8 - Notte

Agosto 2020

«Perché te ne devi andare proprio a Parigi?»

Simon, steso sul pavimento per recuperare la ciabatta che era finita sotto un mobile, rispose: «Perché è lontana da te», per poi aggiungere in un mugugno concentrato: «Mi sembrava di averlo già chiarito, no?».

«Bastardo.»

Simon si mise in ginocchio e sventolò la ciabatta in direzione di Alex, seduto sul suo letto. «Le parole.»

Alex gli riservò una smorfia. «Guarda da chi arriva la predica.»

«Io sono maggiorenne, tu no» ribatté, alzandosi da terra. «Non è carino sentire un ragazzino parlare come uno scaricatore di porto.»

«Ma per favore, mamma dice sempre che la tua prima parola è stata una parolaccia.»

Simon alzò gli occhi al soffitto. «Non ho prove, ma sono sicuro che sia un'esagerazione» replicò esasperato, per poi sedersi sul letto accanto a lui. «E poi che c'è?» continuò, adocchiando la sua espressione tetra. «Vuoi farmi credere che ti mancherò?»

«No, è solo che toccherà a me fare tutti i lavori di casa» rispose Alex, stringendosi nelle spalle.

Simon scoppiò a ridere. «Apprezzo l'onestà, fratellino.»

«Che vuoi farci» replicò lui, con sufficienza. «Avrò finalmente tutta la Playstation per me. Sai che pacchia?»

«Ah, è così, eh?» considerò Simon, pensieroso. «I videogiochi battono tuo fratello?»

Alex lo guardò divertito. «Dovrei fingere di no?» chiese, per poi aggiungere, la voce piegata in una supplica disperata: «No, ti prego, Simon, non abbandonarmi. Sei la luce della mia esistenza, l'unica ragione che mi tiene in vita. Spiegami come farò a vivere senza di te, passami la tua saggezza così che i segreti dell'universo mi saranno svelati».

Simon annuì piano un paio di volte e poi gli strinse il collo con un braccio. «Ti sembra questo il modo di trattare tuo fratello?» gli domandò, abbassandolo verso il suo grembo.

«Mollami!»

Simon non lo fece, e strinse una mano in un pugno per poi sfregare le nocche sulla sua testa. «Chiedimi scusa.»

«Neanche morto» fu la risposta secca di Alex.

Simon intensificò la stretta e la velocità. «La pubertà ti sta rendendo un vero stronzo, lo sai?»

Alex rilasciò un verso sarcastico. «Sto seguendo le orme del fratello maggiore che tanto ammiro, dovresti esserne orgoglioso.»

La risata di Simon riempì di nuovo la camera. «Bastardo.»

Lui e Alex avevano quattro anni di differenza, e Simon ammetteva che durante i suoi quattordici anni non aveva avuto la pazienza di stare dietro al suo fratellino di dieci. Come ogni fratello maggiore che si rispetti, l'aveva spesso ignorato, cacciato dalla sua stanza o obbligato a fare cose al posto suo.

Ora che i quattordici anni li aveva Alex, suo fratello si stava riprendendo la sua rivincita, riservandogli lo stesso trattamento. Gli doveva effettivamente dispiacere che Simon se ne sarebbe andato prima di dargli modo di ripagare tutto il conto.

«Non dovrebbero, ma mi mancheranno anche queste stupide liti.»

Simon alzò lo sguardo sulla porta della camera spalancata quando sentì la voce di sua mamma insinuarsi malinconica tra i lamenti di Alex e la sua risata.

Smise di torturare la testa di lui, ma non lasciò la presa attorno al suo collo. «Non metterti a piangere come papà, per favore» le disse, rivolgendole una smorfia ironica.

La sera prima, lui e Alex avevano litigato proprio per la Playstation, sotto lo sguardo esasperato dei loro genitori. O almeno, sotto quello di loro madre, dato che negli occhi del padre avevano intravisto tutti delle lacrime.

Sua mamma scosse la testa, divertita, e poi fece passare lo sguardo tra le varie valigie e scatoloni che adornavano il suo pavimento. «Hai finito?»

