2 - Stelle

Agosto 2017

Simon suonò il campanello e rimase in attesa, dondolandosi sui talloni.

Alzò gli occhi al cielo per controllare che fosse ancora limpido – era la centesima volta che lo faceva da quando era uscito di casa dieci minuti prima –, e sorrise quando vide la distesa blu senza un accenno di grigiore.

Era una giornata perfetta, e aveva controllato mille volte le previsioni per accertarsi che anche la sera sarebbe rimasta uguale. Teoricamente, l'avrebbe fatto. Le stelle sarebbero state visibili a milioni.

Il chiavistello girò, e Simon riabbassò lo sguardo giusto in tempo per vedere la porta spalancarsi. Appena si accertò che dietro l'uscio ci fosse Leo, esordì: «Prepara uno zaino, andiamo a caccia di stelle!».

Di tutta risposta, il suo migliore amico lo salutò con un sonoro e lungo sbadiglio. «Eh?»

Simon lo squadrò. Aveva i capelli castani arruffati, gli occhi mezzi chiusi, e il segno della cerniera del cuscino del divano gli solcava una guancia. Aggrottò le sopracciglia. Erano le due del pomeriggio. «Dormivi?»

Leo annuì e si fece da parte per farlo entrare. «Mi sono appisolato dopo pranzo, sono andato a dormire alle cinque, alla fine, stanotte.»

Dagli ultimi messaggi che si erano scambiati prima che Simon crollasse per la stanchezza, sapeva che Leo era stato ancora sveglio all'una di notte a guardare la diretta streaming di qualche evento teatrale. Si era tenuto a New York, quindi a causa del fuso orario il suo amico era stato in piedi fino all'alba per vederlo tutto.

Simon alzò gli occhi al cielo. «Nerd» mormorò, ironico. «Ha vinto poi... com'è che si chiama? Andersen lì, il tuo fidanzato.»

Anderson Wright era uno degli idoli di Leo, un attore teatrale più che sessantenne di cui Leo parlava fino allo sfinimento da quando erano bambini. Conosceva vita, morte e miracoli di quell'uomo, e Simon si divertiva sempre a prenderlo in giro sottolineando come quella relazione fosse leggermente... ossessiva.

«Lo sai benissimo che si chiama Anderson» lo corresse, un altro sbadiglio che mangiò parte delle sue parole. «E non doveva vincere niente, dovevano dargli un riconoscimento per la carriera e...» si interruppe, e Simon, che gli aveva dato la schiena per avvicinarsi al salone, gli gettò uno sguardo da sopra la spalla. «Perché hai quello zaino capiente?» gli chiese Leo, gli occhi puntati lì.

«La vera domanda è perché ancora non ce l'hai tu, ti ho detto di andarlo a preparare» gli rispose, per poi sporsi nel salone. «Buongiorno, Beth!»

La mamma di Leo, seduta in poltrona con una rivista scientifica tra le mani, alzò gli occhi scuri nella sua direzione. «Ciao, Simon.»

«Il terribile duo non è ancora tornato, vero?» le domandò, rivolgendole uno dei suoi migliori sorrisi. «La casa mi sembra troppo silenziosa.»

«Fortunatamente hanno ancora tre giorni di campo estivo» rispose lei, la voce sognante. Poi gli gettò uno sguardo divertito. «Non dire a nessuno che ho detto fortunatamente

Simon ghignò. Il terribile duo era come lui si riferiva ai fratelli gemelli di Leo, Sun e Rain. Avevano da poco compiuto dieci anni, ed erano un terremoto dalla potenza devastante. Simon si lamentava spesso di Alex, il suo fratellino quasi dodicenne, ma ogni volta che andava a casa Davis si sentiva fortunato ad avere lui tra le mura di casa, tutto sommato.

«Il tuo segreto è al sicuro con me» le promise, mettendosi una mano sul cuore. «Senti, vi dispiace se vi rubo Leo? Ve lo riporto tutto intero domani pomeriggio. Andiamo a St Albans, puoi chiamare mia nonna se vuoi controllare.»

Beth gli sorrise affettuosa. «No, certo che no. Portatelo dove vuoi.»

«Meno male, ho già fatto i biglietti del treno.» Si voltò di nuovo verso Leo. I suoi occhi erano ora molto più svegli, colmi però di confusione. «Sei ancora qui? Lo zaino, Leo. Dobbiamo essere in stazione tra un'ora.»

«Dov'è che andiamo?» gli chiese lui, stordito.

«Da mia nonna, passiamo la notte lì.»

