31.
Le lacrime si seccarono sulle guance, gli occhi restarono lesi dall'incessante pianto e il corpo suo si rifiutava di alzarsi.
Scorreva il dito lungo il parquet, rimembrando con doglia, le bugie digerite da quelle labbra da cui sembrava stillar miele.
Venne appena appena sfiorato dai ricordi di quella stravagante notte, l'immagine sua veniva alterata e sostituita con quell'uomo.
«Hui...»
Incise il suo nome sul cuore, creò uno spazio solo per lui, dove riservargli privatamente tutto quanto il suo odio.
Avrebbe voluto scriverlo sopra un pezzo di carta per poi gettarlo tra le fiamme del camino, sperò per lui tutto il male del mondo, tra vaioli e pesti, sciagure e disdette.
«Che gran cazzata» disse alzandosi.
Si rimise in sesto, ma solo perché presto il figlio avrebbe fatto ritorno da scuola. Non poteva farsi vedere così, se ne sarebbe preoccupato.
Così decise di svolgere semplici attività quotidiane giusto per farsi trovare sereno, partendo con il passare la scopa per il soggiorno.
Mentre spazzava qua e là, canticchiò a mente il celebre brano di Sinatra per diluire i pensieri.
Era un pezzo su cui lui e la moglie ballavano spesso, se Gavriel glielo avesse concesso, gliel'avrebbe cantata con gioia. Immaginò cosa potevano diventare, magari si sarebbero sposati e insieme avrebbero condotto una vita calma e benestante.
«Patetico» ridacchiò, oramai non ci credeva più e il sol pensiero pareva bizzarro.
Finito di spolverare, posò la scopa e si diresse al piano di sopra.
Era da un po' che non faceva il bucato e con il sole che c'era, era un peccato non usufruirne.
Cominciò a cogliere dalla stanza del figlio i vari indumenti lasciati sopra la sedia e il letto, poi sollevò le lenzuola, intenzionato a lavare pure quelle.
Mentre cercava altri panni da mettere dentro la lavatrice, la sua testa venne rinfrescata da un vecchio ricordo.
«Se io fossi un adolescente, dove lo metterei il mio diario?»
Ricordò l'esistenza di quel maledetto diario, esso conteneva i segreti che suo figlio gli teneva nascosti, leggendolo avrebbe scoperto molte cose.
Indossò i panni di un adolescente e iniziò a dedurre dove mai si poteva trovare il diario.
Frugò tra i cassetti, sotto la scrivania, sulla credenza dei libri e sotto il materasso. Guardò addirittura nei luoghi più banali come sotto il cuscino, dentro il cestino e sulla scrivania.
«Hmm, se io fossi William, dove lo metterei il mio diario?» questa volta si calò nel personaggio di William, e pretese di voler nascondere il proprio diario.
Il suo intuito lo guidò verso il guardaroba, sopra il quale ci stavano delle scatole per le scarpe, pensò che il diario dovesse trovarsi dentro una di queste.
Così tese le braccia e cominciò a scuotere ciascuna scatola, in attesa di udire un suono diverso da quello di un paio di scarpe.
Non era la prima, e nemmeno la seconda dacché vuota, la terza invece, emise un rumore particolare.
Era leggermente pesante rispetto la prima e sembrava contenere qualcosa di più piccolo e mobile all'interno.
«Dev'essere questo»
Prese la scatola e ne tolse il coperchio.
Aveva trovato il diario segreto del figlio, il nascondiglio era ottimo, ma quasi ovvio per una persona come Loris.
Non esitò e non ebbe sensi di colpa, si sedette a letto e lo aprì sulla prima pagina.
Sì trovò davanti alla scrittura del figlio, pasticciata, frettolosa e danzante. Sembrava aver scritto da bendato e con la mano destra, Loris cennò un sorriso e proseguì.
Sorvolò sopra alcuni sciocchi scarabocchietti, egli si ritraeva come un piccolo omino stilizzato con occhi grandi e orecchie da elfo, e notò che assieme a lui fosse sempre presente Adric. Lo aveva riconosciuto dalle treccine stese e dalla notevole altezza.
