36.
Trascorse un nuovo giorno, il ragazzo si ritrovò sul letto in compagnia di sé stesso.
Aprì gli occhi e dinanzi a se trovò le dune del letto, la lenzuola disfatta e gli occhiali appoggiati sopra il comodino. Suo padre doveva essersi alzato presto, forse aveva trovato un granulo di voglia di compiere qualcosa.
William scese dal letto, lo sistemò, prese gli occhiali e camminò verso la porta. Passò dinanzi lo specchio e il riflesso di sé lo catturò, si fermò e si guardò.
Un'idea buffa gli sorse nella testa, di provare gli occhiali del genitore, ma riconoscendo quanto egli li avesse a cuore, pensò che non sarebbe stata una buona cosa giocarci.
Ma il suo lato più infantile lo sopraffò, condusse le alette dell'oggetto dietro le orecchie e posò gli occhiali sul naso.
Non ci vide più chiaramente, ogni cosa a lui attorno si sfocò e si fece tutto così confuso.
Tuttavia, guardandosi davanti lo specchio, notò che nonostante avesse addosso gli occhiali del padre, non gli assomigliava per nulla.
Aveva il viso di sua madre, né trucco o occhiali lo avrebbe cambiato.
Se li levò e cercò il genitore.
Si diresse verso il bagno, convinto di trovarlo sotto la doccia. Ma Loris non era lì.
Andò quindi in camera propria, credendo che Loris la stesse sistemando, "ne dubito" pensava, e difatti lì non c'era.
Dunque scese al piano di sotto, forse pensò, che il padre stesse leggendo un libro; ma non era presente neppure in soggiorno, né perlopiù un cucina.
«Papà?» lo chiamò varie volte, al primo richiamo rispose solo il suo respiro, al secondo non ottenne alcuna risposta, ma al terzo udì una voce giungere dal secondo piano.
Si recò nuovamente di sopra, dacché fosse già stato sia in bagno che in camera sua, pensò che Loris avesse risposto dal suo studio.
Non gli era permesso entrarci, era un luogo molto intimo per suo padre e lo considerava proprio tempio. Tuttavia, dato le circostanze, il ragazzo ci entrò comunque.
«Papà?»
colse l'uomo seduto sul pavimento di fronte a una tela disegnata, pareva scorrere con le proprie lacrime e la punta del suo dito, il volto dell'amato perduto. Oltre a quello, la stanza traboccava di ritratti suoi, ovunque William posasse lo sguardo, ecco che vedeva il viso di Gavriel in diverse pose.
L'uomo si trovava in pigiama, aveva i piedi scalzi e la spalla leggermente scoperta. I suoi capelli non avevano incontrato spazzola, cascavano disordinati lungo la schiena, lasciando esposto il suo viso consumato di sonnolenza. L'azzurro nei suoi occhi sembrava essersi ingrigito, non possedeva più il cielo nelle iridi, bensì nebbia e cenere. La pelle si era fatta più candida, priva di ardore e vita, pareva quasi uno spirito senza il ricordo della vita passata. L'ombreggiatura rosata attorno le palpebre favoleggiavano le quantità di lacrime versate, aveva pianto così tanto che sarebbe riuscito a riempire una gavetta, si svegliava sopra un cuscino bagnato e con le guance scarne.
Il suo dignitoso aspetto fece sgomentare il ragazzo, non lo aveva mai visto così mal ridotto. L'amore mancato lo aveva lasciato come un poveretto presso le porte di una ricca città, affamato e senza zecchini nella tasca.
«Credo di avere perso i miei occhiali, li hai visti?» domandò l'uomo.
Aveva la voce roca e debole, il pianto gliel'aveva consumata.
«Sì» rispose William.
Avanzò verso il padre e gli porse il paio di occhiali, l'uomo li prese e l'indossò. Ciononostante, gli occhi suoi erano talmente consumati di tristezza che la vista sua non migliorò nemmeno con le lenti.
Vedeva tutto ancora sfocato, gli sembrava di trovarsi sotto una nuvola, sopra un colle nebbioso con l'aria rarefatta.
«Dovresti uscire, papà, e darti una sistematina» disse il figlio.
Egli se ne stava ricurvo fisso alla tela, sembrava volerla assorbire dentro di sé.
«Hai ragione» rispose.
«Dovrei uscire...» ma gli era impossibile distare gli occhi dallo sguardo penetrante dell'amato, quelle sue chiari iridi verdi lo ferivano con incanto.