Sua nonna materna, Suzanne, viveva appena fuori Londra, nella contea dell'Hertfordshire. Distante in treno meno di un'ora, lui e Leo si erano andati a rifugiare spesso da lei nei weekend, anche durante l'anno scolastico.

St Albans era una vecchia e tranquilla città medioevale che aveva mantenuto il suo assetto antico, molto caratteristica. La casa di sua nonna non era proprio in centro, ma in periferia, lì dove le strade lasciavano spazio all'aperta campagna. Era un ottimo luogo dove cercare stelle cadenti, lontani dalle luci artificiali della modernità.

Leo lo squadrò poco convinto. «E quando l'abbiamo deciso?»

«L'ho deciso io, stamattina» gli rispose, ricambiando il suo sguardo con uno sarcastico.

«E non potevi dirmelo?»

«Te lo sto dicendo.»

Leo scosse la testa. «Un'ora prima del treno» ribatté, come se fosse lui quello esasperato, e non Simon, che si doveva subire ogni volta tutte quelle storie quando gli proponeva qualcosa di non programmato secoli in anticipo. «Questo non è dirmelo, è rapimento» continuò, incrociando le braccia al petto. «Pensi che possa preparare le cose in...»

Simon non lo lasciò finire. «Che ci vorrà mai a fare uno zaino per una notte» lo interruppe, per poi mettergli le mani sulle spalle e girarlo verso le scale. «Dai, muoviti.»

Leo si lasciò spingere verso il piano superiore, ma non smise di lamentarsi. «Perché dobbiamo andarci proprio oggi?»

«Te l'ho detto, voglio andare a caccia di stelle cadenti e per una dannata volta il cielo è limpido, mica lo controllo io il meteo» gli spiegò, affiancandolo poi quando arrivarono al primo piano. «E poi a mezzanotte è il tuo compleanno, approfittiamone, no? È da due anni che non lo passiamo insieme.»

Il giorno dopo Leo avrebbe compiuto sedici anni.

Dato che cadeva in mezzo alle vacanze estive, era difficile che riuscissero a festeggiarlo insieme. Di solito, uno dei due era sempre in vacanza in quel periodo.

Leo sembrò ragionarci un attimo, e poi disse: «Sì, beh, potevi almeno scrivermi un messaggio quando l'hai deciso».

Simon roteò gli occhi. «Più cresci, più diventi un maniaco del controllo, lo sai?»

«Non voler sapere le cose all'ultimo non è essere maniaci del controllo» replicò lui, quando raggiunsero la nuova rampa di scale. La camera di Leo era all'ultimo piano mansardato, vicino a quella di sua sorella maggiore. «È solo buon...» Dalla sua bocca socchiusa non uscì più nessuna parola, e Simon vide i suoi occhi spalancarsi. «April, copriti!» esclamò poi, la voce un'ottava più alta del normale.

Simon guardò nella sua stessa direzione; la primogenita diciottenne dei Davis stava scendendo le scale di legno vestita solo di un paio di corti pantaloncini e un reggiseno. Non fece in tempo neanche a scoccarle un'occhiata più attenta, che la sua vista si oscurò a causa della mano di Leo che corse a coprirgli gli occhi.

«Sto andando a fare la doccia, che ne sapevo io che avevamo ospiti» disse in tutta tranquillità lei, per poi aggiungere: «Ciao, Simon».

Simon alzò la mano in un gesto di saluto, non sapendo neanche se lo stesse rivolgendo nella giusta direzione. «April» mormorò, cercando di scostarsi dal tocco di Leo. La mano del suo amico però lo seguì, non concedendogli neanche uno spiraglio. «Come procede l'attesa degli A-levels?»

April aveva sostenuto a luglio gli esami finali del liceo, e stava ora aspettando i risultati così da poter confermare la sua iscrizione alla facoltà di Medicina e Chirurgia della UCL.

«Bene, non sono preoccupata» rispose lei, la voce ora molto più vicina. «Andate da qualche parte?»

«Da mia nonna» le disse, sentendosi ridicolo del modo in cui stavano intrattenendo quella conversazione.

April iniziò a dire qualcos'altro, ma Simon non percepì cosa perché Leo le parlò sopra, squillante: «Va bene, April, addio».

«È solo un reggiseno, mica sono nuda» ribatté lei, con un sospiro esasperato. Poi però gliela diede vinta, e concluse: «Divertitevi».

Simon la sentì allontanarsi, e solo a quel punto Leo lo lasciò tornare proprietario della sua vista. Come se non potesse fare altrimenti, gettò veloce uno sguardo in direzione del bagno alle sue spalle, riuscendo a cogliere la figura di lei appena prima che chiudesse la porta.