Lo descriveva come suo "principe moretto", colui che lo faceva sentire sempre a suo agio.
Loris soffiò e proseguì, arrivando dunque alle pagine scritte.
"Caro Diario..."
Lesse leggermente a voce flebile, le scritte sopra le righe della facciata. Man mano che leggeva di come il figlio lo vedeva, la sua espressione si fece rigida e lo stomaco gli si annodò di rabbia.
Il diario rivelava quello che sembrava essere in ogni aspetto un vero e proprio maniaco depresso, altezzoso e privo di cuore. Loris non si riconobbe per niente e fu tentato di strappare la pagina, ma si placò e decise di proseguire con la lettura.
Venne in contro con frasi come.
"Egli esige la massima perfezione da me, esige che io sia il migliore tra tutti. Ma allo stesso tempo mi dice di come la Bibbia vieti di elevarsi agli altri. È confuso quanto me, eppure pretende di conoscere i nomi di tutte le stelle in cielo..."
Loris si sconcertò, ma in fondo trovò la scrittura del figlio quasi poetica. Oltraggiosa, ma poetica.
Stufo di leggere di sé stesso, andò avanti tra le numerose pagine, scontrandosi dinanzi a scarabocchi, disegni, appunti e canzoni.
Si soffermò sulle date più recenti, e incuriosito, si soffermò in una facciata qualsiasi e iniziò a leggere.
"Ma nonostante il suo carattere e le sue rigidi regole, io gli voglio bene" c'era scritto.
Il cuore del genitore si alleggerì e la rabbia di prima svanì leggermente.
«Anche quando mi picchia, mi sgrida e mi rammenta di quanto incapace sono. Io gli voglio bene.
È il mio papà, e sono felice di essere suo figlio. Riconosco che non sia capace di dare amore, ma so che morirebbe per me. Lo capisco quando ogni sera viene a controllare che io respiri, lo capisco mediante i suoi baci e le sue carezze. A volte mi fa così tanto arrabbiare, mi fa veramente impazzire. Ma sono comunque contento di averlo come papà"
Quelle parole commossero Loris, procurarono in lui molta gioia e curarono il suo animo affranto.
Non riusciva a credere che la stessa persona che gli aveva dato della "merda", lo amava così tanto.
Si accorse che alla fine, c'era qualcuno a cui piaceva davvero.
«Oh bambino mio...» sospirò in lacrime portando il diario al suo petto, lo strinse come avrebbe voluto abbracciare il figlio.
«Anche papà ti vuole bene» disse, e continuò a leggere.
Sfogliò nuovamente alcune pagine, finché non si soffermò in una particolarmente, stata assalita con una pesante caricatura.
Lesse le seguenti righe, chiedendosi che cosa avesse fatto infuriare così tanto il figlio.
Inizialmente si convinse di star per leggere un'altra lamentela rivolta a lui, ma dovette ricredersi quando calò verso le righe centrali.
La pagina non raccontava di lui, e nemmeno di una frigna o di una giornata di scuola.
Loris condusse la mano sulla bocca ma il sussulto uscì lo stesso. Gli occhi suoi si scavarono di terrore e la sua pelle si raffreddò, il sussulto venne poi seguito da una lacrima, e la lacrima da un singhiozzo.
Non ci poteva credere, pensò di star sognando o di star leggendo un semplice romanzo.
Non poteva trattarsi del diario di suo figlio, doveva trattarsi di qualcun altro, l'uomo di cui stava scrivendo non era chi Loris sapeva fosse.
Mentre si lasciava impressionare dai dettagli, e dagli orrori vissuti dal figlio dietro le sue spalle.
La porta di casa venne aperta dall'arrivo del ragazzo, il quale aveva terminato la faticosa giornata di scuola. Era particolarmente esausto, la lezione di francese aveva prosciugato sia lui che i compagni di classe sua.