«Sì» le rispose, lasciando andare Alex quando lui riuscì a liberare una mano che gli stava tenendo prigioniera e gli diede un pizzicotto sul braccio. «Mi manca solo lo zaino da portarmi sull'aereo, ma lo faccio dopo.»

Era da due settimane che Simon si stava preparando per il suo trasferimento. Aveva già finito da giorni, anche se spesso si era ritrovato ad aprire valigie o scatole per ficcarci qualcosa che gli veniva in mente di tanto in tanto.

Il giorno che aveva atteso e temuto per mesi era arrivato.

Aveva l'aereo l'indomani mattina.

Sarebbe partito leggero, con solo due valigie da imbarcare in stiva; aveva impacchettato l'essenziale da portarsi dietro. Il resto, che aveva comunque già preparato, glielo avrebbero portato i suoi genitori a settembre, quando sarebbero andati a Parigi con la macchina per aiutarlo a sistemarsi nella casa che avrebbe condiviso con altri tre studenti dall'inizio di settembre.

Quelle prime settimane le avrebbe passate in un alloggio momentaneo.

«Vuoi un aiuto per ricontrollare?»

Simon scosse la testa. «Non ti preoccupare, sono sicuro che Leo mi obbligherà a passare in rassegna ogni oggetto e vestiario. Sto in una botte di ferro.»

Sua madre gli sorrise. «Tra quanto arriva?»

Simon recuperò il cellulare che aveva abbandonato tempo prima. Erano già le cinque del pomeriggio. «Alle sei» mormorò, rendendosi conto solo in quel momento di quanto si era fatto tardi.

Leo sarebbe arrivato in un'ora per passare insieme a lui e alla sua famiglia quell'ultima sera.

Siamo davvero qui.

Gettò uno sguardo veloce al cassetto della scrivania, sentendo il magone stringergli la gola, come da giorni accadeva quando posava gli occhi lì.

Non aveva più tempo, era arrivata l'ora.

Si era già ridotto all'ultimo, non poteva continuare a rimandare.

Devo farlo, basta trovare scuse.

«Ok» disse sua madre, e Simon riportò lo sguardo su di lei. Stava controllando l'orologio che aveva al polso. «Volevo ordinare il fish and chips dal tuo posto preferito, che ne dici?»

Simon sorrise smagliante. «Dico che ti amo, madre, e che dovrei trasferirmi più spesso se questo è il trattamento che mi spetta per star lasciando il Paese.»

«Una volta è più che abbastanza» rispose lei, rivolgendole uno sguardo triste. «Allora chiamo, così passa a prenderlo papà mentre torna dal lavoro.»

Simon annuì, sua madre gettò un'altra occhiata malinconica alla stanza e poi se ne andò.

«Viziato» disse Alex, nascondendo il suo rimarco tra colpetti di tosse.

Simon gli diede una pacca sulla testa. «Avanti, vattene.»

«Perché?» gli domandò lui, massaggiandosi teatralmente la nuca.

«Perché devo fare cose e non ti voglio tra i piedi.»

Alex inarcò un sopracciglio. «Cosa devi fare?»

«Cose» ribatté, gesticolando impaziente. «Su, vai a giocare alla Play, pensavo la preferissi al passare il tempo con il tuo adorato fratello.»

«Poi sono io quello che ti tratta male» borbottò, alzandosi però dal letto. «Non vedo l'ora che sia domani mattina!»

«Sì, sì.» Simon lo seguì e lo accompagnò alla porta. «Mancherai anche a me, fratellino» aggiunse, scompigliandogli i capelli pece.

«Ti ho detto che mi devi mollare» si lamentò, scostandosi dal suo tocco.

«Ah, questi adolescenti ingrati» scherzò Simon, per poi chiudergli la porta in faccia.

Dall'altro lato arrivò la voce alta di Alex: «Ti cancello tutti i dati di The Last Of Us!».

«Provaci e ti spezzo le dita!»

Alex si allontanò borbottando minacce a vuoto, e Simon, soddisfatto, girò la chiave per evitare che irrompesse nella sua camera senza preavviso.

