CAPITOLO 7. -STORGE-

«Papi, non riesco a dormire» disse il piccolo reggendosi mezzo assopito alla soglia della porta, tra le braccia teneva stretto stretto un coniglietto di pezza e una leggera copertina. Indossava il suo grazioso pigiamino color arancio e i calzetti antiscivolo, entrambi doni del padre di Loris.
Il genitore chiuse il libro e interruppe la lettura, guardò il bambino e lo invitò a salire sul letto con lui. Il figlio corse lesto verso il padre, salì sul materasso e si riparò sotto il suo braccio.
Era notte tarda, e il cielo tuonava funesto, soffiava un forte vento e pioveva in abbondanza.

«È il temporale che ti tiene sveglio?»

chiese l'uomo, guardando i teneri occhi tristi da cerbiatto del piccolo. Quest'ultimo annuì, e dichiarò inoltre che ci fosse una creatura nell'armadio a impedirgli di dormire.
«E che aspetto aveva questa creatura?» domandò curioso il padre fingendosi piuttosto sorpreso, era abituato a sentire parlare di mostri e fantasmi. Il figlio un tempo, narrava di come un albero che si cibava di bambini, avesse cercato di entrare dalla sua finestra. Ammirava la sua fantasia, la trovava semplice e affascinante, diadema per un bambino di quattro anni.

«Ruggisce come un grosso motore, ha due occhi grandi gialli e un grosso paio di corna d'acciaio come un toro. Poi digrigna forte i denti, sbuffa fumo nero e si avvicina quando non lo guardo» descrisse il figlio simulandone la grandezza spalancano la bocca e le braccia, e imitandone il feroce ruggito. Il genitore cennò un sorriso e lo accarezzò.
«Tu lo sai che i mostri nell'armadio non esistono» disse, ma il piccolo lo guardò e confessò che la creatura non esisteva solo tra i vestiti, bensì anche nella sua testa. Dimorava nei suoi sogni, lo seguiva e perseguitava ovunque andasse.

Allora il genitore comprese e credette alle parole del figlio, poiché lui stesso aveva visto tali mostri.
«Anche papà lotta contro questi mostri» disse.
«Non hai paura?» chiese William.
Loris ne aveva molta paura, temeva che non sarebbe mai riuscito a sconfiggerle. Ma benché fedele a Dio, ed esempio per il piccolo, pose la paura da parte e si fece valoroso.
«No, non posso. Loro si nutrono della mia paura, maggiore timore io provo, e poi loro diventano grandi. E poi, bambino mio, come dichiara il Salmo quarantasei versetto due; Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce»

Pronunciò queste dolci parole accarezzando il visetto tondo e soffice del figlio, il quale aspetto innocente e puerile, portava in vita la moglie perduta. Il piccolo colse la mano del genitore, così grande rispetto la sua, che si sentì condotto al sicuro.

«Mi manca la mamma, a scuola i bambini mi prendono in giro, dicono che devo andare dove stanno gli orfani» lamentò.
Loris si sconfortò, dispiaciuto di sentire tali parole, e si sentiva così impotente davanti a quei piccoli prepotenti.

«I dottori non possono provare a ricurarla? Tipo a usare quei ferri da stiro che bisogna sfregare?» domandò, ignaro sul concetto di vita e morte. La domanda era così tenera che l'uomo dovette trattenersi dal non sorridere, doveva spiegare al figlio che non era possibile.

«No caro, i dottori non possono far tornare in vita i morti. Solo Dio può» disse.
Allora il piccolo guardò il cielo e disse «E allora perché non la fa tornare lui?»
Allorché Loris restò senza parole, suo figlio non avrebbe comunque compreso.
«Non è così che funziona, la mamma è partita per un lungo viaggio da cui non può tornare...»
William si sentì abbattuto, sotto sotto era ancora convinto che la madre sarebbe tornata, forse trovando la giusta strada per tornare indietro, magari durante questo viaggio si era smarrita.
Erano solo trascorsi tre mesi dalla sua morte, e la sua presenza era ancora corrente. Ne sentiva la voce, qualche volta gli sembrava di vederla.

«Ora basta pensarci» disse il padre, lo rimboccò per bene sotto le coperte e gli avvicinò il suo coniglietto di pezza accanto.
Il suo nome era Signor Hopper Carota, ed era un regalo dalla nonna materna.
Il piccolo baciò il suo amichetto e com'era sua abitudine fare, cominciò a succhiarsi il pollice. Loris riaprì il libro e riprese la lettura, ma dopo qualche minuto, il piccolo lo interruppe di nuovo.

«Papà» disse.
«Hm?» rispose il padre.
«Perché i tuoni sono così forti?» chiese fissando la finestra.
«Non lo so» rispose Loris, non si era mai posto questa domanda in vita sua, e non credeva fosse utile conoscerne la ragione.

«È Dio che sta facendo il temporale? Lo fa quando è arrabbiato?» chiese.
Loris guardò l'orario, si stava facendo davvero tardi, e desiderava poter concludere il capitolo.
Così guardò il figlio e gli disse di dormire, ma William gli fece capire che non si sarebbe addormentato da solo.
Perciò chiuse il romanzo storico che tanto amava, lo appoggiò sopra il comodino assieme gli occhiali, spense la lampadina e si mise sotto le coperte.
William si rallegrò, ora poteva avere sogni tranquilli poiché protetto dal genitore, dal Signor Hopper Carota e dal crocifisso posto sulla parete.
Nessun mostro sarebbe mai stato così sciocco da poter tentare di rapirlo quando sotto l'ala del padre, si sentì così protetto e bagnato d'amore, che si appisolò con il sorriso tra le guance.
Loris restò a guardare con meraviglia e dispiacere, la sua piccola creatura presso di sé. Lo baciò sulla fronte e gli augurò sogni beati, sia a lui che al coniglietto.

«Papà ci sarà sempre per te» promise, poi si addormentò.

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