6.
Poiché il sonno era venuto a mancare nel cuore della mezzanotte, Loris si era recato nel proprio studio, speranzoso di riuscire a connettersi con il talento perduto. Ma fu fatuo come sperarci, l'uomo non era nemmeno riuscito a posare le setole nemmeno sulla propria pelle. Così era tornato a letto, sconfitto e nervoso. Ma il cielo era stato benevolo, poiché era riuscito a dormire.
Al suono della sveglia, i suoi occhi rifiutavano di aprirsi e il letto si era innamorato del suo corpo.
Fu il figlio a svegliarlo, vedendolo stanco però, decise di non importunarlo, si preparò la colazione e il pranzo per scuola da solo, infine abbandonò la casa e si diresse verso scuola.
Loris non gli permetteva di andarci da solo, ma quella mattina era schiavo del sonno.
Si sentiva spaesato come un drogato, confuso come chi smarrito in un labirinto, altero come uno spettatore di sogni.
Non distingueva la destra dalla sinistra, il letto lo rievocò e dal momento che era senza un briciolo di forza per opporsi, si lasciò in balìa delle leggere lenzuola fresche.
Di lì avrebbe perso la cognizione del tempo, esso sarebbe trascorso lentamente lesto in completo silenzio.
Loris sonnecchiò per lunghe ore finché improvvisamente il sonno lo abbandonò di punto in bianco.
Quando riaprì gli occhi erano le tredici, suo figlio sarebbe tornato da scuola intorno alle quattordici.
A quel punto dovette per forza alzarsi da quel comodissimo letto, ma era come dover abbandonare una giovane conosciuta la sera scorsa. Non voleva.
Eppure si fece forza, pianificò nella mente ciò che doveva fare in giornata, e varcò oltre la porta di camera sua.
Lungo il corridoio, volse lo sguardo a una delle foto appese alla parete.
Le nuvole bianche presenti nel cielo sotto cui suo figlio si trovava quando aveva quattro anni, a casa dei nonni, gli rammentò la busta che Gavriel gli aveva dato.
Pensò di darla alla chiesa poiché sia a lui che a William non servivano tutti quei soldi.
Dunque, qualche minuto più tardi, con la pelle fresca di sapone, l'alito di menta, i capelli legati e in abiti semplici e comodi; Loris si recò in banca dove convertire l'assegno, dopodiché guidò verso la villetta del pastore Daniel.
Era una umile casetta olivastra strozzata in mezzo a due grossi edifici, con il tempo questi l'avrebbero soppressa e sarebbe di certo stata sostituita da un edificio altrettanto massiccio. Camminato verso la breve piastre di cemento, l'uomo bussò alla porta, e poiché era ben conosciuto dalla famiglia, la sua voce bastò al proprietario per aprire senza guardare dallo spioncino.
«Pace pastore, sono giunto qui per consegnarti una cosa. Questi sono per la casa del Signore»
Dichiarò porgendo tra le mani del pastore la busta, all'interno c'erano esattamente millecento dollari canadesi, sufficiente se non di più, per una bella ristrutturata alla chiesa.
L'uomo santo colse la busta e se la condusse al cuore, felice che una delle sue pecore avesse in affetto la casa di Dio.
«Questo venerdì ci sarà l'incontro dei giovani, porta William, a mia moglie farà piacere riceverlo» disse dopo averlo ringraziato, Loris annuì e promise che il ragazzo si sarebbe senza alcun dubbio presentato.
Dopodiché tornò nella propria auto dove ricevette una improvvisa chiamata dal signor Heinrich. Issò gli occhi, non aveva alcuna voglia di mettersi a dipingere, ma dacché aveva appena lasciato la casa del suo pastore, non se la sentì di mentire.
Ma per sua fortuna, quando rispose al telefono, l'uomo gli disse di raggiungerlo in un noto bar.
«Buongiorno Loris, come stai? Hai tempo?»
Loris si fece scettico, pensò alla carezza di ieri e si domandò se fosse riguardo a quella.
«Posso sapere di che si tratta?» chiese.
«Solo una chiacchierata, avanti vieni, ti aspetto al bar della piazza, quello davanti alla fontana delle sirene»
Loris accettò e prima di chiudere la chiamata, promise che si sarebbe fatto vedere entro una decina di minuti.