Non poteva distrarsi, non voleva interruzioni.

Aveva poco tempo.

Appena diede le spalle alla porta, la spensieratezza di quegli attimi condivisi con suo fratello sparì. I suoi occhi sorpassarono tutte le cose pronte per il suo viaggio – trasferimento – e si posarono, di nuovo, sul cassetto della scrivania.

Era arrivato il momento che stava rimandando da settimane.

Da mesi.

Anni.

Si avvicinò alla scrivania e si sedette sulla sedia, aprendo il cassetto per prendere la busta da lettere che aveva rubato giorni prima a sua mamma, il francobollo che aveva comprato e i fogli vuoti in attesa di essere riempiti.

Non aveva idea di cosa scrivere, o meglio, lo sapeva, ma non aveva idea di come scriverlo. Simon non era mai stato bravo con le parole, e riuscire a trovare quelle che gli servivano per raccontare il mondo che si teneva dentro da anni sarebbe stata una delle cose più difficili che aveva fatto.

Era quel pensiero che lo aveva frenato dallo scrivere quella lettera, nonostante fossero settimane che desiderasse farlo. Era quel pensiero che aveva usato come scusa per non farlo.

Ma ora non voleva più scappare.

Per una volta nella sua vita, voleva essere sincero.

Lo voglio fare.

Recuperò una penna, la fece scattare e la posò sulla carta.

13 agosto 2020, scrisse.

E poi, continuò senza fermarsi.

Leo,

*

Da dopo la festa del diploma, qualcosa era cambiato nel suo rapporto con Leo.

Non qualcosa di manifesto, visibile all'esterno per gli occhi di tutti: Simon non aveva cambiato atteggiamento attorno a lui, come mai l'aveva cambiato in tutti quegli anni. Si era comportato come sempre, prendendosi ogni abbraccio e carezza che gli aveva concesso, prolungando anzi quei momenti di vicinanza e godendone liberamente come mai era riuscito a fare da quando aveva realizzato di amarlo. Il pensiero che ogni giorno lo aveva avvicinato all'ultimo gli aveva fatto perdere la cautela che aveva sempre mantenuto in quei momenti.

Fanculo, non ho più niente da perdere, ormai. Sto già perdendo tutto.

Era però cambiato qualcosa dentro di lui.

Quando si era risvegliato la mattina dopo quella sera e aveva trovato ad attenderlo nuovi messaggi di Leo, Simon aveva provato una nuova emozione nel leggere le sue parole: risentimento.

Un risentimento che non si era mai sparito del tutto in quel mese, e che gli aveva stretto lo stomaco tutte le volte che, guardando le sue labbra, il suo cervello gliele aveva ricordate sulla bocca di Chloe Westfield.

Leo non aveva mai fatto parola dell'accaduto, cosa che non l'aveva sorpreso dato che non gli aveva mai parlato dell'argomento in tutti i loro anni di amicizia.

Simon, però, non l'aveva dimenticato.

Ci aveva provato, perché odiava provare quel tipo di rancore, ingiustificato, nei confronti di Leo.

Ma non c'era riuscito, proprio come non era riuscito a spegnere quella sensazione di essere stato tradito.

Così ogni volta che il ricordo aveva sfiorato la sua testa, il risentimento si era fatto strada dentro di lui, a tal punto da fargli provare la stessa rabbia che lo aveva incendiato quella sera.

Quello che provava per Leo era sempre stato difficile, complicato, ma adesso era diventato estenuante.

Simon non ce la faceva più, e in quell'ultimo mese era arrivato, con sempre più sicurezza, a una decisione.

Una decisione che era diventata inevitabile da quando la fragile illusione a cui si era aggrappato per tutti quegli anni si era rotta in mille pezzi.

Una decisione che lo spaventava tanto quanto lo rassicurava.

Una decisione che non avrebbe mai avuto il coraggio di mettere in pratica, se il giorno dopo le loro strade non si sarebbero già divise per altri motivi.

Perché era debole.

Lo sarebbe sempre stato quando si trattava di Leo.

No, da domani le cose cambieranno.

Doveva farle cambiare.

Basta.

«Sim.»