William non conosceva questo volto dell'amore, non pensava che potesse provocare tutto quel danno. Suo padre si stava lentamente facendo consumare dal vuoto, senza il suo uomo accanto, egli era perduto come un arido terreno.
Restò lì, timido e incerto su quello che fare. Non sapeva come reagire, se abbracciarlo o concedergli del tempo da solo.
Mentre ci pensava, il padre sembrava essersi ripreso, si asciugò le lacrime e cennò un sorriso.
«Vai pure a riposare, io vado a preparare la colazione» disse.
William venne demolito dal tentativo fallito del padre di celare il suo dolore.
Iniziò a sentirsi in colpa, eppure era saldo sui propri desideri.
Non voleva che si risposasse, non voleva venire sostituito.
Ma vedere suo padre in quelle condizioni era straziante, erano ormai trascorse ben due settimane dall'ultima volta che aveva visto Gavriel.
Lo aveva fatto per renderlo contento, e per non trovarsi colpevole davanti a Dio. Ma William sapeva che così non sarebbe stato felice, non era stato il miglior padre, ma non meritava di stare male.
«Potrei andare a fare un giretto sulla bici?» chiese.
«Ma presto preparerò da mangiare, dove vuoi andare?» domandò Loris.
«Voglio girare per il quartiere, posso?» insistette.
Loris titubò, ma gli concesse di andare, dopotutto la scuola era ormai finita, poteva concedersi un po' di uscita prima di cimentarsi nuovamente sullo studio e i compiti.
«Ma torna prima di mezzogiorno, per favore» avvisò.
Il ragazzo si vestì con dei semplici panni, corse al piano di sotto, prese il portafoglio del padre e cercò il foglietto con il numero e l'indirizzo del signor Heinrich. Quando lo trovò se lo infilò in tasca, uscì di casa, prese la sua bicicletta e iniziò a pedalare.
Aveva in mente di recarsi da Gavriel e convincerlo a tornare assieme a suo padre, in quella maniera forse, non lo avrebbe più piangere.
Pedalava contro vento e voglia, l'idea che qualcuno avrebbe preso il posto di sua madre lo demoralizzava, ma doveva mettere da parte l'egoismo e permettere al padre di essere felice. Dopotutto era già riuscito a riprendersi dalla morte della moglie meritava di tornare a esser sereno. Pedalò chiedendo informazioni sulla via, coloro a cui chiese indicazioni, puntarono il dito verso dove la strada si faceva in salita.
La dimora del signor Heinrich si trovava sopra un colle, distante dalla città, in mezzo il verde della natura.
William faticò molto per pedalare su per la pendenza, per un tratto dovette trasportare la bici a mano pur di non forzare troppo le gambe.
Quando arrivò davanti il cancello della villa, il giardiniere che si stava prendendo cura delle aiuole, notò la sua presenza e avvertì subito il collega. Quest'ultimo, che stava pulendo l'auto del suo signore, vide il ragazzino accasciarsi esausto tra le sbarre del cancello.
«Niente pubblicità nella buchetta!» esclamò l'uomo.
«Cerco il signor Heinrich!» rispose a fiato corto il giovane.
«Il signor Heinrich non riceve visite oggi, che cosa vuoi?»
William sospirò, la salita lo aveva affaticato molto e gli aveva prosciugato il fiato. Doveva recuperarlo prima di poter parlare, ma i volti irritati dei due uomini gli facevano pressione.
«Devo parlargli, si tratta di mio padre, ditegli che sono il figlio di Loris»
Ma i due uomini si fecero dubbiosi, non conoscevano William e il loro signore non li aveva avvertiti del suo arrivo.
«Hai appuntamento?» chiese il giardiniere.
William s'innervosì.
Era stanco, sudato e assetato. Trovò il campanello e lo premette a lungo, attendendo che qualcuno dall'abitazione sarebbe uscito per controllare.
I due lavoratori lo rimproveravano, l'uomo che stava pulendo l'auto, gettò la spugna del secchio, si asciugò le mani e si avvicinò per confrontare e minacciare il ragazzo.
Ma William restò con il dito premuto sopra il bottoncino, mostrandosi incurante verso le minacce dell'uomo.
«La vuoi smettere? Ti prendo a schiaffi se non la smetti!»
William lo provocò ancor di più premendo il campanello di volta in volta, emettendo un suono ancor più petulante.