Nel frattempo Gavriel aspettò il proprio amato, quello non era affatto un appuntamento romantico, ma tutto ciò gli fece sorgere un'idea.
Trascorsi dieci minuti, come promesso, Loris Anderson mise piede nel bar.
Gavriel si fece notare e lo attirò a prendere posto al suo tavolo.
L'uomo si sedette al tavolo e si mostrò affrettato di giungere alla vera ragione per cui fosse stato convocato.
Gavriel invece era molto più sereno, offrì al pittore del latte macchiato e decise di cominciare il discorso lentamente.
«Ieri la festa si è conclusa alle due del mattino, il salone questa mattina era un vero disastro, sembrava si fosse svolto un bagordo» ridacchiò.
Ma Loris, uomo di scarso umorismo, non sorrise affatto.
«Sorridere non ti ucciderà, dovresti farlo più spesso» disse Gavriel.
«Lo faccio solo quando sono davvero felice o costretto. Ora, signore, senza metterle troppa fretta, potrei sapere il motivo per cui mi ha fatto venire qui? Mio figlio si trova a casa da solo e devo stendere i panni»
Disse.
«Nulla, volevo solo poter trascorrere del tempo con il mio pittore preferito. Sono il tuo fan numero uno» confessò Gavriel, con gli occhi persi nel volto di Loris.
Quest'ultimo, disgustato da quell'atteggiamento da lecca piedi, erse gli occhi e accolse il complimento per non sembrare scortese.
«Hai un talento assurdo, io venderei un organo per saper disegnare come te» disse Gavriel.
«Hm» ribadì il pittore, non sapendo come mostrarsi genuinamente grato.
«Scusa, ho detto qualcosa che ti ha offeso?» domandò Gavriel.
Posato sulla sua gamba sinistra c'era un mazzo di fiori che aveva comprato apposta per Loris, glielo avrebbe dato se l'atmosfera giusta si fosse creata, ma il pittore non sembrava molto entusiasta.
«No per niente, sono solo un po' stanco» disse Loris.
«Capisco...» era chiaro che il pittore se ne volesse andare, e Gavriel non si sentiva di costringerlo a restare.
«Beh, domani pensavo di farmi ritrarre con la mia bambina. Oggi è venuto il veterinario a darle un'occhiata, sta bene e cresce in salute»
Con quel termine egli si riferiva al suo animale domestico, il serpente.
Lo aveva chiamato Lilith, proprio come la prima moglie di Adamo, che per sedurre Eva si era mutata in un rettile. Non credeva in quelle favole religiose, tuttavia quel personaggio l'aveva incuriosito.
Loris odiava quell'essere scagliato e snodato, gli faceva ribrezzo e nutriva il timore che prima o poi lo avrebbe morso e ucciso.
«Certo» rispose.
Gavriel sorrise, era così gaio e felice all'idea di farsi ritrarre con la sua principessa.
«Bene, salutami tuo figlio allora. Ci vediamo domani» concluse ergendosi dalla sedia, andò a pagare il conto al bancone e infine uscì dal bar, completamente dimenticandosi dei fiori.
Loris lo guardò andarsene via e si alzò di sua volta solo quando non fu più capace di seguirlo con lo sguardo.
Mentre tornava a casa in auto, non poteva far meno di pensare a Lilith, la bimba del suo cliente.
Si sarebbe messo su i suoi stivali, così se per caso il padrone l'avesse lasciata strisciare per il pavimento, le sue caviglie sarebbero state al sicuro da quei denti.
Giunto a casa si mise subito ai fornelli per preparare sia il pranzo che la cena, così che una volta che William fosse giunto a casa, non lo avrebbe tormentato chiedendogli che cosa avrebbe mangiato.
Mentre il tutto bolliva in pentola, l'uomo si sedette a tavola e attese con pazienza le quattordici.
Si dedicò alla lettura di una confezione di biscotti che stava al centro del tavolo, fu così che la noia sopraggiunse e appesantì ogni secondo.
Quando la pasta fu pronta e condita, William fece rientro a casa.