Simon portò lo sguardo sul profilo di Leo. «Sì?»

Erano al Battersea, seduti sui gradini della Pagoda. Erano andati al parco dopo cena, appena poco prima del tramonto. Non avevano fatto molto. Si erano seduti lì, alternando lunghi silenzi a discorsi che avevano portato a galla ricordi o che avevano immaginato il futuro che li aspettava.

Un'ultima volta.

Erano già le dieci di sera, il parco si era fatto silenzioso dopo la scomparsa del sole. Poche persone si aggiravano ancora lì per una passeggiata per le strade illuminate solo dai lampioni. Tra mezz'ora avrebbero chiuso i cancelli, e Simon si aspettava vedere comparire da un momento all'altro Carl, o Harry, per dire loro di sloggiare, come un sacco di altre volte era accaduto.

Lui, Leo e i custodi del Battersea Park si conoscevano ormai così bene da chiamarsi per nome.

Leo non rispose subito, e Simon rimase a scrutare il suo viso quanto riuscì a fare dalla posizione in cui erano. Erano seduti sullo stesso gradino, ma mentre Leo era seduto dritto con la schiena, Simon si era mezzo steso, i gomiti su un gradino più in alto.

Leo non voltò il viso verso di lui, continuò a guardare in avanti, quando disse: «Non ti ho mai ringraziato».

Simon aggrottò la fronte. «Per cosa?»

Gli occhi di Leo caddero sulla polaroid che si stava rigirando tra le mani. Simon aveva portato la sua macchinetta istantanea, e avevano scattato due fotografie appena erano arrivati, prima che la luce scomparisse del tutto. Una l'aveva tenuta lui, una l'aveva data a Leo.

L'ennesimo scatto che raccontava la loro vita insieme, l'ennesima testimonianza di una delle tante pietre miliari che avevano condiviso.

Da domani smetteremo di farlo.

Leo si strinse nelle spalle. «Per essere venuto in mio soccorso il primo giorno di Reception.»

Simon si immobilizzò, preso di sorpresa. Stava davvero tirando fuori il loro primissimo incontro? Il loro primo giorno di scuola? Davvero sentiva il bisogno di ringraziarlo per un avvenimento di quattordici anni prima? Aveva davvero intenzione di ricordare, in quel momento, l'istante in cui Simon aveva messo per la prima volta gli occhi su quel bambino, inconsapevole di cosa che quel bambino sarebbe diventato per lui?

Cristo, Leo. Non puoi farmi questo.

Allontanò gli occhi da Leo, e fissò dritto in avanti, in lontananza. «Addirittura in tuo soccorso?» gli chiese, con leggerezza.

«Sì» rispose lui, con serietà. «Eravamo piccoli e non ne abbiamo mai parlato, ma... Ha significato tantissimo per me, Sim. Avevo una paura tremenda, quella mattina. Non so cosa avrei fatto, senza di te.»

Simon rilasciò un piccolo sospiro. «Sono sicuro che te la saresti cavata lo stesso.»

«No» ribatté ora lui, con un principio di impazienza. Con la coda dell'occhio, lo vide voltarsi per guardarlo. «Mi hai fatto sentire al sicuro, Sim» aggiunse, con decisione. «Mi hai sempre fatto sentire al sicuro.» Lentamente, Simon riportò lo sguardo sul suo volto. L'espressione seria che vi trovò gli contrasse le viscere. «La mia vita non sarebbe quella che è senza la tua presenza, e tutto è iniziato quel giorno» insistette, e insieme all'impazienza Simon vi sentì anche un pizzico di rabbia. «Quindi puoi accettare il mio grazie per essere venuto in mio soccorso quella mattina invece di fare stupide considerazioni?»

Simon rimase in silenzio un istante di troppo a fissare le iridi burrascose di Leo, mentre la stretta si fece più ferrea, lasciando le sue viscere per imprigionare tutto il suo corpo.

La mia vita non sarebbe quella che è senza la tua presenza.

