0 - 13 agosto 2020
avviso pre-lettura: come al solito, è lungo una vita, avventuratevi con tempo. <3
*
Londra, 27 maggio 2025
Non aveva importanza se erano ormai quasi cinque anni che risvegliarsi nel suo letto di Londra non era più un'abitudine. Ogni volta che apriva gli occhi e vedeva la camera in cui era cresciuto, tutto gli era così familiare da fargli mettere in dubbio che il tempo passato lontano ci fosse davvero stato.
Il soffitto spiovente, la scrivania accanto al letto a una piazza e mezzo, addossato contro il muro; il mobile quadrato che sorreggeva una piccola televisione, i cui quattro cubicoli a vista custodivano una Playstation, svariati videogiochi e alcuni libri che non entravano più nella libreria straripante accanto a quello; il bersaglio delle freccette e un piccolo canestro attaccati alla porta; il grosso armadio, la bacheca di sughero straripante di ricordi e la lavagna cancellabile suddivisa in giorni del mese su cui Leo aveva segnato per anni scadenze e appuntamenti.
Non era sempre stata la sua camera, dato che prima dell'arrivo dei gemelli aveva dormito in una delle tre stanze da letto del secondo piano. Con l'arrivo di due nuovi figli, però, i suoi genitori avevano suddiviso la mansarda, che fino a quel momento era stata usata come uno studio e spazio ricreativo, per ricavarci due camere da letto; una per lui, una per April.
Leo, che si era risvegliato a pancia all'aria, si mise su un fianco, in direzione del respiro profondo che gli solleticava il viso. Sorrise quando vide l'aggiunta che rendeva quel risveglio del tutto differente da quelli che aveva avuto in passato.
Dee dormiva profondamente, il lenzuolo tirato su fino al naso, tanto da lasciare visibile solo le palpebre abbassate e la fronte. Sotto la coperta, le loro gambe erano un groviglio che Leo serrò ancora di più.
Erano arrivati a Londra quella mattina presto, e quando avevano varcato la soglia di casa si erano messi a dormire per recuperare un po' di jet leg. Non aveva idea di quante ore fossero passate da quando avevano toccato il letto, ma a giudicare dalla luce che entrava dal lucernario doveva essere pomeriggio inoltrato.
Era la prima volta che erano lì a Londra insieme.
Era la prima volta che erano insieme dopo mesi, se non si contavano le ore di viaggio in aereo.
Dee aveva finito il suo terzo anno alla GVU solo qualche giorno prima, ed era partito da Bend in modo da arrivare all'aeroporto di New York giusto qualche ora prima del volo di Londra. Si erano trovati lì, al terminal, dopo due mesi di separazione. L'ultima volta che si erano visti era stato a inizio aprile, quando Dee gli aveva fatto un'improvvisata a New York per festeggiare il loro primo anniversario.
Si sarebbero fermati per una settimana, in tempo per vedere la prima dello spettacolo a cui aveva lavorato Jo all'Old Vic. Per quanto avrebbe voluto fermarsi di più, Leo non era riuscito a mettere insieme più giorni di ferie.
Da gennaio, lavorava in un famoso dinner-theatre di New York, una forma di intrattenimento che prevede una performance teatrale mentre gli spettatori mangiano la loro cena. La Crozet&Cast gli aveva assicurato il ruolo di uno dei protagonisti nella nuova produzione partita con l'anno nuovo. Non si esibiva tutte le sere, perché lo spettacolo si alternava con uno musicale, ma restava il suo primo vero lavoro da quando era arrivato in quella città, il suo primo vero lavoro nella vita.
Stuart, il suo collega che aveva la sua stessa parte che recitava invece durante il pranzo, gli stava facendo il favore di coprire anche lo spettacolo serale per tre date. Era stato già fin troppo gentile, non gli avrebbe chiesto di più.
Leo liberò una mano da sotto il lenzuolo e con delicatezza abbassò il lembo che copriva il volto di Dee.
Per un momento lasciò che a scorrere sui suoi lineamenti fossero solo i suoi occhi, ma poi aggiunse anche il tocco delle dita. Lo ammirò con il tatto, riconoscendo tutti i particolari del suo volto. Non riuscì a frenarsi dal farlo. Aveva bisogno di sentirlo come per accertarsi che fosse veramente lì, che non fosse solo nella sua testa, un desiderio così intenso da essere diventato illusione. Il desiderio non solo di avere finalmente Dee di nuovo davanti a sé, ma di averlo lì, nel suo letto, nella sua casa, nella sua città.