Osservò con distaccato interesse la pelle nuda della sua schiena, la rientranza dei suoi fianchi, il sedere – che aveva tutta l'aria di essere sodo – fasciato da quei pantaloncini che lasciavano poco spazio all'immaginazione.

Arricciò le labbra, pensieroso. Simon aveva iniziato a guardare le ragazze solo di recente, ma non perché lo volesse, quanto più perché si sentiva in dovere di farlo. Durante i mesi finali del loro decimo anno, i suoi compagni di scuola avevano iniziato a parlare parecchio di loro, e lui era sempre rimasto in silenzio ad ascoltarli, sentendosi estraneo ai loro discorsi.

Il seno delle ragazze non era qualcosa su cui i suoi occhi sentivano il bisogno di soffermarsi, non aveva mai provato il desiderio di avvicinarsi a una di loro, non provava alcun interesse per l'orlo delle gonne delle loro uniforme scolastiche e delle gambe che lasciavano intravedere.

Per cercare di entrare a far parte di quei discorsi, aveva quindi cominciato a far scorrere lo sguardo sui loro corpi quando ne aveva la possibilità, ma non riusciva a capire cosa ci trovassero di così speciale gli altri ragazzi nelle forme femminili.

Leo lo prese per una mano e iniziò a trascinarlo su per le scale. «Smettila di guardare mia sorella» lo rimproverò, schifato.

«Non sto guardando tua sorella» provò a difendersi, il tono invece esageratamente offeso.

Leo fece un verso di scherno. «Sì, certo, come no.»

Simon ribatté con una smorfia, senza però aggiungere alcuna parola, consapevole di essere nel torto. Era vero, in fondo, stava guardando sua sorella. Non avrebbe però potuto spiegargli il motivo per cui lo aveva fatto, che non aveva niente a che vedere con quello a cui lui sicuramente stava pensando.

Entrarono in camera, e Leo gli lasciò la mano per andare dritto verso l'armadio.

Simon rimase fermo nelle vicinanze della soglia, e gettò uno sguardo titubante al suo profilo.

O forse potrei parlartene?

Leo era l'unico che non si era mai unito a quei discorsi tra compagni. Ne era sempre rimasto in disparte, ascoltandoli senza mostrare alcun interesse. Non aveva mai detto che una ragazza avesse suscitato la sua curiosità, o che considerasse Lily dell'undicesimo anno una figa da paura – come lo era considerata da mezza scuola –, o di quanto desiderasse provare le labbra di chicchessia per gustare il loro lucida labbra fruttato.

In realtà Simon non aveva mai trovato strano che non ne parlasse con gli altri, dato che non era uno che si lasciava andare a facili confessioni, ma soprattutto negli ultimi mesi aveva iniziato a trovare strano che non lo facesse neanche con lui, a cui invece aveva sempre raccontato ogni cosa.

Magari anche a lui non... interessano.

Simon aveva pensato più volte di chiedergli direttamente se gli piacesse qualcuno, anche per capire se fosse solo lui lo strano, ma poi si era sempre frenato dal farlo. In parte anche perché non ce n'era mai stata occasione, dato che i loro discorsi non si erano mai avvicinati a un argomento del genere.

Ora potrebbe essere un buon momento, pensò Simon. Se mi dice che non gli piace nessuno, non troverà strano che anche a me non piace nessuno. Se mi dice che gli piace qualcuno, posso inventarmi che anche a me piace qualcuno.

Avrebbe potuto fare il nome di una delle ragazze più grandi, una di quelle inaccessibili con cui non sarebbe mai potuto nascere qualcosa.

Una come Lily.

Simon si prese le mani in una morsa e si schiarì la voce. «Leo, ti...»

Le parole gli morirono sulle labbra, quando Leo si tolse la maglietta e restò a petto nudo davanti a lui. No, non furono le parole a morire. Fu la sua bocca a farsi subito arida, senza salivazione.

Leo gli gettò un'occhiata. «Mi?» lo incitò a continuare.

Con l'inizio della KS4, Leo aveva deciso di iscriversi al club di nuoto a scuola. Gli era sempre piaciuto nuotare, e aveva deciso di unirsi alla squadra scolastica per fare un po' di sport e movimento.

Dopo un anno, i benefici di quegli allenamenti si vedevano tutti sul suo corpo.

Simon scostò lo sguardo. «Ti faccio lo zaino, mentre ti vesti.» Cambiò in fretta quello che aveva avuto in mente di dirgli, senza più alcun desiderio di aprire quel discorso. «Siamo in ritardo.»