Chiuse la porta, si levò le scarpe e sollevò lo zaino.
Lo trascinò con fatica e cercò il genitore, notò che il salotto era stata ben spazzato e pensò che si fosse andato a riposare.
Di conseguenza non lo chiamò per non disturbarlo, prese dal frigorifero una barretta di cioccolata e si avviò verso la propria camera dove potersela consumare in pace.
Mentre camminava la scartò dalla colorata plastica di cui era vestita, ne mangiò l'angolo e sorrise deliziato. Adorava il cioccolato, soprattutto quello bianco.
Giunse davanti la porta di camera sua, che con sua sorpresa era aperta.
"Che abbia pulito anche la mia stanza?" pensò, ma non doveva temere di nulla, il telefono era ormai rotto e non aveva più nulla da nascondere.
Arrivò dinanzi la soglia e sobbalzò di terrore quando trovò suo padre seduto sopra il letto con il diario posato sulle gambe, la cioccolata gli cadde dalle mani e lasciò giù lo zaino.
Il cuor suo guizzò dal petto e l'anima sua bruciò nella berlina, calò gli occhi verso le pagine che il genitore stava leggendo e si convinse che si trattasse di una di quelle in cui si era lamentato di lui e le sue rigide dottrine.
L'uomo lo guardò presentandosi con un volto sfigurato dal dolore, chiuse il diario e fece per ergersi dal letto.
Ma il figlio, certo che il genitore fosse furioso, scappò via dalla sua presenza e corse lesto verso il piano di sotto.
«No, aspetta!» esclamò Loris, confuso per la realizzazione del giovane.
Quest'ultimo, udendo i passi del padre dietro di lui, giunto in soggiorno, cercò subito dove nascondersi.
Ma non trovando nessun nascondiglio, corse in cucina e aggirò il genitore attorno la tavola.
«Scusa! Io ho scritto quelle cose quando ero arrabbiato! Per favore non picchiarmi, ti chiedo scusa!»
Dichiarò il lacrime.
Loris riuscì a raggiungerlo e cercò di trattenerlo e impedirgli la fuga.
William si raggomitolò, convinto che di lì a poco sarebbe stato percosso.
Ma il padre riuscì a calmarlo, non aveva alcuna intenzione di ferirlo.
«Perché non me lo hai mai detto?» domandò con le lacrime agli occhi stringendo entrambi i polsi del ragazzo, il quale ora guardava con occhi di compianto e dispiacere.
«Perché non mi hai detto quello che ti faceva il pastore? Perché? Cazzo, perché?»
William rimase senza parola, aveva dimenticato di averlo scritto sul diario. Tuttavia ora suo padre lo sapeva, e non c'era scusa o bugia che potesse dirgli.
Singhiozzò sollevato e confessò tutto senza ritegno.
«Io ho cercato di dirtelo...» balbettò.
Loris si fece confuso, non ricordava che il figlio avesse tentato di metterlo al corrente di un evento così atroce.
Ma solcando tra i ricordi, rammentò di quella sera a cena in cui anche Gavriel era presente. Il telefono era la prova che il figlio voleva mostrargli, e lui lo aveva semplicemente ignorato.
Precipitò in un pozzo di vergogna, si lasciò assalire dalla colpa e si rimproverò per essersi atteggiato come un padre incurante.
Era così coinvolto a godersi la cena assieme a quel che era il suo amore, che aveva trascurato il figlio.
«Oh figlio mio, mio piccolo. Perché? Perché ti ho fatto questo?»
Era colpa sua se Daniel era riuscito ad avvicinarsi al figlio, lui stesso glielo aveva offerto, ignaro di quali fossero le sue vere intenzioni.
Sentì di aver offerto il olocausto il ragazzo a colui che vedeva come un dio, incapace di cogliere i segnali e di ascoltare il suo istinto paterno.
Era stato inabile di riconoscere le vie di Daniel, poiché così tanto accecato dal suo aspetto innocente.
