se la mia presenza ti dà così fastidio tanto da aver iniziato a trattarmi come un fantasma dal giorno dopo, perché mi hai voluta salutare a quel modo?» Sbottai in preda a un lampo di incoscienza e sfrontatezza.
Vidi Andrea iniziare a ridere, ma non sembrava affatto divertito, il suo sembrava piuttosto un ghigno amaro carico di frustrazione.
«Davvero non ci arrivi, vero? Sei una donna tanto intelligente ed empatica eppure non ascolti il tuo cuore, non ti vedi quasi quanto io ho fatto miseramente finta di non vederti.»
Rideva, scuotendo il capo impedendomi di capire qualcosa in tutta quella storia.
«Il mio era un addio. Volevo sentire, almeno per una volta, come sarebbe stato il contatto fra i nostri corpi», affermò.
Quell’ennesima confessione mi fece trasalire fino a togliermi il respiro.
«Hai compreso ora?» Mi chiese con un tono di voce sempre più profondo.
Scossi il capo, non volevo più ascoltare ciò che mi stava dicendo. Mi portai le mani alle orecchie sperando di allontanare persino lui.
«Non posso!» Continuavo a ripetere come un mantra.
Qualche mese prima avevo desiderato ardentemente di ricevere quelle parole da lui, ma in quel momento la parte di me virtuosa e ragionevole mi stava schiaffeggiando mentalmente per non farmi cadere in tentazione.
Mi sentì afferrare per i polsi e allontanare con forza le mani dalle orecchie. Di colpo, l’aria mi penetrò all'interno degli orifizi auricolari e aprii gli occhi. Andrea mi teneva ancora i polsi ai lati della testa, mentre i suoi occhi percorrevano e scrutavano il mio viso.
«Non posso. Lo capisci?»
«Lo so ed è per questo che renderti un fantasma credevo sarebbe stato più semplice, ma lavoriamo nella stessa scuola e ci vedremo comunque. La direttrice mi ha sottoposto un nuovo progetto nel quale intende coinvolgere te e il professor Morelli di musica.
«Italiano, inglese e musica? Cosa c’entrano? Io... Dirò di chiedere la collaborazione della professoressa De Carlo. Non posso. Non…»
La mia voce si fece un soffio perché faticavo a tirar su l’aria dai polmoni. Tremavo, avevo freddo e mi sentivo confusa.
«Ti desidero e non posso più più fare finta che non sia così. Ti vorrei anche solo per una volta», asserì incurante del macigno che mi aveva appena tirato addosso, rivelandomi quelle cose.
Non potevo dirgli che lo desideravo allo stesso modo, che volevo mi prendesse tra quei banchi facendomi sua, anche solo per una volta. Esaudire quel desiderio significava rovinare la vita di troppe persone che amavo e che avevano fiducia in me.
Dio solo sa quanti attacchi di panico mi aveva procurato quella storia e dietro quante bugie avevo dovuto celare la vera natura di quelle crisi.
Non potevo e non dovevo alimentare quella che sarebbe divenuta una macchina infernale e distruttiva.
«Non ti chiedo di amarmi. Non è una storia d’amore quella che cerco, ma solo di porre fine a questo supplizio.»
«Credi che ti sentirai meglio dopo avermi scopata? Ti farebbe davvero sentire meno frustrato? Ma che razza di uomo sei? E cosa pensi che io sia? Hai una vaga idea di ciò che mi stai chiedendo?» Chiesi furibonda.
Lentamente, tutte le mie pulsioni sessuali verso quell’uomo erano sfumate, lasciando il posto solo a rabbia e disprezzo.
«Credo che starò molto peggio, invece. Credo che mi spezzerai. Credo di amarti e questo mi fa talmente paura che sto ancora una volta, cercando di allontanarti a me. Perché in fondo so che sarebbe la cosa più opportuna da fare.»
Non avevo più parole perché la mia mente aveva smesso di elaborare pensieri. La vita stessa sembrava di colpo essersi fatta più pesante di cento volte. L’aria era ferma, statica, stagnante persino nei miei polmoni. Miliardi di gocce gelide e pungenti come cristalli di ghiaccio trasudavano da ogni poro della mia pelle. Tremavo come un bambino che aspetta di ricevere una punizione per una marachella, ma io avrei potuto compiere un danno di proporzioni apocalittiche tale da meritare come pena la morte.
«Vorrei poterti dire che non provo nulla per te, rendendo tutto infinitamente più semplice da gestire. Ma dovrei convincere prima me stessa. Desiderare, non vuol dire necessariamente amare qualcuno o qualcosa. Le cose possono essere complementari o dissociate, ma non credo si provare qualcosa di così superficiale. È inutile star qui a trincerarsi dietro sentimenti generici che dovrebbero avere il compito di rendere più leggera la nostra pena. Non dovrei provare per te nulla di differente dal semplice affetto e stima che nutro nei confronti di molti miei amici e colleghi. Non dovrei e invece sento di essermi persa in un inferno dal quale potrei venir fuori solo se ora dicessi “basta” e scomparissi da questa stanza.»
Sentivo il petto dolorante e una morsa serrarmi la gola in una stretta micidiale.
«Vai allora, fuggi da qui. Salvati da questo inferno e lascia che resti solo a sconfiggere il mostro che ci tiene in pugno. Vivi la tua vita, ama la tua famiglia come mai hai fatto prima. Continua a essere bella per te stessa e non per gli altri. Io vivrò ammirandoti e amandoti da lontano, aspettando un nuovo inizio anche per me.»
Lo guardavo mentre si accingeva ad affrontare la sua battaglia, la nostra battaglia sfoderando un lieve sorriso che mandò il mio cuore in frantumi. Le lacrime solcavano le mie guance, lasciando righe infuocate. Mi gettai al suo collo, baciandolo con tutta la forza e la disperazione che sentivo dentro. Andrea mi strinse forte a sé, in una sorta di morsa che non lasciava scampo, come se volesse impedirmi di scappare. Affondò le sue lunghe e nodose dita, dapprima nella morbida concavità dei miei fianchi e poi risalì fino alla mia nuca, dove le intrecciò ad alcune ciocche libere dei miei capelli, che tirò in modo da poter affondare meglio la sua lingua nella mia bocca. Quel bacio tanto anelato, catartico, passionale, travolgente ebbe il preciso compito di porre un sigillo a una storia d’amore mai iniziata, ma solo sognata.
Dopo quel bacio le nostre strade continuarono a scorrere parallele senza che nessuno dei due si aspettasse nulla di più dall’altro.
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