«Ciao, amore» salutò il padre accogliendolo all'ingresso. Il ragazzo si levò lo zaino dalla spalla e si lasciò dare un bacio di benvenuto, ma non era molto entusiasta di essere tornato, perché era varcato da quella porta con una delusione nello zaino, schiacciata in mezzo a due libri all'interno di una busta trasparente.
«Ti ho preparato spaghetti al pesto, per questa sera invece ho fatto un po' di poutine» disse fiero.
«Grazie» balbettò il giovane, consapevole che presto avrebbe dovuto alterare l'umore sereno del padre.
Quest'ultimo tornò in cucina per cominciare a impiattare la pasta, nel frattempo il ragazzo si pose miriadi di domande.
Era indeciso se consegnare l'esito prima o dopo il pasto, ma non voleva rovinare il gusto del pranzo con un'amara ramanzina. Così decise di recarsi prima in camera e tenere la carta sotto il cuscino, l'avrebbe mostrata al momento giusto.
Loris non sospettava di niente, non aveva ancora messo occhio sul registro perciò era ignaro del risultato che il figlio aveva ottenuto.
"E se gli prendessi il telefono? Se lo facessi accidentalmente cadere in acqua? Se negassi tutto?"
La mente di William non cessava di sgravare pensieri assurdi, era con le spalle al muro ed era solo questione di secondi. Suo padre se ne sarebbe accorto quel giorno, tormentava il registro come un commesso alle calcagna di un cliente curioso.
La sua scelta alla fine ne valse nettamente la pena, gli spaghetti gli piacquero e il padre ne fu molto contento.
«Com'è andata la verifica di storia?» domandò, convinto che il figlio avesse preso il massimo dei voti.
Ma il ragazzo titubò e si mostrò molto incerto al riguardo, confessò di non essere sicuro ma disse inoltre che aveva la verifica proprio sotto il cuscino.
«Perfetto, fammela vedere»
Disse il padre.
Non era per nulla preoccupato, anzi, era pronto a osannare il figlio per il buon risultato.
Il ragazzo sparecchiò e salì in camera sua per recuperare la verifica. Ci mise più del dovuto, sulla via del ritorno la paura del castigo lo divorava da dentro e tendeva i suoi passi lenti e confusi. Recitava a mente ciò che avrebbe dovuto dire in sua discolpa, alle bugie e alle scuse. Ma conoscendo il padre, sapeva che quel voto lo avrebbe reso assai furioso.
Loris nel frattempo stava lavando le stoviglie e il piano di cottura, in attesa che prima o poi il ragazzo sarebbe giunto con aria piena di sé.
William giunse in cucina, allo stomaco stringeva con tremore la verifica.
Su quel pezzo di carta c'erano scritti vari quesiti, caselle spuntate e segni marcati in rosso che sottolineavano le innocenti distrazioni.
Quando il padre si accorse della sua presenza, si asciugò le mani lungo i pantaloni, si avvicinò, si sedette a tavola e colse in mano il foglio.
Inizialmente lo guardò dignitoso, ma poi, man mano che lo sguardo calava sul fondo, quel sorriso scomparve.
«William che cos'è questa?» chiese, quasi sicuro che si trattasse di una innocua facenza.
«È la verifica di storia» rispose.
Loris ripose la domanda, questa volta con maggior dubbio.
«È la verifica...» rispose nuovamente il ragazzo.
Non era una celia, e nemmeno la verifica di un altro ragazzo. Il nome e cognome erano del figlio, quella era la sua scrittura e l'esito assegnato dal docente era autentico.
«"C" meno?» replicò il padre, tremendamente deluso. Quel trattino affianco alla lettera era ciò che più lo indignò, suo figlio non gli aveva mai portato un voto così basso durante quell'anno. Girò e rigirò la carta, lesse le domande e i vari errori commessi.
«Avevi studiato?» domandò.
«Certo che sì, io avevo studiato» rispose il figlio, consapevole però, di aver leggermente accarezzato le pagine di quel grosso libro.
Loris non si lasciò ingannare da quello sguardo pietoso, riconobbe dalle gesta e la incerta postura del figlio, che stava palesemente mentendo.
«William, avevi studiato?» ripeté con tono più integro.
Il ragazzo singhiozzò e annuì.
«Che hai fatto quella sera? Hai ripassato? Hai fatto qualcosa?» domandò l'uomo, il cui animo stava già ribollendo e meditava su quale severo castigo condannare il ragazzo.