«Che cosa ho fatto? Il mio bambino!» strinse fortemente il ragazzo tra le sue braccia, per serbarlo da ogni pericolo, gli terse il capo di lacrime e lo colmò di carezze.
William nel frattempo restò ad ascoltare i palpiti del cuore di suo padre, questo batteva pesantemente contro il petto, emanando un piacevole calore che lo fece subito sentire al sicuro.
Ricambiò l'abbraccio e accarezzò il genitore, consolando e dicendogli di non avere nessuna colpa.
«Non è stata colpa tua, io avevo solo paura di dirtelo» disse.
«Da quanto va avanti?» chiese Loris.
«Non da tanto» rispose il ragazzo, ma il padre pensò che lo avesse detto per non amareggiarlo.
«È stato quando ti ho lasciato assieme a lui e Olsson? Non è così? Ti ho letteralmente dato in pasto a quei mostri»
William condusse la mano verso la guancia del padre e la lambì con dolcezza, asciugando via una lacrima.
Loris la colse e la strinse nella sua mano, la baciò e ci pianse sopra.
«No, non lo hai fatto, papà, non è colpa tua» disse.
«Ti chiedo scusa amore, mi dispiace un sacco. Sono stato così stupido a non accorgermene nemmeno, ti chiedo scusa mio caro, scusa» William lavò via tutte le lacrime del genitore, afflitto nel vederlo così consumato di colpa. Non lo riteneva responsabile degli abusi subiti dal pastore, non l'odiava affatto, e riconosceva che se lo avesse saputo prima, avrebbe di certo provveduto. Il suo unico timore era quello di demolire la chiesa, e di diventare nemico della comunità. Sapeva quanto il padre amasse far parte di quella gente, sapeva che la verità gli avrebbe spezzato il cuore.
«Dimmi caro, oltre a quello che hai scritto, ti ha fatto altro? Apparte Olsson c'era qualcun altro coinvolto?»
Domandò il padre, il ragazzo esitò e si fece timido.
«Lui diceva che...» farfugliò.
Loris lo invitò dolcemente a parlare, e a rivelare quel che gli era stato fatto. William trovò un briciolo di coraggio e riuscì a fornire un tozzo delle vicende.
«Beh, ecco. Lui oltre a farmi quello, non ha fatto altro, aveva paura. Diceva che ero ancora piccolo e che avremmo dovuto attendere per fare le cose da adulti»
Le sue parole lo sconcertarono, si sentì ferocemente pugnalato alla schiena. Il suo cuore ribolliva come zolfo acceso, la pelle scottò quasi il ragazzo da quanto effervescente era. I suoi chiari occhi cielo minacciarono tempesta, digrignò i denti e ringhiò frustrato.
Disseminò un gran odio verso il pastore, meditò il desiderio di ucciderlo con le proprie mani. Non avrebbe atteso un castigo divino, egli stesso si sarebbe presentato a casa sua per punirlo.
«Pagherà caro per aver osato metterti le sue luride mani addosso! Maledettissimo bastardo!»
Afferrò il braccio del figlio, colse le chiavi ed entrambi uscirono di casa.
William cercò di opporsi, ma l'uomo riuscì a trascinarselo dietro fino all'auto parcheggiata in vialetto.
Gli occhi dei vicini erano su di loro, incuriositi di sapere che cosa stesse succedendo a casa Anderson.
«Papà? Papà che cosa vuoi fare?» titubò il ragazzo, consapevole che si stavano per dirigere verso l'abitazione dell'uomo.
Loris era come un esercito di uomini armati, furibondo e colmo d'ira. Accaniva il terreno con passi furenti, imprecava e malediva Daniel e il suo fedele complice.
William si spaventò, non aveva mai visto suo padre così tanto arrabbiato, ebbe più timore di lui che di quello che stava per accadere.
Salirono a bordo del veicolo, Loris guidò così bruscamente da non concedere nemmeno il tempo al figlio di potersi allacciare la cintura di sicurezza. Egli veniva scosso da ambedue i lati del sedile a ogni curva presa con profusione, ripeteva al genitore di rallentare e prestare maggior attenzione alla segnaletica.