«Leo?»
Il sussurro assonnato di Dee arrivò quando posò le dita sulle sue labbra schiuse.
«Scusami, ti ho svegliato» mormorò con la stessa bassa tonalità.
Fece scorrere l'indice sul labbro inferiore, e poi tornò ad accarezzargli leggero una guancia.
Dee scosse la testa sul cuscino, le palpebre ancora serrate. «Fa niente, pagherei oro per farmi svegliare da te ogni mattina.»
Leo fece un piccolo sorriso e poi lo attirò a sé. «Vieni qui.»
Sentì il viso di Dee scavare nel suo petto, e poi lo percepì recuperare una profonda boccata d'aria. «Non hai idea di quanto mi sei mancato, Leo.»
Leo posò il mento sulla sua testa e gli fece passare le braccia attorno al corpo. «No, credimi, ne ho un'idea» mormorò, portando poi le mani tra i suoi capelli, ancora umidi dalla doccia che l'aveva obbligato a farsi prima di mettersi a letto.
Gli era mancato allo stesso modo. E se Dee avrebbe pagato oro per rendere un risveglio di quel tipo abitudine, Leo avrebbe pagato oro per avere la possibilità di stringerlo ogni volta che lo desiderava. E a New York, si ritrovava a desiderarlo un numero inqualificabile di volte al giorno.
«Che ore sono?» biascicò Dee.
Leo chiuse di nuovo gli occhi. «Non lo so, non ha importanza.»
Non aveva controllato il cellulare, e nella stanza non c'erano orologi a vista da cui avrebbe potuto controllare. E non gli interessava neanche farlo. Non aveva alcuna intenzione di alzarsi, non ancora.
«Sì che ha importanza» ribatté invece Dee, la voce già molto più sveglia. «Devo andare a salutare la tua famiglia come si deve.»
Avevano visto solo April quando erano arrivati, dato che era lei che era andata a recuperarli all'aeroporto. Erano stati accolti da una casa vuota: i gemelli erano già a scuola, mentre i suoi genitori a lavoro. Dovevano ormai essere rientrati tutti.
Senza contare alcune videochiamate che avevano fatto insieme, era la prima volta che Dee rivedeva tutti loro dal maggio scorso, quando erano andati a Rivervale Falls per il suo progetto di laurea.
«Possono resistere un'altra mezz'oretta senza di te» replicò, abbracciandolo ancora più stretto quando lo sentì divincolarsi, preso sicuro da un'ansia improvvisa all'idea di chi li stesse attendendo due piani sotto. «Ti voglio ancora un po' tutto per me, prima che ti rapiscano» aggiunse, con voce decisa. «Stai fermo.»
«Se sentono che siamo svegli...»
«Siamo gli unici su questo piano, nessuno ci può sentire.»
«La stanza di tua sorella è al di là di quella sottile parete» protestò, non convinto, Dee.
Leo sospirò esasperato. «Mia sorella è a lavoro, l'ha detto stamattina che andava dopo pranzo, ed è sicuramente dopo pranzo.»
Dee smise di divincolarsi. «Giusto.» La sua tranquillità durò però meno di un minuto. Leo fece appena in tempo a risistemarselo per bene addosso, che lui iniziò a muoversi di nuovo. «Sono nella tua camera!»
«Eh?»
«Leo, lasciami andare» gli disse frettolosamente, tirandosi a sedere con uno scatto così repentino che alla fine riuscì a liberarsi da solo. «Sono nella tua camera!» ripeté, mentre gli occhi nocciola, colmi di frenesia, si piantavano nei suoi.
Leo inarcò un sopracciglio. «Quindi?»
Dee sgusciò via dalle coperte e si alzò in piedi. «Quindi, dice!» gli fece eco, con incredulità. «Prima ero troppo in botta da jet leg per rendermene davvero conto» aggiunse, come se quello potesse spiegare cosa stesse succedendo nella sua testa.
Si avvicinò alla scrivania, e fece scorrere le dita sul piano.
L'attenzione con cui la scrutò lo lasciò perplesso. «Dee, cosa stai facendo? È una scrivania...»