Si avvicinò allo zaino che era appeso su uno dei ganci dell'attaccapanni al muro. Era quello di scuola, più piccolo del suo che aveva ancora sulle spalle, ma sarebbe bastato per una notte. Era lui quello che aveva bisogno di più spazio per la macchina fotografica e i diversi strumenti.

«Siamo in ritardo dal momento in cui hai deciso di fare questa scampagnata, Sim.»

Senza pensarci, Simon gli gettò l'ennesimo sguardo esasperato. Un grosso errore, perché adesso Leo era rimasto in mutande. Gli dava le spalle, concentrato a guardare nell'armadio per scegliere i nuovi vestiti da indossare, e sentendosi al sicuro dai suoi occhi, questa volta Simon non si affrettò a distogliere i propri. Con la bocca leggermente schiusa, li fece scorrere sulle sue spalle allenate e sulle scapole sporgenti che si evidenziarono quando alzò le braccia per prendere qualcosa dallo scaffale più alto, per poi scendere lungo i fianchi dritti che le sue braccia conoscevano benissimo e fermarsi sul suo sedere.

Sodo, decisamente sodo.

Simon serrò le labbra, mentre sentiva il proprio stomaco attorcigliarsi e un fuoco caldo iniziava a espandersi nel suo basso ventre.

Ed eccola, la vera e ingombrante paura che lo aveva sempre fermato dall'iniziare quel discorso con Leo. Quella paura che lo spingeva a non guardarsi mai in giro negli spogliatoi della scuola, quella paura che gli faceva sudare le mani ogni volta che un ragazzo si avvicinava troppo a lui, quella paura che gli faceva battere il cuore tutte le volte che Leo lo catturava in un abbraccio: la paura che era quello che provavano gli altri davanti al corpo delle ragazze, quell'emozione viscerale che lui sì che provava, ma davanti a quello dei ragazzi.

Una paura che Simon cercava di silenziare, di scacciare, perché riconoscerla avrebbe significato riconoscere una verità che non era pronto ad ascoltare.

Farlo, avrebbe significato vedere cambiare tutto.

Così scosse la testa e allontanò lo sguardo da Leo, reprimendo tutto quello che provava.

No, non sono così.

«Vado a prenderti lo spazzolino» mormorò, lasciando lo zaino sul letto.

«No!» lo fermò Leo. Suo malgrado, Simon tornò a guardarlo. Rilasciò un sospiro di sollievo quando notò che si era almeno infilato una maglietta. «C'è April, vado io.»

Oh, giusto.

Leo gli passò un cambio. «Metti questi nello zaino, e prendimi il libro sul comodino, le cuffie e il caricabatterie.»

Simon si limitò ad annuire, prendendo dalle sue mani i vestiti accuratamente piegati.

Con la coda dell'occhio, lo vide mettersi i bermuda e poi, saltellando per infilarsi i calzini, lo lasciò da solo nella camera.

Solo quando sentì l'eco dei suoi passi disperdersi, Simon rilassò i muscoli contratti.

La stretta allo stomaco, però, non si allentò, fastidiosa come lo era da tempo.

*

Era quasi mezzanotte, e loro stavano correndo tra le strade di campagna con il vecchio motorino che usavano sempre quando andavano lì. Nessuno dei due aveva la patente, né tantomeno l'età giusta per guidarlo – o almeno, Leo ce l'avrebbe avuta tra qualche minuto –, ma in quel luogo sospeso nel nulla non aveva alcuna importanza.

Erano arrivati a casa di sua nonna intorno alle quattro del pomeriggio, e non avevano fatto granché. Non facevano mai granché da sua nonna, se non mangiare i biscotti che preparava sempre per loro e rilassarsi in giardino sull'amaca all'ombra di due grandi alberi; Leo a leggere i suoi libri, Simon a fare le più svariate cose al cellulare.

Quando dopo le nove di sera il cielo si era finalmente scurito abbastanza, erano partiti per la loro missione.

Erano più di due ore che giravano nei dintorni, le strade vuote in quel martedì sera estivo, fermandosi di tanto in tanto nei campi che le costeggiavano per puntare gli occhi all'insù.

Fotografare il cielo stellato non era facile, e richiedeva tempo e pazienza. Ogni volta che sceglievano un nuovo punto di osservazione, Simon doveva sistemare il cavalletto e assicurarci la fotocamera, perché per far sì che le stelle non venissero mosse doveva impostare l'esposizione almeno a venti secondi, ed era necessario che restasse immobile per tutto quel tempo, neanche una minima vibrazione a disturbare lo scatto.