«Ho studiato e ripassato, sì...» ammise William, ma il padre continuò a porre la stessa domanda pur di demolirlo moralmente e vedere fino a che punto sarebbe riuscito a mentire.
Ammise di aver studiato per ben cinque volte, sufficienti per dare a Loris una maggior motivazione per punirlo. La verifica parlava chiaro, gli errori che il ragazzo aveva commesso erano evitabili e banali, se davvero avesse dedicato le sue attenzioni a quel libro, non le avrebbe sbagliate.
«Recitami il proemio, ti avevo detto che ti avrei interrogato quando potevo, avanti» ordinò.
Ma William dichiarò a voce sottile di non conoscerla.
«Io non la so...»
«Prego?» chiese Loris, la cui pelle stava cominciando a scaldarsi.
«Non la so» farneticò il giovane, oramai consapevole del guaio in cui si era cacciato.
Il padre a quel punto si sentì profondamente ferito, brontolò qualcosa in francese «Oh Seigneur, que dois-je faire de ce garçon?»
Allorché William si rese conto di essere davvero nei guai.
Loris guardò il figlio con occhi d'ira, e colto dalla frustrazione e la vergogna, lo percosse sulla guancia.
Il giovane barcollò indietro ma si resse allo schienale della sedia, e si medicò la guancia con una carezza.
«Quanto stupido credi che io sia?»
L'uomo si alzò dalla sedia e si avvicinò al figlio, quest'ultimo, con il timore di essere colpito di nuovo, erse leggermente le braccia e si coprì il volto.
«È solo che è per la settimana prossima, credevo che avrei potuto impararla anche durante il weekend» ribatté il ragazzo.
«E la verifica dunque? William, sai perché sono arrabbiato? Non solo hai avuto il gran fegato di portarmi questo voto vergognoso, ma hai anche osato prenderti gioco di me! Da quando menti a tuo padre? Prima picchi i tuoi compagni, poi pronunci volgarità e ora dici bugie?»
Il ragazzo si scusò e cercò in mille modi di convincere il padre a farlo andare in camera e cimentarsi così nello studio, ma Loris si sentiva fin troppo oltraggiato e non tollerava quell'atteggiamento.
«William, per cosa ti mando a scuola?» chiese.
«Per imparare»
«Dunque lo sai per cosa spendo soldi. Ottimo, ma ora vediamo di cacciare via questa tua improvvisa audacia da ribelle»
Il ragazzo non seppe come replicare, desiderava solo potersene andare via.
Ma il padre decise di non concedergli la grazia di andarsene e basta, ma indicò il tavolo e disse.
«Mani sulla tavola»
William realizzò e prese disperatamente a scusarsi.
«Aspetta papà no, ho studiato, ho studiato te lo giuro!»
Ma la verità era che non aveva studiato, durante le assenze del genitore e i momenti di solitudine in camera, egli si era dedicato ai propri vizi e fantasie immorali. Il libro se n'era stato tutto il tempo nello zaino, non aveva goduto di alcuna attenzione.
«Ho detto mani sulla tavola!» ripeté l'uomo, ma il ragazzo continuò a supplicare e cominciò a sfociare in un fiume di lacrime.
«Non voglio ripeterlo, metti immediatamente le mani sulla tavola!»
Era palese che da lì non se ne sarebbe andato senza prima aver subito la punizione, così si rassegnò, e obbedì al padre.
Condusse entrambe le mani sulla tavola, e vacillante come una foglia, attese con angoscia la penitenza.
Il padre si diresse in soggiorno e sopra la credenza, dietro le matrioske e le statuette dei mulini ad acqua, prese in mano la bacchetta.
Un lungo e sottile arnese di salice estratto dalla chioma di un albero tempo fa da lui stesso, battezzato come educatore della consuetudine del figlio.
Anche se illegale, Loris non risparmiava la verga al figlio, dacché "uomo di Dio", considerava la legge imposta dall'uomo futile.
Inoltre egli stesso era cresciuto così, suo padre lo aveva istruito presso una scuola la cui chiave del successo era la disciplina. Per eccellere come un adulto maturo, bisognava imparare dai propri errori e accettare la punizione. Il timore delle conseguenze sviluppava il pentimento, e il pentimento un figlio perfetto, ovvero quello che voleva che William fosse.