«Non è una scrivania» lo interruppe, spazientito. «È la tua, chissà quante cose hai fatto seduto qui...» Riportò lo sguardo, luminoso, su di lui. «Hai mai scritto qualcosa prima di Era una notte d'estate? Se sì, l'hai conservato? Posso leggerlo?»
Leo, spaesato, non riuscì a mettere insieme una risposta. Dee non l'aspettò neanche. Distolse gli occhi e si allontanò, e Leo lo seguì con lo sguardo. Lo vide osservare i titoli dei videogiochi, fece scorrere le dita sui dorsi dei libri, raccolse alcuni oggetti che adornavano gli scaffali della sua libreria. Una tazza con lo stemma della casata degli Stark, un carillon che aveva comprato in gita a Parigi che riproduceva le note della canzone La vie en rose, una macchina fotografica vintage che non funzionava più, i funko pop di Jack Skeleton e Sally, altri piccoli gadget di film e telefilm. Fece passare gli occhi sulla locandina incorniciata dello spettacolo teatrale del Re Leone, su un quadretto di Aspettando Godot, su un poster che raccoglieva dodici playbill dei più famosi spettacoli di Broadway – Chicago, Jersey Boys, Hamilton, Wicked. C'era anche quella di uno dei musical più famosi di suo nonno, e lo vide indugiare su quella più di un istante. Poi passò oltre, attento a ispezionare ogni angolo.
Leo non lo perse di vista un attimo, meravigliandosi della meraviglia sul suo volto.
Nessuno era mai entrato nella sua stanza, al di fuori della sua famiglia e di Simon.
E di Jo, certo, che l'aveva abitata per sei mesi, prima di riuscire a mettere da parte abbastanza soldi per trasferirsi in un appartamento tutto suo.
Non aveva mai voluto nessuno, lì dentro. Non aveva mai portato nessun compagno di scuola tra quelle mura. Era sempre stato una santuario che non si era mai sentito al sicuro di condividere se non con le persone con cui condivideva il suo cuore.
E vedere Dee aggirarsi per quella camera, sentire quanto fosse giusto, gli infuse nelle vene un calore che lo riempì di gioia.
«Ovvio» mormorò Dee, sarcastico, indicando la lavagna cancellabile.
Leo si mise a sedere, poggiando la schiena al muro alle sue spalle. «Invece di deriderla, dovresti farci un pensiero» gli rispose, con lo stesso sarcasmo. «Ti farebbe bene.»
Dee voltò il viso per lanciargli uno sguardo divertito. «Lascia stare, Leo Davis, è una battaglia persa e lo sai.»
Leo alzò gli occhi al soffitto, e poi li portò sul nuovo oggetto di interesse di Dee: la bacheca in sughero.
Per ispezionarla, Dee dovette dargli le spalle, così anche Leo lasciò vagare il suo sguardo sulle cose appese lì.
Le prime cose che saltavano all'occhio erano le fotografie. Le più di lui e Simon, ma qualcuna anche della sua famiglia o con altri compagni di classe. C'erano poi vari paesaggi e una, la migliore, se così poteva essere definita, del suo servizio fotografico finito male del tramonto al Brooklyn Bridge Park di dieci anni prima. Era stato Simon a convincerlo ad appenderla, l'aveva scelta lui dal mucchio di orridi scatti, un perenne promemoria della loro promessa.
Sarà divertente confrontarla con quella che faremo insieme.
Leo distolse gli occhi, e li fece scorrere sul resto delle cose appuntate sulla bacheca: biglietti di alcuni spettacoli teatrali, pezzi di fogli volanti dove aveva appuntato frasi di libri o sceneggiature che lo avevano colpito, i più disparati oggetti che portavano a un ricordo, come il sottobottiglia della prima birra che aveva bevuto in un pub.
Finì di riconoscere tutti gli elementi molto prima di Dee, che rimase concentrato a osservarli per molto più tempo.
A Leo non diede fastidio. Non lo disturbò. Gli lasciò lo spazio di fare quello che voleva, lo lasciò libero di conoscere il suo passato, di entrare nei suoi ricordi.
Quando Dee dovette sentirsene soddisfatto, si girò e scrutò il suo volto per qualche altro istante di silenzio. «Sei felice.»
Non la pose come domanda, ma Leo annuì lo stesso e disse: «Lo sono».
Le labbra di Dee si piegarono in un sorriso sereno, e un attimo dopo strabuzzò gli occhi, come se si fosse appena reso conto di qualcosa. «Ho dormito nel tuo letto.»