Genna, che si trovava nella camera assieme al suo signore, udì il campanello e s'incuriosì.
Gavriel era disteso lungo il letto con la schiena tersa di olio, la cameriera lo stava aiutando ad attenuare lo stress mediante un piacevole massaggio. A qualche passo da loro c'era beata Lilith, la quale strisciava e sibilava lungo il materasso, facendosi accarezzare di tanto in tanto dal suo amato padre.
«Chi è l'imbecille che vuole rompere il mio campanello? Genna vai a vedere» brontolò Gavriel, la cameriera lo assecondò ed eseguì l'ordine.
Gavriel perciò restò nella stanza e attese che facesse ritorno, convinto che si trattasse solo di un maleducato privo di mestiere o di un guasto.
La donna uscì dalla villa e camminò in giardino.
Sorprese il suo collega tirare per l'orecchio un ragazzino alle porte del cancello, pensò trattarsi di un giovane postino, così decise d'intervenire.
«Che succede qui? Carl, puoi spiegarmi?» tuonò irrequieta.
L'uomo lasciò l'orecchio del ragazzo e spiegò quanto successo alla donna, quest'ultima restò ad ascoltare con sdegno, incrociò le braccia al petto e guardò William.
«Ti sei divertito?» chiese.
William si massaggiò l'orecchio pulsante, minacciò l'uomo con uno sguardo adirato e si sistemò i capelli.
«Sto cercando Gavriel, ho bisogno di parlargli» rispose imbronciato.
«Posso sapere chi sei?» domandò Genna.
«Sono il figlio di Loris, mio papà disegna qui» rispose.
Genna riconobbe il ragazzo, era cresciuto parecchio dall'ultima volta che lo aveva visto, all'epoca si trovava ancora tra le braccia della madre.
«William?» disse.
«Il signor Heinrich è in casa?» chiese.
L'uomo si distò, consapevole dello sbaglio commesso, e tornò al lavoro prima di ricevere maggior rimproveri.
«Certo, vieni, te lo chiamo subito»
Genna condusse il ragazzo verso la casa e lo accolse nella sala d'ingresso.
Lo invitò ad attendere, dicendo che avrebbe subito avvertito il signor Heinrich della sua presenza.
William attese volentieri in quello che gli pareva un palazzo reale, non aveva mai visto un pavimento così lucido in vita sua, ci si poteva specchiare benissimo. Curiosò tra le varie piante presenti, guardò le opere realizzate dal genitore e i piccoli monumenti decorativi sopra i mobili.
Mentre si aggirava con meraviglia, il padrone di casa giunse lungo le scale e si sorprese di vedere veramente il figlio del suo amato in casa propria.
William si accorse del suo arrivo e si ricompose, l'uomo si presentò in accappatoio e con in braccio la sua principessa.
Aveva un aspetto triste e appassito, il mento suo non aveva sfiorato lama e i suoi capelli erano stati estranei al pettine. Gli cascavano leggermente sul viso, eran lisci e privi di vigore e lucentezza. Attorno gli occhi erano raccontati notti insonne, le palpebre erano consumate dal pianto e le labbra secche e screpolate, lontane dall'acqua.
Gavriel sembrava aver digiunato nel deserto, stava in piedi sorretto solo dalle gambe, ma non possedeva più corsa interiore.
«Scusami, non sono molto presentabile» ridacchiò.
«Come mai sei qui? Non dovresti essere a scuola?»
«È finita. Io volevo parlarle, riguarda mio padre» disse il ragazzo.
A quelle parole Gavriel si animò di luce, un raggio di sole lo colorò, sentire il nome suo fece fiorire un lieve sorriso tra le sue guance.
Ordinò alla cameriera di custodire Lilith, infine invitò il giovane ragazzo al piano di sopra presso la terrazza dove lui e il padre avevano un tempo cenato.
Si sedettero sul tavolino, dinanzi la luminosa giornata.
«Desideri del caffè? Oppure del latte?» domandò con cortesia l'uomo, William scosse il capo e dichiarò di essere a posto. Aveva fretta, suo padre era all'oscuro di quel che stava facendo, egli si trovava a casa a preparare da mangiare, non immaginava che il figlio si trovasse in compagnia di Gavriel.
«Dovrebbe tornare da mio padre, signore. A lui manca tantissimo, davvero» pronunciò.
Gavriel sorrise, esitò e issò le spalle.