Aveva scelto di portarsi una delle sua vecchie macchine analogiche, anche se un lavoro del genere sarebbe stato più facile con una digitale in cui poteva tenere meglio sotto controllo i parametri, il risultato finale e cambiare tra diversi obiettivi.

Ma non gli importava.

Per lui fotografare era una sfida.

«Fermati qui!»

Percepì l'esclamazione di Leo senza problemi: non stavano andando veloce, non avevano un casco, e l'unico rumore per miglia era quello del motorino.

In più, Leo era appiccicato a lui.

Il petto gli aderiva completamente alla schiena, le braccia gli avvolgevano la vita, le mani allungate in avanti per reggere il treppiede che Simon si era messo tra le ginocchia per non doverlo tirare ogni volta fuori dallo zaino, il mento poggiato sulla sua spalla.

Quella vicinanza non era niente di nuovo: era quello che gli bruciava nel petto e continuava a sopprimere, a esserlo.

È normale, è solo perché stiamo crescendo.

Simon si fermò, e Leo scese di tutta fretta, correndo nella distesa d'erba.

Aveva il dito puntato verso il cielo, ma Simon non lo seguì per vedere cosa stesse indicando, neanche quando disse: «Eccone un'altra! L'hai vista?».

Continuò a guardare lui, quel sorriso eccitato che gli si stampava sulle labbra ogni volta che avvistava una stella cadente. Riusciva ad illuminargli il viso insieme alla luce fredda di quella notte d'estate.

«Sì» rispose, anche se non era vero.

Mise il cavalletto al motorino e scese, sistemando il treppiedi sul terreno, controllando poi che ogni gamba vi fosse saldamente piantata. Solo a quel punto recuperò la macchina fotografica che aveva a tracolla e la assicurò sul supporto. Il click metallico dell'aggancio sembrò echeggiare nel silenzio che li avvolgeva.

La mosse per accertarsi che fosse ben stabile, e poi si chinò per accostare l'occhio destro al mirino. «Stai fermo» disse a Leo, iniziando a regolare l'obiettivo.

La messa a fuoco richiedeva una particolare attenzione: doveva catturare la nitidezza del viso di Leo senza perdere la bellezza del cielo stellato alle sue spalle.

Leo non restò fermo, abbassò gli occhi dalla volta celeste. «Ancora?»

Cercò di far suonare la sua voce esasperata, ma Simon colse senza problemi il suo imbarazzo. Leo non amava stare al centro dell'attenzione, e ogni volta che lui gli puntava addosso l'obiettivo diventava fin troppo cosciente di sé stesso.

«Devi abituarti a farti fotografare, Leo» gli rispose, facendogli un gesto impaziente con la mano. «Cosa farai quando i paparazzi ti seguiranno per le vie di New York?»

Leo roteò gli occhi. «I paparazzi non seguono gli attori teatrali.»

Simon si raddrizzò per lanciargli un'occhiata scettica. «Anderson Wright mi sembra parecchio paparazzato.»

«Sì, beh, Anderson Wright ha numerosi Tony Award sulle spalle, senza contare che ha fatto anche un mucchio di film e ha vinto persino un Oscar» si premurò di precisare. «Di certo non sarò mai famoso come lui.»

Simon tornò a guardare attraverso il mirino. «Lo vedremo, ora stai fermo.»

Leo lo guardò esasperato, ma poi alzò di nuovo gli occhi al cielo. Le sue labbra si arricciarono in un altro facile e genuino sorriso.

Simon girò la ghiera della messa a fuoco, poi regolò l'apertura del diaframma in modo da permettere l'ingresso della massima quantità di luce.

«Per quanto devo stare fermo questa volta?» sussurrò Leo, muovendo appena le labbra.

Simon ci pensò, prima di rispondergli. Il tempo di esposizione era una questione delicata: voleva catturare le stelle ma senza sovraesporre il volto di Leo. Doveva trovare un tempo che fosse un buon compromesso per dare equilibrio ai due soggetti.

«Dieci secondi» lo informò, collegando il cavo di scatto remoto per evitare qualsiasi vibrazione che potesse rovinare la lunga esposizione. «Immobile, Leo» si assicurò un'ultima volta, e poi cliccò il pulsante.

Durante quei secondi, il mondo sembrò fermarsi. Simon osservò Leo, immobile come una statua, il suo sorriso illuminato da quella luce stellare. L'attesa era parte dell'incanto, ogni secondo sembrava un'eternità, e Simon rimase lì, immobile quanto Leo, ad ammirare lui e il cielo, sentendosi parte di qualcosa di infinitamente più grande.