Ma con la visione offuscata di rabbia, Loris ignorò ogni segnale, tagliò la strada a chi aveva precedenza e suonò contro tutti coloro che osavano porsi in mezzo.
William si celò leggermente per non subirsi l'imbarazzo, era anche terrorizzato dai bruschi suoni degli pneumatici, essi gli ricordavano l'incidente avvenuto quella terribile notte di Dicembre.
«Papà vai piano, rischieremo di andare a sbattere!» Implorò, ma l'uomo lo ignorò e proseguì con la sua guida efferata.
Raggiunsero dinanzi la casa del pastore, la graziosa villetta strozzata in mezzo alle due grosse strutture.
Parcheggiò l'auto senza curarsi di com'era posta, essa era incline e il muso sfiorava di un pelo uno dei lampioni presenti lungo il marciapiede.
William vide il padre scendere dal veicolo, ma si rifiutò di seguirlo. Loris allora aprì il suo sportello e lo costrinse a scendere.
«No, io voglio stare qui» protestò con affanno, tremava come una foglia e il viso suo era rosso di calore.
«Non posso, lo farei, ma voglio che lui ti veda in faccia» rispose il padre.
«Papà, lasciamo perdere, non servirà a nulla. Esporlo o affrontarlo di persona, non mi darà sogni tranquilli. Egli ha già fatto quel che voleva, sarà come tentare di tirar fuori dallo stomaco di un lupo una pecora»
Per quanto fosse vero quel che stava dicendo, Loris sostenne che fosse meglio affrontarlo comunque.
«Hai ragione piccolo mio, le ore di atrocità che hai dovuto passare, niente e nessuno potranno ritirarle indietro. Ma è giusto che io lo affronta, okay? E voglio che tu sia presente» disse.
Il ragazzo annuì, e accettò di seguire il padre.
Gli camminò affianco, reggendosi fortemente al suo braccio destro. Lo seguì procedendo a capo teso e con gli occhi rivolto verso i loro piedi.
Venne improvvisamente colto dall'urgente bisogno di andare al bagno, gli sudavano le ascelle e la pelle sua, mano a mano che si avvicinavano alla porta, si faceva bollente e umida.
«Non devi avere alcuna paura, papà è qui» disse Loris, William iniziò a singhiozzare, tentò nuovamente di chiedere di poter restare in auto.
«Andrà tutto bene, tu dovrai solo starmi vicino» proseguì.
Bussò alla porta, dopodiché premette il campanello.
Attesero qualche secondo, infine la moglie aprì loro la porta.
Sì mostrò entusiasta di vederli e non esitò a invitarli dentro casa, Loris e il figlio varcarono la soglia, non si degnarono nemmeno di salutare la donna e camminarono dritti verso la sala da pranzo.
La famiglia stava pranzando, non aspettavano visite, perciò vennero sorpresi in fragrante.
Daniel vide la sua docile pecora in compagnia del genitore e si rallegrò, fieramente convinto che si trovassero lì per chiedere preghiere.
Ma dovette ricredersi quando improvvisamente, senza che potesse reagire e formulare quel che stava avvenendo, venne violentemente percosso in pieno volto dalla bollente mano del genitore.
I figli suoi sussultarono e accorsero verso il padre, la moglie sopraggiunse sul posto e si chinò assieme il marito.
«Schifosissimo pezzo di merda! Pedofilo del cazzo!» sbraitò Loris, ribaltando la tavola apparecchiata.
Tutto il loro pranzo finì a terra, i bicchieri si frantumarono e le bevande si espansero tra le assi del parquet.
«Ma che diavolo ti prende? Sei impazzito?» esclamò la moglie, ma Loris non era giunto qui per lei, egli voleva solo vedersela con il pastore.
«Che hai fatto a mio figlio? Che cazzo hai fatto al mio bambino? Io mi fidavo di te!» sbottò ergendo il proprio dito contro il verme, che osava atteggiarsi estraneo alle accuse di Loris.