«Sì?» rispose, ponendola più come una domanda che una conferma.
Dee allontanò lo sguardo e lo puntò in direzione della libreria. «Ok.»
Fu facile notare l'imbarazzo che gli fiorì sulle guance. «Che c'è?» gli chiese allora.
Doveva star pensando a qualcosa, ma Leo non riuscì minimamente a capire cose avesse acceso quel colore sul suo volto.
Dee si schiarì la voce. «Niente, lascia stare.»
Leo lo scrutò, curioso. «No, dimmi a cosa stai pensando» insistette, consapevole che sarebbe bastato poco per farlo cedere.
«Non farmelo dire, Leo, ti prego» gemette in una supplica imbarazzata. «Me ne vergogno da solo.»
«Avanti, Dee» lo incitò, divertito. «Direi che ormai sono abituato a quello che ti passa per la testa, non trovi?»
Dee rilasciò un sospiro impaziente e poi gesticolò nella sua direzione. «Il tuo letto» mormorò, senza guardarlo. «Non ci hai mai...» si interruppe, e scosse la testa. «Insomma... è... intoccato.» L'ultima parola la rilasciò così debolmente che Leo fece fatica a percepirla.
Leo aggrottò la fronte. «Intoccato?» ripeté, come se avesse sentito male. Dee, però, annuì. «In che... Oh.» Capì cosa aveva inteso, e non riuscì a trattenere la risata che lo scosse subito dopo. «Dee, ti eccita pensare che il mio letto è... cosa? Vergine?»
L'occhiata che gli rimandò Dee era colma di imbarazzo. «Non il tuo letto, ma l'idea che tu non abbia mai...» provò a spiegarsi, interrompendosi però per rilasciare un grugnito di impazienza. «Senti, lascia stare, è colpa del mio cervello che mi fa pensare a queste cose. Non lo controllo mica io.»
«Mm-mh, certo» ribatté, colmo di sarcasmo. «Beh, cervello di Anderson Wright Jr, si plachi pure. Il mio letto è tutt'altro che vergine.»
«Ti ho detto che non è il tuo...» Di nuovo, Dee non completò la frase. Aggrottò la fronte, confuso. «In che senso?»
Leo lo guardò divertito. «Dove pensi che mi masturbavo? In cucina?» gli chiese, ancora uno strascico di risata nella voce. «Il mio letto ne ha viste di cose, Dee. Pensa solo a tutti i porno che ho guardato mentre cercavo di capire qualcosa di me. L'ha persa da un pezzo, l'innocenza» aggiunse, dando qualche pacca al materasso.
Gli occhi di Dee si allontanarono di nuovo. «Giusto, non... non ci avevo pensato» replicò in un sussurro, facendosi passare una mano tra i capelli.
E Leo sorrise, perché capì, ora, ciò a cui stava pensando. Così continuò, perché era da mesi che non aveva la possibilità di stuzzicarlo in quel modo, non dal vivo, perlomeno. «Mettevo il computer qui» gli disse, dando un'altra pacca al materasso. «Sceglievo un video lungo, perché avevo bisogno di tempo, sai, per immergermici.» Lo sguardo di Dee tornò sul suo volto come se non fosse del tutto padrone del gesto. «Pensa, a volte mi concentravo così tanto sulla tecnica di quello che avevo davanti che neanche mi accorgevo della mia erezione. Così quando finiva dovevo tornare indietro per occuparmene.» Portò appositamente la mano sotto il lenzuolo. «Sceglievo lo spezzone che avevo trovato più interessante e facevo scivolare la mano...»
«Va bene, ok, ti sei spiegato perfettamente» bofonchiò Dee. «Grazie tante per avermi impresso nella testa questa immagine.»
Leo scoppiò a ridere e fece riemergere la mano. «Rimarrà per sempre un mistero come è possibile che proprio a me è capitato un ragazzo con la libido di un adolescente.»
Mentre gli faceva il verso, Dee tornò verso di lui. Si stese di traverso, le gambe fuori dal letto, così da posare la testa sulle sue ginocchia. «Taci, Leo Davis.»
La risata di Leo si ridusse a un sorriso e allungò un braccio per districare le sue ciocche bionde. «Ecco un'altra cosa che ti farebbe bene: imparare ad asciugarti i capelli.»