«È stato lui stesso a dirmi di andarmene, perché tu, tesoro caro, non mi volevi» disse, marcando per bene la ragione per cui non potesse tornare.
La lama di colpevolezza affondò nel petto del ragazzo e lo falciò a metà, per colpa del suo capriccio, aveva dimezzato due terre fatte l'una per l'altra.
«Quando dorme dice il suo nome, spesso mi chiama "Gavriel" anziché "William", disegna il suo volto su tutte le tele e non cessa mai di annusare quella collana. È vero, io non la voglio nella nostra vita, preferisco tenermi lui per me con il pensiero di mia madre ancora presente. Ma mi dispiace vederlo così triste, mi fa sentire male. Mio padre si è innamorato, e io devo accettarlo»
Dichiarava tutto con malavoglia, eppure non aveva coltello puntato alla gola, e nessuno lo stava minacciando. Detestava l'immagine di Gavriel sovrapposta a quella di sua madre, non riusciva a capacitarsi di vederlo nella loro vita. Gavriel era il signore ricco che commissionava Loris, le cose sarebbero dovute restare così, ma ahimè, i due si erano innamorati.
William era costretto a farsene una ragione, voleva molto bene a suo papà, perciò doveva permettergli di essere felice.
Ma Gavriel era un uomo rispettoso, amava molto Loris, lo sognava, lo vedeva e sentiva per le stanze.
«Figliolo, io e Loris ne abbiamo parlato. Io non voglio mancare di rispetto alla sua religione, è meglio che le cose restino così» disse.
«No, ma lui ti vuole» ribatté il giovane.
«William, apprezzo molto il tuo gesto. Ma tuo padre ha preso una decisione, noi due dobbiamo entrambi rispettarla»
«Ma dica la verità, lei lo ama?» domandò il ragazzo.
«Non pensavo che sarei stato capace di amare così tanto, non immaginavo di possedere un cuore così grande. Tuo padre è l'uomo più brillante che io abbia mai visto, il suo fascino fa invidiare il sole e i suoi occhi coprono di vergogna il cielo. Vorrei poter essere te almeno per un giorno, e sentire il suo amore e affetto addosso. Sei fortunato, ragazzo mio, volevi tuo padre tutto per te e non ti biasimo...»
«Io non la chiamerò mai papà, lei non sarà mai mio genitore. Ma accetterò di considerarla come sposo di mio padre, la prego signor Heinrich, torni da lui...»
Ma l'uomo scosse leggermente il capo, celò lo sconforto con un debole sorriso ma non riuscì a trattenere le lacrime.
«Torna a casa, non lasciarlo solo» disse.
William si rese conto che ogni maggiore tentativo sarebbe risultato vano, Gavriel e suo padre erano fatti l'uno per l'altro ma non sarebbero tornati insieme.
Ed era tutta colpa sua.
Fece ritorno a casa con lo spirito abbattuto e annegato nel rimorso, suo padre non sospettò di nulla, accolse il figlio con una deliziosa colazione preparata con ciò ch'era riuscito a trovare. Latte tiepido, fette biscottate con della marmellata vicina alla scadenza e alcuni biscotti raccolti dal fondo del pacchetto.
William lo guardò con rammarico, si rese conto che se non per lui, ora suo padre e Gavriel sarebbero da qualche parte della casa a ridere e scherzare.
Egoismo e timore lo avevano indotto a fare quel che aveva fatto, ora se ne pentiva, credeva di aver diviso ciò che in principio era nato per stare unito.
Assente di appetito, il ragazzo si diresse in camera sua e si dedicò ai compiti per le vacanze estive.
Suo padre si chiese se fosse per la scarsa colazione, si rattristò e si colpevolizzò per non aver compiuto il proprio dovere.
Non era riuscito a fare la spesa, credette che per questa ragione il figlio era arrabbiato.
Lasciò la tavola apparecchiata, si sedette in soggiorno e li ci restò fino al coricarsi del sole.
Rimase disteso sul divano ad accarezzare i piacevoli ricordi vissuti assieme all'adorato amato, rimembrò la sua profonda voce cullante e il suo delicato tocco.
"Come farò a farlo uscire dalla mia testa?" si chiese.
Ci aveva provato, ma ogni volta che ci tentava, ecco che guardare il giardino gli ricordava il colore dei suoi occhi.
La collana al collo manteneva vivo il suo ricordo, il profumo delle lenzuola la loro prima notte e il soggiorno come tempio del loro primo vero bacio.
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