«Di che sta parlando?» chiese la donna, confusa quanto i due figli.
«Tuo marito ha molestato mio figlio! Lo ha costretto a succhiargli il cazzo! Lui e quel porco di Olsson lo hanno violentato!» confessò Loris.
La donna rivolse lo sguardo verso il marito e attese una replica da parte sua, conosceva l'uomo di cui il nome era inciso nella fede che portava al dito, sapeva che non poteva essere lo stesso uomo di cui Loris parlava.
Ma poiché abile lettrice del linguaggio umano, riconobbe che il genitore era realmente ferito.
Non stava recitando, quelle lacrime agli occhi erano genuine, la sua voce spezzata dalla tristezza era quasi tangibile. Non c'era traccia di menzogna in lui, e questo la condusse a covare dei sospetti verso suo marito.
«Loris, come osi venire a casa mia e accusarmi di queste cose?» ribatté Daniel, passando la mano sotto il fiotto di sangue che sgorgava dalla narice.
«Io non ho prove, ma tu sai benissimo quello che hai fatto, e non ne rimarrai impunito! Tu e quel maledetto la pagherete assai cara!» disse Loris, e dal momento che con sé non aveva nulla che solo la sua voce e la vittima in questione, si voltò e abbandonò la stanza, portandosi dietro un lungo manto di perplessità e scompiglio.
Il pranzo di quel pomeriggio era stato rovinato, la famiglia di Daniel venne letteralmente falciata a metà. L'uomo di casa restò scioccato, non si era preparato a quell'affronto.
Loris e suo figlio fecero ritorno a casa.
Il viaggio era stato molto quiete, William aveva guardato per tutto il tempo le mani del padre, tremendamente tese attorno il volante. Gli occhi suoi fulminavano la strada, sembrava esser stato posseduto dal demonio.
Giunti nel giardino di casa, Loris staccò un lungo ramo dalla siepe che divideva i vari quartieri. Lo sfilò da ogni foglia, dopodiché entrò in casa.
William titubò e d'istinto si parò il didietro, convinto che una volta messo piede in soggiorno, il padre lo avrebbe punito.
Ma non c'era una vera ragione per cui avrebbe dovuto farlo, si chiese che cosa mai avesse fatto di sbagliato per farsì che il genitore si procurasse quel lungo bastone.
Sì fece coraggio e decise di scoprirlo.
Entrò in casa, chiuse la porta dietro di sé, e camminò lentamente in soggiorno.
Trovò suo padre seduto sul divano, sulle gambe teneva il sottile arnese. Il ragazzo cercò di proseguire e ignorare la situazione, ma Loris lo chiamò e lo invitò ad avvicinarsi.
William venne percosse da una raffica di brividi, sentiva che presto avrebbe patito il dolore di quel ramo.
Singhiozzò e si pose davanti al padre, in attesa che gli ordinasse di posare entrambi i palmi delle mani sopra il tavolino centrale. Oppure pensò che questa volta gli avrebbe detto di mettersi sulle ginocchia sopra la poltrona, o peggio ancora lo avrebbe colpito sulle mani.
Mentre fantasticava su quale castigo avrebbe dovuto ingiustamente subire, Loris sollevò il bastone e lo porse verso il figlio.
«Prendi» disse.
Il ragazzo piegò la fronte ed esitò confuso, ciononostante, pur di non fare domande che avrebbero potuto irritare il padre, obbedì e prese dalla sua mano il lungo ramo.
"E ora? M'istigherà ad autoflagellarmi?" pensò.
Loris nel frattempo si levò dal polso l'orologio, raggomitolò le maniche della camicia, si sfilò la fede dal dito e scoprì i palmi delle mani verso il ragazzo. Quest'ultimo arcò le sopracciglia e calò curiosamente gli occhi verso le dita del padre, chiedendosi che cosa egli avesse in mente di fare.
«Colpiscimi» ordinò Loris.