Dee incrociò le braccia sulle sue cosce e poi chiuse gli occhi. «Quell'aggeggio infernale non mi avrà mai, sai bene anche questo.»
Leo annuì, consapevole che fosse un'altra delle mille battaglie perse in partenza. Continuò ad accarezzargli i capelli umidi, restando in ascolto del suo respiro.
Il silenzio tornò a regnare sulla stanza, lassù non arrivava neanche un rumore della casa, e Leo vi si lasciò avvolgere, sereno.
Vedere Dee lì lo riempiva di una felicità che non avrebbe saputo mettere a parole. Era la prima volta che era nella sua stanza, eppure non provò neanche per un istante la sensazione che fosse fuori posto. Era come se ci fosse già stato, era come se non fosse niente di nuovo, era come se fosse sempre stato un luogo a cui avrebbe dovuto approdare.
Quel ragazzo di cui Leo aveva conosciuto l'esistenza ancora prima di incontrarlo, che era già entrato anni prima tra le pareti di quella camera come il nipote dei suoi idoli teatrali; quel ragazzo verso cui aveva provato alle volte invidia, che era sempre sembrato una presenza astratta quanto quella dei suoi nonni, era ora lì a toccare con mano, e a fare proprio, il suo spazio.
Anderson Wright Jr apparteneva al mondo di Leo Davis senza un singolo dubbio.
Dee apparteneva a Leo senza un singolo dubbio.
E Leo apparteneva a lui nello stesso, totalizzante modo.
«Sai cosa non mi hai mai detto?» sussurrò Leo per non disturbarlo, in caso si fosse appisolato di nuovo.
«C'è qualcosa che non ti ho mai detto?» rispose invece prontamente lui, la voce traboccante di sarcasmo. «Perché a me sembra che ti dica anche cose che farei meglio a non dirti.»
Leo gli picchiettò le nocche sulla fronte e poi disse: «Come hai capito di essere bisessuale».
Dee risollevò le palpebre e raddrizzò il viso, poggiando il mento tra le sue ginocchia, per guardarlo. «Oh» mormorò, come stupito dalla sua domanda. «Non credo che... Non lo so, credo di averlo sempre saputo, solo che non sapevo avesse un... nome?» Arricciò le labbra, pensieroso. «Voglio dire, alle materne avevo una fidanzatina e un fidanzatino.»
Leo inarcò un sopracciglio. «Nello stesso momento?»
«Che vuoi farci, ero un dongiovanni prima di incontrarti, Leo Davis.»
Leo fu scosso da una piccola risata. «Giusto, ingenuo io.»
Dee gli rivolse un ghigno. «Ad ogni modo, non mi sono mai fatto una domanda di troppo. Era naturale, lo è rimasto anche mentre crescevo. Guardavo sia le ragazze, sia i ragazzi» gli spiegò, stringendosi nelle spalle. «Se mi chiedi quando ne ho preso coscienza... ti direi probabilmente a quattordici anni.»
«Come?» gli chiese, curioso di conoscere quella storia.
«Ero a una festa con alcuni compagni di scuola, e quali quattordicenni degni di questo nome non giocano a sette minuti in paradiso?»
«Io» puntualizzò Leo. «Non ci ho mai giocato.»
Dee lo guardò divertito. «La cosa in effetti non mi sorprende.»
Leo fece una smorfia. «Sette minuti in paradiso? Spiegami cosa c'è di paradisiaco nello stare chiuso in uno sgabuzzino con qualcuno per sette minuti» gli disse, portando le mani a quelle di Dee per giocare con le sue dita. «All'inferno, semmai.»
Dee scoppiò a ridere, e poi gli chiese: «Il gioco della bottiglia?».
«Neanche» ribatté, esibendosi in un'altra smorfia. «Forse anche peggio. Almeno nello sgabuzzino nessuno vede cosa fai.»
«Le sfide del gioco della bottiglia non sono però per forza qualcosa di fisico» considerò Dee.
«Come se le altre opzioni siano meglio» replicò, con orrore. «Ti obbligo a dire a tutti chi ti piace» aggiunse, imitando la voce stridula di un adolescente.
Le iridi di Dee luccicarono di malizia quando disse: «Dobbiamo rimediare».
«Vuoi farmi giocare al gioco della bottiglia?» gli domandò, inarcando un sopracciglio.