Lo spettacolo davanti ai suoi occhi era un'istantanea di bellezza che stava per essere catturata per sempre sulla pellicola.

Guardati, Leo. Certo che sarai famoso quanto lui.

Quando l'esposizione terminò, il suono del click dello scatto rimise in moto il tempo. E come per darne prova, il suono dei rintocchi del campanile vicino si spinse fino alle loro orecchie, unendosi al frinire dei grilli e il canto delle cicale.

Leo riabbassò lo sguardo per puntarlo nel suo. «È mezzanotte.»

Le sue iridi, illuminate da quella luce, erano di un grigio liquido che si infiltrò nel suo cuore. «Sì?»

Leo sorrise, molto più teneramente, adesso, e annuì.

Come di riflesso, Simon schiacciò ancora il pulsante per scattare un'altra foto, senza neanche stare a ricontrollare i parametri. Poi lasciò cadere il controllo remoto a terra e si avvicinò a lui, entrando nell'inquadratura.

Quando gli arrivò accanto, lo prese in un abbraccio e gli posò le labbra sulla guancia. «Allora auguri, Leo» gli sussurrò contro la pelle.

Sapeva che la foto sarebbe venuta rovinata: il suo corpo sarebbe stata una scia in movimento, un fantasma luminoso che fluttua nel paesaggio stellato; e anche Leo, che sebbene avesse tenuto il corpo immobile aveva seguito con lo sguardo ogni suo passo, non sarebbe stato perfettamente a fuoco, il viso leggermente mosso e circondato da un probabile alone. Le stelle alle loro spalle, invece, avrebbero brillato nitide e immobili, creando un contrasto surreale con le loro figure sfocate.

Quella foto sarebbe stata un'esplosione di luci e movimento, incomprensibile ai molti ma non a loro: avrebbero saputo per sempre cosa quello scatto significava.

Di nuovo, il click che segnalava la fine dello scatto echeggiò nella quiete che li avvolgeva, ma questa volta Simon non gli diede alcuna importanza, né lo fece Leo.

Rimasero immobili, come se l'esposizione non fosse ancora finita.

Rimasero immobili, come se fossero loro stessi una fotografia.

Rimasero immobili, come a non voler mettere fine a quell'attimo sfuggevole ma trasformarlo in qualcosa di eterno.

*

A Simon piaceva dire che era capace di sviluppare le foto perché teoricamente lo sapeva fare.

Conosceva tutti i passi a memoria: sapeva perfettamente come guidare la pellicola sulla spirale, sapeva quale e quanto chimico versare nel tank, sapeva il ritmo da seguire per sviluppare i negativi – dieci secondi di agitazione, trenta di riposo. Sapeva anche svuotare il tank, sapeva anche versare il liquido trasparente che arrestava l'azione dello sviluppatore, sapeva anche aggiungere il fissaggio che rendeva permanente l'immagine sulla pellicola. Sapeva poi che doveva ancora agitare per dare il tempo allo stop bath di agire, e infine sapeva che erano cinque i minuti di risciacquo finale che servivano per eliminare ogni traccia dei chimici.

Lo avrebbe saputo fare a occhi chiusi.

La verità era però che non l'aveva mai fatto da solo: i suoi genitori non gli permettevano ancora di maneggiare quegli agenti chimici da sé.

La sera prima, dopo il suo rientro nel pomeriggio da casa di sua nonna, suo padre lo aveva aiutato a sviluppare i due rullini che aveva usato durante la sua scampagnata con Leo. Li avevano trasformati in negativi e poi li avevano appesi allo spago come di consuetudine, così da farli riposare tutta la notte.

Quando la mattina dopo si svegliò, Simon non perse neanche tempo a fare colazione e scese subito nello scantinato per portare a termine il lavoro lasciato in sospeso, eccitato di vedere la cinquantina di foto che aveva scattato.

Non aveva neanche sbirciato un negativo, come di solito faceva. Voleva vederle tutte solo una volta finite.

Suo padre sarebbe tornato a casa da lavoro solo nel tardo pomeriggio, e lui non voleva più aspettare. Decise quindi che si sarebbe accontentato di finire il lavoro digitalmente, e non analogicamente – per stamparle tradizionalmente, sulla carta fotografica, ci sarebbero voluti altri chimici, e non aveva il permesso di maneggiare da solo neanche quelli.