La sua testa corse subito alla lettera che aveva finito di scrivere proprio mentre per la casa aveva echeggiato il campanello che aveva annunciato l'arrivo di Leo. A quella lettera che aveva chiuso velocemente nella busta e aveva nascosto nella sua copia di Aspettando Godot, una delle opere teatrali preferite di Leo. A quella lettera che aveva lasciato a casa, perché sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di consegnare a mano.

L'idea che Leo l'avrebbe letta quella notte, mentre lui era ancora su suolo londinese, era bastata a convincerlo a spedirgliela l'indomani mattina prima di andare in aeroporto. Quando l'avrebbe ricevuta, non ci sarebbe più stato niente da fare. Non avrebbe potuto andare a casa sua, nel cuore della notte, per chiedere spiegazioni. Non avrebbe potuto andare da lui, a poche ore dalla partenza, per costringerlo a parlare.

Quanto mi odierai, Leo?

Era certo che Leo lo avrebbe odiato, dopo la lettura di quelle pagine.

Simon aveva preso una decisione, una decisione che avrebbe cambiato entrambe le loro vite, la loro amicizia.

E l'aveva fatto senza tenere in conto Leo.

Perché era un codardo.

Ed egoista.

«Posso» sussurrò Simon, a scoppio ritardato, pieno di colpa e disagio.

E un bugiardo.

E debole.

Non ha importanza, tanto ti farò schifo quando la leggerai, Leo. Avresti preso la stessa decisione.

Leo annuì, e poi abbassò gli occhi sulla mano vicina al suo corpo. Simon chiuse i propri quando Leo portò la sua lì per intrecciare le loro dita. Ci giocò, rimanendo in silenzio qualche secondo, mentre il corpo di Simon si sentiva tirare verso quello di lui, attratto dalla sua forza di gravità personale.

Simon ci mise tutto sé stesso per rimanere fermo, rilassato, e come ogni volta che sentiva quella spinta gli costò ogni fibra del suo essere non assecondarla.

«Sim.»

Simon risollevò le palpebre, ritrovando gli occhi di lui, che erano tornati a posarsi sul suo volto.

Ed eccolo lì, il momento.

Quello che una volta, un lui appena sedicenne, aveva considerato magico, quello che adesso, un lui quasi diciannovenne, considerava un doloroso déjà vu.

Aveva perso il conto di quanti momenti di quel tipo lui e Leo avevano avuto in tutti quegli anni: sotto le stelle, sdraiati su un letto, su una spiaggia, in un bar, tra i corridoi di scuola, su un bus a due piani.

Momenti che Leo non sembrava mai aver neanche notato, momenti che lui si era sempre obbligato a lasciar correre.

Momenti perduti che avevano inciso, ogni volta, la sua pelle.

«Sì?» mormorò, di nuovo.

Gli occhi di Leo caddero sulla sua bocca, e Simon si sentì andare a fuoco.

Non era mai successo, o almeno, Simon non l'aveva mai notato compiere quel gesto.

Cristo santo, lo percepisci anche tu, Leo?

Simon si raddrizzò, avvicinando i loro visi, e lo sguardo di Leo tornò veloce nel suo.

Nelle sue iridi, Simon vi vide incertezza, paura, confusione.

Le lasciò, perché ancora una volta non vi vide quello che cercava più di ogni altra cosa, e fu lui ora a guardare le sue labbra.

Erano così vicine.

Sarebbe bastato poco per prendersele, proprio come era bastato poco un sacco di altre volte.

E se questa volta lo facessi?

Cosa aveva da perdere, ormai? Aveva già perso tutto.

Mi odierai lo stesso, Leo, con o senza bacio.

Almeno, avrebbe potuto provarle una volta.

Fu nel preciso istante in cui Simon decise di mandare al diavolo ogni controllo, ogni riserva, che un fascio di luce illuminò i loro visi, e Leo si scostò da lui con una velocità tale che l'aria gli sferzò il volto.

«Eccovi qui.»

E fu su quelle parole che il momento finì, come erano sempre finiti quelli che avevano condiviso in precedenza.

Solo, questa volta, sarebbe stato l'ultimo.

«Carl» salutò Leo, sciogliendo la presa delle loro mani. «Buonasera.»