«Cosa? No, no io non posso» il ragazzo abbassò il bastone, intento a posarlo sopra il tavolino, e si distò scuotendo il capo.
«Voglio che tu ti sfoga» disse Loris.
William non capiva, non riconobbe più l'uomo che aveva davanti.
Cennò una risata e assicurò al padre di poter smettere di recitare, ma l'uomo era integro nel suo dire, non stava affatto pretendendo.
Voleva essere punito per aver permesso al pastore di compiere quei atti perversi verso suo figlio, voleva deliberarsi di quella grande colpa, e dal canto suo l'unica maniera era mediante la punizione corporale.
«Papà, io non posso farlo» balbettò il ragazzo, ma il padre lo rimproverò e lo minacciò di picchiarlo se non lo avesse fatto.
Ma in verità Loris non si sarebbe azzardata di farlo, lo provocò allo scopo d'invitarlo a eseguire gli ordini.
William iniziò a fremere, non riusciva a credere a quel che stava per compiere.
"Non posso avere paura, me lo ha chiesto lui" pensava.
Erse leggermente il ramo e lo sospese sopra i palmi scoperti del genitore, eseguì un profondo respiro, si voltò leggermente e sferrò il primo colpo.
Lo schiocco lo falciò a metà, lo fece sobbalzare di terrore, era come se egli avesse percepito la doglia al posto del padre. Quest'ultimo invece sussultò, strizzò gli occhi e fletté leggermente le mani.
Aveva dimenticato quel dolore, ciò lo condusse ai suoi giorni di gioventù.
«Scusa, non volevo colpirti così forte» disse il figlio, certo che dopo quel colpo, sarebbe potuto andarsene via.
Ma non era nel piano di Loris venir graziato così, era convinto di meritarselo.
«Continua, non ti fermare finché non te lo dico» disse.
«Ma...» esitò William reggendo il bastone con insicurezza.
«Non mi sgriderai, giusto?»
Loris scosse il capo, e gli diede la sua parola.
«Fallo, per favore»
Il ragazzo deglutì, gli vacillavano le gambe come esili gambi d'erba e il suo cuore a breve sarebbe balzato fuori. Credeva di star per perdere conoscenze, vide improvvisamente tutto quanto doppio dinanzi a sé e il groppo alla gola gl'impedì di respirare.
Loris notò quanto fosse teso il figlio, così lo tranquillizzò.
«Me lo merito, figlio mio, e tu lo sai più di me» gli disse.
«Ho permesso che ti facessero cose orribile, sono stato incapace di proteggerti. Ho semplicemente fallito come genitore, e mi solleverai leggermente dalle mie colpe se deciderai di punirmi»
Le sue parole fecero riflettere il giovane, anche se non del tutto convinto, colse le ultime frasi pronunciate.
Se davvero il dolore fisico sarebbe stato capace di diluire il senso di colpevolezza, allora lo avrebbe fatto.
Sorresse il ramo, sospirò e attese qualche attimo.
Dopo una breve attesa colmata di pensieri e ricordi, William colpì il genitore sui palmi proprio come richiesto.
Loris fremette addolorato, ma non riuscì neppure a riprendersi dal secondo colpo, che ne susseguirono assieme sia il terzo che il quarto.
«Scusa...» farfugliò il figlio, ma malgrado il dispiacere, proseguì a colpirlo.
Presto le mani di Loris si ombreggiarono di un rubizzo acceso, il ramo lasciò sui suoi palmi lunghe e ferventi strisciature pulsanti.
Ne arrivarono a quindici, a quel punto il figlio si fermò e chiese se fossero sufficienti.
Ma il padre disapprovò, non era ancora abbastanza.
«Papà non voglio, per favore» piagnucolò.
Loris dichiarò di voler proseguire fino a quando non sarebbe scoppiato in lacrime, solo allora si sarebbe sentito giustamente castigato. William restò senza parole, tutto quello gli sembrava così surreale.
«Io so che ti dispiace, il dolore che hai dentro è maggiore di quello che ti procurerò io» disse.