Simon andava pazzo per la vecchia modalità: amava immergere la carta nella vasca e vedere, piano piano, l'immagine comparire. Era un processo che richiedeva pazienza e precisione, ma la soddisfazione di guardare l'immagine prendere vita sotto ai suoi occhi era impagabile.

Fa niente, per questa volta va bene il digitale, pensò, raccogliendo la prima striscia di negativi.

Ne aveva effettivamente scattate tante, e stamparle analogicamente ci sarebbe voluta una vita. Suo padre aveva un sacco di pazienza, ma non così tanta. Le avrebbe messe tutte su computer, e avrebbe scelto poi la decina migliore da sviluppare anche nel vecchio metodo.

Simon accese il computer e poi avviò lo scanner, posizionando con delicatezza i negativi nella guida. Si assicurò che fossero allineanti correttamente, e poi aprì il programma della scansione. Selezionò l'opzione dei negativi a colore, impostò la risoluzione ad alta qualità e premette il tasto d'avvio.

Lo scanner prese vita con un ronzio che riempì il silenzio del suo studio fotografico casalingo, e Simon rimase seduto sulla poltrona girevole, a fior di pelle, ad aspettare che la tecnologia catturasse digitalmente ogni singolo dettaglio delle immagini.

Mentre attendeva il completamento della scansione del primo rullino, Simon ripensò alle fotografie che aveva scattato quella sera. Non vedeva l'ora di vederle. Avevano visto una ventina di stelle cadenti, ed era sicuro di essere riuscito a catturarne qualcuna su pellicola. Ci sarebbero stati sicuramente un sacco di tentativi sbagliati, la metà delle foto sarebbero state da cancellare, ma non gli importava. Ogni errore lo spronava a migliorarsi.

Sul monitor cominciarono ad apparire le immagini, e sorrise, colmo di tenerezza, quando una delle prime che vide fu la foto che aveva scattato a Leo pochi secondi prima della mezzanotte.

Era venuta benissimo.

Il viso di Leo era illuminato dalle lontane costellazioni, le sue iridi grigie risplendevano serene, e il suo sorriso era così caldo da riuscire a trasformare la luce della notte in quella del giorno; le stelle alle sue spalle, in confronto, erano dei deboli puntini luminosi che poco potevano fare contro quella che emanava il volto di Leo.

La guardò per qualche secondo, ammirò tutti i dettagli mentre dentro di lui si infondeva un calore che gli fece persino sudare le mani.

Poi andò avanti. La fotografia dei loro corpi in movimento comparì subito dopo. Era proprio come Simon aveva immaginato sarebbe stata: la sua scia era molto più lunga di quella di Leo, come fosse lui stesso una stella cadente, mentre Leo il punto fermo della stella polare.

L'immagine aveva un aspetto onirico. Simon sembrava dissolversi nell'aria, mentre Leo era come un'apparizione eterea.

Non vedo l'ora di fargliela vedere.

Passò oltre, guardando con un sorriso una foto che ritraeva l'espressione esasperata di Leo, una sorridente, una concentrata...

A mano a mano che scorreva tra quelle immagini, però, un cipiglio sempre più profondo si formò tra le sue sopracciglia.

Dov'erano finite le foto del cielo stellato che aveva programmato di scattare?

Ne aveva scattate, vero?

Ricordava di avere puntato l'obiettivo al cielo, ma poi...

Con una morsa allo stomaco, Simon tolse i negativi dallo scanner e andò a prendere il secondo rullino.

Lo preparò con la stessa attenzione che aveva riservato al primo, le mani però molto più incerte. Poi fece partire la scansione.

Nell'attesa di vedere le nuove immagini comparire, non ci fu più niente dell'eccitazione di prima. Simon rimase immobile a fissare lo schermo, mentre un'ansia che non aveva mai provato iniziò a comprimergli lo sterno.

Un minuto, e le foto iniziarono a comparire una dietro l'altra, e anche questa volta, a farlo, fu sempre e solo il viso di Leo.

Leo che rideva, Leo che guardava in camera, Leo che guardava lui.

Un primo piano delle sue iridi grigie, un primo piano del suo sorriso pieno, un primo piano delle sue mani che indicavano la volta celeste.

Sì, ricordava di avere puntato l'obiettivo al cielo, ma all'ultimo aveva sempre cambiato direzione, attratto da uno spettacolo migliore.

Simon sentì il panico crescere dentro di sé.

Perché ho scattato foto solo a lui?

Come poteva essere successa una cosa del genere? Perché era successa?