Quando erse la lunga bacchetta, il ragazzo si voltò e si preparò ad accogliere il dolore prossimo a provare, e quando ne fu colpito, il fischio dell'aria falciata venne seguito da un trattenuto sussulto.
Dopodiché, Loris sorresse nuovamente l'arnese, concesse al ragazzo di riprendersi dal primo colpo, e proseguì.
William singhiozzò addolorato, flettendo la schiena e strizzando gli occhi.
«Dov'era la tua testa durante la verifica? Perché non ti sei voluto impegnare?» domandò.
I colpi si fecero sempre più violenti, tra uno schiocco e l'altro, William gemeva in agonia, digrignava i denti e s'impegnava a trattenere le mani ben fissate sulla tavola.
Sarebbero stati guai cari se le avesse anche solo spostate, il padre non lo avrebbe assolutamente tollerato.
«La verifica era difficile, quasi tutti hanno preso la insufficienza! Io ci ho provato! Ci ho provato!» lamentò stordito dal dolore.
«A me non frega degli altri, a me frega solo di te! Ora mi dici veramente che cosa stavi facendo al posto di studiare» disse fermandosi, giusto per permettere al ragazzo di rispondere alla domanda.
Quest'ultimo si voltò leggermente, ma prima che potesse rispondere, venne colto da una violenta tosse.
Il petto sobbalzava lesto e ogni parola veniva inghiottita da un singhiozzo.
Aveva le guance abbozzate di rosso, le gambe vacillavano e la pelle sotto quei pantaloncini color cachi ardeva come non mai.
«William, rispondi» marcò colpendolo altre tre volte, per poi minacciarlo di colpirlo di nuovo se non avesse ottenuto una risposta.
«Ho studiato meno di quanto avrei dovuto perché ero stanco» rispose il figlio.
«Oh William, non ti sto chiedendo troppo come genitore. Tutto ciò che pretendo da te è che tu vada bene a scuola. Se mi fallisci solo in questo come diamine farai a vivere?»
Il padre abbassò la bacchetta e sospirò deluso.
«Ora vai a prendere il tuo libro, mettiti all'angolo e imparati quel maledetto proemio. Quando avrai finito voglio che me lo reciti per bene, se oserai anche solo sbagliarmi una parola, una lettera, giuro che te ne prenderai altre venti» disse.
Il ragazzo si pulì il volto e abbandonò la cucina per dirigersi verso camera sua, mentre si avviava marcava i propri passi, assalendo con il pensiero il padre.
«Porta pure il muso se vuoi, ma ricorda che sono tuo padre e ho il pieno diritto di rimproverarti!» gli gridò furioso, e puntualmente i tonfi cessarono.
Ripose la bacchetta al suo posto, dopodiché firmò la verifica e come programmato si recò in giardino per stendere i panni.
C'era molto sole quel pomeriggio e Loris voleva sfruttarne l'occasione, nel mentre il ragazzo si era portato all'angolo del soggiorno, seduto sopra uno sgabello cominciò a impararsi per bene ogni riga.
La ripeté a mente numerose volte, serrava il libro e gli occhi masticandola tra le labbra. Interrogava la propria ombra, leggeva e rileggeva con attenzione.
Intanto che i minuti scorrevano, il padre finì di stendere la biancheria e passò a stirare gl'indumenti già asciutti.
Stava in salotto, dove poteva vegliare sul ragazzo.
«Mi raccomando, imparatela per bene se non vuoi riassaggiare la bacchetta» disse ancora irrequieto, mentre passava il ferro sulle dune delle maniche.
«Ma dico, è così che ti ho cresciuto? Giuro che la prossima volta che una roba del genere si ripete ti farò vedere le stelle da quante ne prenderai. Ti menerò davanti a tutto il quartiere, che mi arrestino pure! Dio santissimo, ma guarda te, osa mentire a me, suo padre? Lo avrai sicuramente preso da quella donna perché io non sono un bugiardo e non mentivo a mio padre quando avevo la tua età!»
Il ragazzo tremava al sol pensiero di poter vedere le stelle di giorno, riconosceva che le parole del padre non erano semplici minacce per istigarlo a impegnarsi, ma vere e proprie dichiarazioni.