Simon rimase immobile, mentre il fascio di luce si spegneva e riportava sui loro visi solo la fioca luce dei lampioni.

Non provò neanche rabbia, dentro di sé.

Non provò niente.

Solo vuoto.

Lo stesso che aveva provato a ogni loro momento mancato.

Mica è colpa tua, Carl, pensò amaramente. È semplicemente destino.

«Sìsì, buonasera» disse Carl, nel suo accento stretto. «Levatevi di torno, dai. È ora.»

Leo si mise in piedi all'istante, e Simon lo seguì un attimo dopo, recuperando la sua macchina fotografica per poi farsela passare al collo.

«Oh, è l'ultima sera, vero?» La domanda di Carl fu un pugno nello stomaco. Simon vide Leo fare un piccolo cenno del capo, e poi lo sguardo del guardiano del Battersea passò su entrambi. «Buona fortuna per tutto, ragazzi, dico davvero.»

Simon si sforzò a ritrovare la voce. «Lo so che ti mancheremo, ma ti verremo a trovare, non ti preoccupare.»

Carl scoppiò in una risata roca. «Dai, altri cinque minuti e poi fuori, non fatevi ritrovare qui.»

Entrambi annuirono, poi Carl si allontanò in sella alla sua bici, facendo un vago gesto con la mano in segno di saluto.

Fu Leo il primo a riportare lo sguardo su di lui. Nei suoi occhi non vi era più niente dei sentimenti che vi aveva visto prima, se non quella malinconia che glieli aveva spenti per tutta la sera. «Dai, ti accompagno a casa» gli disse, rivolgendogli un piccolo sorriso.

«No.»

Se ne fregò dalla secchezza con cui uscì la sua sillaba di negazione. Non si affrettò ad aggiungere altre parole per addolcirla.

Leo aggrottò la fronte. «Perché?»

Perché deve finire qui, Leo.

Aveva paura che se lo avesse accompagnato a casa, Simon avrebbe ceduto e gli avrebbe proposto di fermarsi a dormire. Aveva paura che se lo avesse fatto, avrebbe avuto anche la scusa di andare con lui all'aeroporto la mattina dopo.

Sapeva che Leo voleva farlo, ma Simon non gli aveva dato la possibilità di chiederglielo. Non voleva salutarlo davanti a tutti prima di passare i controlli aeroportuali, o frettolosamente davanti la porta della sua casa.

Voleva lasciarlo lì.

Nel loro posto.

«Oh, andiamo!» esclamò, allargando le braccia. «Non è questa la scenografia migliore per il nostro ultimo atto?» scherzò, fingendo allegria.

«Non è il nostro ultimo atto, Sim» replicò Leo, il tono tirato quasi come se stesse rispondendo a un'offesa.

Simon deglutì, mantenendo l'espressione leggera. «Dai, hai capito cosa voglio dire.» Leo lo scrutò, un'incomprensione visibile nel suo sguardo, come se stesse cercando di trovare delle risposte sul suo volto. Simon si affrettò ad aggiungere: «Dovresti essere fiero del tuo migliore amico che prende i tuoi insegnamenti teatrali e li fa suoi».

Questo, piegò le labbra di Leo in un sorriso divertito. «Idiota.»

Simon rispose al suo sorriso, sincero. «Dai, davvero, non starmi ad accompagnare a casa» insistette, perché sapeva di non averlo convinto. «È tardi, non fare strada inutilmente.»

Leo esitò, ma alla fine annuì. «Come vuoi.»

Simon fece cadere le braccia lungo il corpo, e per un istante tra di loro non sembrò passare neanche un respiro.

Siamo davvero qui.

Simon aveva immaginato una quantità innumerevole di volte quel momento, il loro ultimo saluto, la loro separazione.

Si rese però conto adesso che non aveva mai pensato a cosa si sarebbero detti, quali frasi avrebbero riempito l'aria nei loro ultimi istanti: erano sempre state immagini prive di suono, di labbra serrate, come se non pensare a quelle parole avrebbe impedito a quel momento di diventare reale.

Ma ora sapeva che doveva trovare qualcosa da dire, perché quella non era più immaginazione.