Ma Loris restò irremovibile, ordinò nuovamente al ragazzo di procedere.
Impotente di potersi imporre all'autorità del genitore, William si rassegnò, sollevò in alto il ramo e lo scagliò sulle mani del padre.
Il sedicesimo colpo fu così violento, che Loris lo sentì fino alla schiena.
Tremitò e dischiuse leggermente le mani, tentato a soffiarvici sopra e accarezzarle. Ma si contenne, soffiò, e scoprì nuovamente i palmi.
"È assurdo, tutto ciò è assolutamente assurdo. Sto veramente picchiando mio padre? Con chi ha trattato affinché ci scambiassimo i ruoli?" mentre pensava a tutto ciò, i colpi raggiunsero la trentina.
Loris tremava, le braccia avevano cominciato a farsi deboli e le mani tribolavano come non mai.
William scorse una lacrima sul volto del genitore, a quel punto gettò via il ramo e si chinò verso l'uomo.
«Stai bene?» chiese preoccupato, Loris guardò l'opera compiuta dal ragazzo e cennò un debole sorriso d'orgoglio.
«Perdonami figlio mio, perdonami. Io ti chiedo profondamente scusa» balbettò.
William rifiutò le sue scuse, non le aveva pretese e non credeva fossero necessarie. L'unica persona che doveva veramente chieder perdono, era il così detto pastore.
«Promettimi che non mi costringerai
più a rifarlo» disse.
Loris lo guardò negli occhi, e nonostante il dolore, lo accarezzò lungo la guancia.
«Promesso»
Calò la notte, e prima di coricarsi, Loris invitò in figlio a farsi un bagno, e una volta immerso nella vasta, prese a lavarlo.
Ma il sapone non avrebbe mai potuto lavare via il groviglio formato dentro il ragazzo, William non se ne sarebbe mai dimenticato.
«Sono stato un idiota, è colpa mia...» singhiozzò Loris, mentre sfregava la spugna lungo la pelle del giovane.
«No, non è colpa tua, davvero. La colpa è loro» rispose William.
«Sono tuo padre, ho il dovere di proteggerti da ogni male. Fai bene a odiarmi...» le sue parole distrussero il figlio, si sentì in colpa per tutto. Pensò che avrebbe dovuto tenersi tutto dentro, di non averlo dovuto scrivere sul suo diario.
«Riesci a dirmi, senza troppi particolari, quello che ti ha fatto?...» Chiese Loris.
William singhiozzò, il sol pensiero gli alterava tutto il sistema digestivo.
Ma suo padre lo accarezzò dolcemente sul viso, lo guardò, e lo invitò a condividere con lui l'orrore vissuto, affinché potesse farsi leggermente carico del dolore.
«Ecco...lui...» iniziò, e tra il gorgoglio dell'acqua e lo scoppiettio di bolle narrò.
«Io e lui...» ma non sapeva quali termini usare per poter descriverlo, andava oltre le sue capacità.
«Usava...» ma non riuscì nemmeno a finire la frase, che venne colto dalla paura.
Sfociò in un terribile pianto e affondò il viso tra le mani per nascondere le lacrime.
Suo padre lo abbracciò fortemente, lo strinse tra le sue braccia e lo consolò.
«Shh, tranquillo, va bene così, va bene così. Non devi dirmelo, va tutto bene, sei stato bravissimo amore» disse.
«Papà è stato orribile! È stato così brutto! Avevo paura di lui, voleva che facessi tutto quello che mi diceva, voleva che gli facessi quelle robe!» strepitò il ragazzo, ricambiando l'abbraccio del genitore.
Loris si odiò profondamente, come non mai. Si odiò per essere stato inabile di riconoscere il male nello sguardo di Daniel, per aver dato in pasto suo figlio a due leoni, per non potersi addossare tutto il dolore del ragazzo.
«Non lo voglio più vedere, ti prego»
«Non metteremo mai più piede in quella chiesa, mai. Te lo giuro»
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