Perciò annuì e assicurò che non ci sarebbe stata una seconda volta, tuttavia, pensò che si sarebbe fatto più furbo. Non avrebbe di certo rinunciato ai suoi vizi e alle sue abitudini solo per rendere il padre contento, non poteva.
Passò un'oretta, William si voltò e annunciò di aver finito.
Anche il padre aveva terminato di stirare, e mentre chiudeva l'asse disse al ragazzo di recitarla.
«Cantami, o diva, del Pelìde Achille l'ira funesta...»
Il giovane pronunciò ogni singola parola con cura e prestazione, covando costantemente il timore di sbagliare. Loris lo ascoltava e annuiva man mano che procedeva, era fiero di sé e di come il metodo più arduo fosse stato in grado di trarre dal ragazzo il meglio.
Era riuscito a recitare tutto quanto il canto alla perfezione, senza alcun errore e senza nemmeno balbettare.
Il padre ne fu così fiero che lo chiamò tra le sue braccia per consolarlo.
«Non deve più ripetersi, okay?» disse.
«Sì, va bene» rispose.
Loris lo accarezzò teneramente e lo baciò sulla fronte due volte.
«Tu lo sai che ti voglio bene» disse, il figlio lo guardò e annuì, ma in cuor suo gli augurava un malanno.
«Sì, lo so»
«Mi ferisce rimproverarti, ma per te, e da te, voglio solo il meglio. Sarei un padre cattivo se non correggessi i tuoi sbagli, e verrei assalito dal senso di colpa se non facessi nulla. Ricorda che non trovo alcun piacere nel picchiarti, e fa più male a me che a te
Seguì un altro bacio e poi una carezza, William detestava ammetterlo ma gli faceva piacere essere consolato dopo un severo rimprovero. Era come del ghiaccio sopra un ginocchio sbucciato, come della salvia s'una ferita aperta.
Il giovane garantì al padre che avrebbe fatto di tutto per portargli a casa un ottimo esito, dopodiché si ritirò in camera sua e si cimentò nella storia per poter recuperare.
Loris lo guardò con fierezza e si omaggiò per aver seguito la dottrina del padre, ma la donna dai lunghi capelli corvini, era contraria a quelle maniere ardue.
«Sei troppo duro» disse
«Non è vero» rispose Loris.
«È per il suo bene»
«Ti odia» disse lei, le sue parole provocarono l'allontanamento dell'uomo, che si recò in giardino per prendersi cura delle piante.
«Un giorno mi renderà grazie» disse con la donna che lo seguiva alla spalle.
Aveva l'animo e l'orecchio duro, non c'era modo di farlo ragionare. Egli viveva in un'età passata, e non era conforme alla modernità.
«Sono grato che sia sopravvissuto io. Tu lo avresti rovinato, lo avresti fatto diventare tale a mio fratello. Mio figlio è perfetto e un giorno mi renderà omaggio, egli sa che lo amo e non coverebbe mai dell'odio verso di me. Non si può odiare un padre»
Ma le sue parole andavano in contro ai ringhi funesti del ragazzo, chiuso in quella stanza a gettare oggetti contro la parete e urlare contro il cuscino.
Era infuriato, il fatto di essere stato punito lo disturbava e tra le pagine del suo caro diario tracciò pesanti e scuri scarabocchi e imprecazioni.
La concezione d'amore che aveva per il padre gli era distorta, confusionale e astratta.
"Fa più male a me che a te, ma per favore sono tutte cazzate!" scriveva furiosamente tra le pagine del suo diario.
"Bastardo, non sei nient'altro che un insopportabile bastardo!"
Ma era così arrabbiato mentre incideva le parole, che la pagina del diario si strappò.
«È colpa mia, è colpa tua stupido idiota! Dovevi studiare, perché non hai studiato? Sciocco!» cominciò a rimproverarsi picchiandosi sulla testa e tirandosi i capelli.
Se non si fosse concesso il gran lusso di nutrire le sue passioni, ora la sua pelle non starebbe pulsando. Gli faceva davvero male, soprattutto dentro. Provava grande fastidio, un disturbo insopportabile.
Ma non poteva farci nulla.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top