Simon portò la mano tremante al mouse, e fece scorrere a ritroso tutte le foto. E ogni scatto che raccontava di un'attenzione involontaria, dava voce a quella verità che cercava di sopprimere da mesi e portava a galla un sentimento a cui mai prima di quel momento aveva dato respiro, neanche per un breve istante.

La prima foto che aveva visto di Leo, quella che gli aveva dipinto un dolce sorriso sulle labbra, ricomparì sullo schermo.

Non lo fece più sorridere.

Le sue labbra iniziarono a tremare, insieme alle mani, al corpo, all'animo, mentre tutte le sue difese si distruggevano e il panico lo sopraffaceva.

Perché davanti a quella foto, tutto diventò chiaro.

Merda.

Simon rimase a guardare quella foto per un tempo che non riuscì a quantificare, mentre cercava di fare i conti con quei sentimenti che non avrebbe mai voluto riconoscere, con quella valanga di emozioni da cui era certo non sarebbe più emerso.

Perché come diavolo si poteva fare i conti con tutto quello?

Merda, merda, merda.

Il suo cellulare trillò, e Simon sussultò, colto di sorpresa dall'evidenza che il mondo avesse continuato ad andare avanti mentre lui era caduto in quel baratro nero.

Era Leo.

"Sono pronte le foto? Vengo così le vediamo insieme?"

Le mani di Simon agguantarono il cellulare con una fretta che lo lasciò interdetto. Scrivergli era l'ultima cosa che voleva fare, eppure il suo corpo prese i comandi, e le dita digitarono veloci una risposta.

"I rullini si sono rovinati. Non so come è successo, sono tutte perse."

Simon riportò lo sguardo allo schermo del computer, all'evidenza della sua menzogna.

Il cellulare trillò per un nuovo messaggio, ma questa volta non si affrettò a leggerlo. Lo lasciò sulla scrivania e rimise la mano sul mouse.

Meccanicamente, quasi senza rendersi conto dei propri gesti – bisognoso di spegnare il cervello per entrare in modalità di sopravvivenza –, mise tutte le foto in una cartella, che poi salvò su una chiavetta capiente abbastanza da contenerle.

Poi spense tutto, raccolse i negativi e tornò in camera.

Non avrebbe mai fatto vedere quelle foto a nessuno, non avrebbe permesso di far leggere a occhi diversi dai suoi la storia che raccontavano, le avrebbe tenute custodite come un segreto di cui ci si vergogna.

Proprio come avrebbe tenuto segrete quelle verità che gli stavano facendo scoppiare il petto, perché non poteva rischiare di perdere tutto.

Non poteva rischiare di perdere Leo.

E lo avrebbe perso, se le avesse fatte uscire dalle sue labbra.

Perché la verità era che non solo era gay, quella paura che da mesi cercava di tenere sottochiave, di reprimere ogni volta che il pensiero gli attraversava la mente, e che gli faceva girare la testa dall'altra parte tutte quelle volte che si sorprendeva a guardare il corpo dei suoi compagni.

Ma che era anche innamorato del suo migliore amico.

Non avrebbe saputo dire da quanto tempo tutto quello fosse nascosto dentro di lui, da quanto tempo stesse scambiando ciò che provava per innocuo affetto, da quanto tempo quel caldo sentimento stesse ribollendo sotto pelle, aspettando il momento migliore per eruttare.

Sapeva solo che quelle foto, quello scatto, l'aveva fatto esplodere senza neanche dargli un preavviso, e ora stava colando su di lui come lava bollente.

No, no, no.

Doveva tenere quella lava dentro di sé, non poteva farla fuoriuscire per renderla spettacolo di tutti, a rischio di ustionare ogni parte di sé stesso.

Avrebbe trovato un modo per convivere con il suo segreto, per proteggere ciò che avevano senza distruggerlo.

Dopotutto, quella sera aveva espresso un desiderio a una stella cadente: che la loro amicizia potesse durare per sempre.

Si sarebbe impegnato per far sì che succedesse, anche a costo di dover combattere contro il suo cuore ogni singolo istante della sua vita.

Non cambia niente.

Simon nascose i negativi e la chiavetta in una scatola sullo scaffale più alto del suo armadio, e poi chiuse le ante, deciso a lasciarle lì, seppellite.

Sì, andrà tutto bene.

*

*

*

Hi!

Eccoci con la seconda shot, che ci porta due anni avanti e alla realizzazione.

Io non so che idee vi eravate fatti di Simon da Offstage, spero riuscirete ad apprezzarlo a mano a mano che si "mostrerà", nonostante sarà diversissimo da Leo e da Dee.

Un abbraccio,

G.

[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]

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