Era realtà.

È arrivata.

Si schiarì la voce. «Beh, allora...»

Come posso dirti addio, Leo?

Si ritrovò tra le braccia di Leo così velocemente che non si rese neanche conto del suo avvicinamento. Era stato a diversi passi da lui, e tutto d'un tratto le sue braccia erano attorno al suo corpo, così strette da togliergli il respiro. Un solo secondo per assaporarlo, e poi Simon gliele avvolse attorno nello stesso modo, lasciando riposare la sua fronte sulla sua spalla.

Non crollare, non ancora.

«Ti amo, Sim» mormorò Leo, facendo scorrere una mano sulla sua schiena per portarla tra i suoi capelli.

Simon recuperò una profonda boccata d'aria. Il profumo di Leo gli intrise i polmoni. «Mi mancherai, Leo.»

Ma lo devo fare.

«Anche tu» fu la sua risposta flebile. «Non fare troppo l'idiota, ok?» aggiunse poi, come in un tentativo di alleggerire quell'aria già pesante di mancanza.

«Senza te a tenermi sulla retta via?» gli domandò, sarcastico. «La vedo dura.»

Devo lasciarti andare.

Leo rilasciò una leggera risata. «Ti terrò sulla retta via anche dall'Oregon, non ti preoccupare.»

No, non lo farai.

Simon si allontanò, sciogliendo il loro abbraccio. «Ci conto» gli disse, dandogli un buffetto appositamente fastidioso sul volto.

No, non lo farò.

«Scrivimi quando arrivi a casa» si assicurò Leo, scacciandogli via la mano.

Simon gli fece il saluto militare. «Sarà fatto, comandante.»

Leo annuì, e Simon si distanziò di qualche passo.

Non poteva permettere ad altro silenzio di cadere su di loro, non poteva continuare a rimanere lì senza mai vederne una fine, non potevano restare lì a guardarsi fino all'alba, non poteva sopportare un altro addio.

Uno dei due, doveva girarsi e andarsene.

Deve finire, Leo.

E così decise di fare il primo passo.

L'ultimo passo.

Modellò sulle labbra un sorriso, sforzandosi di renderlo pieno, vero. «Ciao, Leo.»

E poi si girò, verso la strada che portava al cancello più vicino alla sua casa, prima che Leo potesse ribattere, debolmente: «Ciao, Sim».

Va bene così, non girarti, basta.

Simon incominciò a camminare, mentre il muro che si era costruito per tenersi al sicuro iniziava a dare i primi segni di cedimento. Si allontanò, senza però riuscire a scacciare la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, che quel saluto non fosse giusto, che c'era ancora altro da dire.

Sì, c'era molto altro da dire, ma Simon sapeva che non sarebbe riuscito a farlo.

Però, avrebbe potuto riassumere tutto in una frase.

In una promessa.

«Leo» chiamò ad alta voce, rigirandosi nella sua direzione.

Leo era ancora fermo, immobile dove lo aveva lasciato, lo sguardo puntato su di lui. «Sì?»

«Ricordati che abbiamo un appuntamento al Brooklyn Bridge Park.»

Solo un angolo delle labbra di Leo si arricciò, come se non avesse neanche la forza per rivolgergli un sorriso completo. «Ci sentiamo dopo, Sim.»

Simon annuì, e poi gli voltò definitivamente le spalle.

Raddrizzò la schiena, come a voler dare alla sua andatura la sicurezza che non stava provando dentro, e poi permise alla sua facciata di crollare.

Perdonami, Leo.

*

*

*

Hi!

Ho pensato e ripensato a come concludere questo capitolo. Non sapevo se fermarmi qui, o se continuare fino "all'avvenimento".

Ho scelto alla fine di mettere il punto alla loro separazione, perché noi sappiamo come è andata, ma ho voluto lasciare Simon qui, con il suo futuro davanti a sé.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a me non convince tantissimo ma credo non lo faccia perché arrivata a questo punto non volevo neanche scriverlo u.u

La raccolta è ufficialmente terminata, ma ci vediamo sabato con la lettera!

G.

[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top