Il rastrellamento
Roma, 16 ottobre 1943
Le strade della Capitale sembravano intrise di un'atmosfera strana, quella mattina presto: Cesare se ne accorse guardando dalla finestra mentre raggiungeva la sorella e la cugina a colazione.
Da quando erano cominciati i bombardamenti da parte degli Alleati, la gente si sentiva poco al sicuro anche nello svolgere azioni normali, sia dentro che fuori casa; per chi aveva perso qualcuno o possedeva parenti dispersi, probabilmente divenuti partigiani, poi, erano giorni carichi di tensione.
I Belmonte appartenevano ad entrambe le categorie: il loro amico, Maurizio Filomusi, era stato ucciso dai Tedeschi, nei boschi della Ciociaria; il loro cugino Tiberio attualmente guidava una brigata di partigiani e chissà quando si sarebbe rimesso in contatto con loro.
Come se non bastasse, la sera precedente Annalisa, tornando dalla sede segreta di Radio Libertà con Orlando, aveva notato un particolare movimento dalle parti del ghetto ebraico: la donna di servizio di un carabiniere del commissariato dove il giovane lavorava era andata dagli abitanti, avvertendoli che erano tutti in pericolo e dovevano scappare; per tutta risposta le avevano riso in faccia, dicendole che si trovavano in una botte di ferro e nessuno avrebbe dato più loro fastidio - almeno non quanto le soffocanti restrizioni date dalle leggi razziali del 1938.
La famiglia Levi era probabilmente della stessa opinione di quella donna, e nella consapevolezza che la situazione sarebbe precipitata erano scappati in Svizzera: la contessa Orsini e le sue crocerossine avevano fornito loro i passaporti falsi per scappare, Elsa e le sue colleghe avevano fatto passare loro il confine nascosti nel doppiofondo di un'ambulanza.
Luciana, la quale condivideva il suo tempo a Via Panisperna col giovane Bernardo Levi, si consumava nell'attesa delle rare lettere del ragazzo, che la informassero sulla sua incolumità e su quella dei suoi cari.
Quella mattina il cielo era talmente nuvoloso che sembrava dovesse piombare sulle teste dei romani da un momento all'altro; Luciana e Annalisa stavano già facendo colazione: con la luce grigia proveniente dalla loro destra e quella gialla dall'alto del soffitto, sembravano due fantasmi pallidi di preoccupazione e ansia.
<< Tiberio ha telefonato? >> domandò Cesare, raggiungendole a tavola.
<< Ancora no >> sospirò Annalisa.
Presto Orlando sarebbe venuto a prenderla: passare del tempo con lui e militare segretamente per la liberazione dell'Italia erano le uniche cose belle della sua vita, in quel frangente.
<< E Bernardo? Si è abituato al freddo della Svizzera? >> fece poi il poliziotto, rivolgendosi alla sorella.
<< Quello mai. Conta i giorni per tornare qui >> replicò Luciana, con un'ombra di nostalgia negli occhi scuri.
Quell'atmosfera non diede al ragazzo molto appetito: mangiò solo per sostentarsi, aveva lo stomaco chiuso.
L'episodio della donna che aveva avvertito gli ebrei del ghetto di una catastrofe imminente lo aveva parecchio turbato.
Successivamente finirono di fare colazione, si misero i soprabiti e ognuno andò per la sua strada, ma quando il giovane Belmonte arrivò al commissariato, trovò una confusione che non riuscì subito a spiegarsi.
<< Ma cos'è successo? >> domandò subito, fermando i colleghi.
<< Andiamo, Belmonte. È successo un casino al ghetto! >> spiegò frettolosamente Durantini, prendendolo da parte.
<< In che senso un casino? >> insistette Cesare, tentando di capire se c'entrasse l'episodio della sera precedente.
<< I Tedeschi sono impazziti più del solito, sono arrivati lì e hanno cominciato a prendere gente, a portarla alla stazione. Non mi piace affatto, bisogna fermarli... >> commentò Valerio, mentre si dirigevano all'auto di servizio.
Il commissario mise in moto e guidò fino al ghetto, dove Cesare vide una scena che non avrebbe più dimenticato: i soldati tedeschi prendevano uomini, donne, vecchi e bambini, scaraventandoli in malo modo per farli camminare e impartendo loro ordini in una lingua che la maggior parte di loro neanche capiva.
<< Ma è uno scempio... >> mormorò il ragazzo, mentre il suo capo parcheggiava.
<< Proprio per questo dobbiamo metterci un punto! >> dichiarò questi, scendendo dall'auto e impugnando la pistola. Cesare fece lo stesso, mentre correvano verso il punto in cui i Tedeschi radunavano i poveri malcapitati.
Al giovane Belmonte parve una scena dell'Apocalisse: i bambini piangevano spaventati, e le madri cercavano di metterli in salvo; gli anziani erano pieni di dolori, ma non venivano ascoltati; diversi uomini erano ancora in pigiama, con la barba non fatta.
<< Fermi tutti, polizia! >> intimò Durantini, mettendosi tra un soldato tedesco e un ragazzo poco più giovane di Cesare.
<< E tu che vuoi? >> gli fece il soldato, con un italiano dal forte accento teutonico.
<< Lascialo stare... >> gli ordinò Durantini, ma l'attenzione di Cesare fu catalizzata da un altro soldato che stava strattonando una madre, la quale tentava di difendere i suoi bambini; a quel punto Belmonte non ci vide più e intervenne.
<< Non toccare quella donna! >> intervenne, impugnando la pistola.
Ma il tedesco fu più veloce di lui, e con il suo fucile gli sparò dritto nel petto per tre volte.
Valerio Durantini vide tutta la scena, e lasciò stare ciò che aveva intorno per correre incontro a quell'apprendista coraggioso e altruista che, all'inizio della sua carriera, si era trovato nel bel mezzo dell'inferno.
<< Belmonte, rispondi! >> lo chiamò, ma il giovane era esangue.
<< Belmonte... Dammi un segno di vita, cazzo! >> insistette, ma gli occhi di Cesare erano vitrei.
Il commissario cercò di salvare quante più persone possibile quel giorno, pensando che avrebbe dovuto avvertire i familiari del suo migliore pupillo.
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