Dee annuì. «Io e te, ci possiamo inventare i nostri comandi...» Fece scorrere gli occhi sul suo corpo. «Per esempio... Leo Davis, ti obbligo a toglierti quella maglietta.»
Leo gli rivolse un'occhiata esasperata. «Ed ecco la libido di un quattordicenne» replicò, dandogli un pizzicotto sul braccio. «Continua.»
Dee rilasciò un verso insoddisfatto, ma poi riprese il suo racconto. «Sono finito con un ragazzo nello sgabuzzino e, beh, per il me quattordicenne sono stati veramente sette minuti paradisiaci» gli spiegò, un solo angolo delle labbra sollevato in un ghigno. «O forse cinque, considerando il tempo che ci abbiamo messo ad ambientarci.»
Leo sgranò gli occhi. «Vi siete baciati davvero?»
Dee acconsentì con un vocalizzo. «È stato il mio primo vero bacio, sai, con la lingua e mani curiose sul corpo dell'altro. E, in tutta sincerità, un'erezione per niente male.»
«E poi?» indagò Leo, curioso. «Come ti sei sentito?»
Dee si strinse di nuovo nelle spalle. «Normale, non ne sono impazzito e non ho avuto nessun esaurimento nervoso al riguardo. Sono uscito da lì come se non avessi fatto qualcosa che mezzo mondo ritiene... abominevole? Per me è sempre stato naturale.»
Leo annuì, cercando di nuovo una sua mano per giocare con le sue dita. «È poi successo altro con questo ragazzo?»
«Con Mads? No, per carità. Lui sì che ha avuto un esaurimento nervoso. Non mi ha neanche più guardato in faccia.»
«Oh» mormorò Leo, ricercando i suoi occhi. «Mi dispiace.»
«A me no» ribatté, sereno. «Voglio dire, il dopo non è stato molto piacevole, ma ho un bellissimo ricordo del bacio. E comunque ero così sicuro di quello che sentivo e di cosa fosse giusto per me che non mi ha fatto sentire sporco, o sbagliato, il modo in cui mi ha trattato dopo quella sera. Ho capito subito che stava combattendo con sé stesso, perché gli era piaciuto parecchio, fidati. Non era colpa mia, non avevo fatto niente di sbagliato.»
Leo lo guardò con la stessa serenità. «Così hai avuto altre esperienze con qualche altro ragazzo?»
«Sì, durante i miei quindici anni» confermò, arricciando le labbra pensieroso. «Con il figlio di una collega di mia madre, che veniva spesso a casa nostra. Più che altro strofinamenti vari da sopra i vestiti e mani a vagare tra le mutande» gli disse, gli occhi ora persi come se stesse rincorrendo quei ricordi. «E poi c'è stata...» si interruppe, come insicuro di poterla nominare.
«Lucy Elderry» concluse quindi per lui, con quel pizzico di fastidio che provava ogni volta che parlavano di lei.
La stupida e insensata gelosia che provava nei confronti di quella ragazza non era mai passata.
«Mh» mormorò Dee, come a voler confermare. «Ed è stato tutto naturale anche con lei. Quindi insomma, lo sapevo e basta. Nessuna grande realizzazione.»
Leo tornò a guardarlo e annuì piano. Non era un sentimento in cui avrebbe potuto ritrovarsi, lo sapevano entrambi. Era indubbio che nell'ultimo anno avesse scoperto molto di sé stesso, ma non poteva negare che ogni tanto ancora ci pensava, che ancora si perdeva in quei ragionamenti che erano partiti proprio a quell'età per cui Dee invece era stato subito chiaro.
Aveva capito di essere asessuale, aveva capito di essere demiromantico, aveva capito di non essere etero. E forse gli sarebbe dovuto bastare: dal non sapere niente di sé, alle consapevolezze che aveva raggiunto, avrebbe dovuto ritenersene soddisfatto. Eppure continuava a pensarci, come se ci fosse una parte di sé ancora troppo vaga che desiderava mettere a fuoco.
«Credo di essere gay.»
Dee strabuzzò gli occhi, colto probabilmente di sorpresa da quell'improvvisa confessione, ma subito dopo gli disse: «Va bene».
«O meglio, omoromantico, considerando che l'attrazione sessuale non la provo neanche per i ragazzi» si corresse. «Però... Più ci penso, più mi rendo conto di aver provato attrazione romantica solo per lo stesso sesso» continuò, portando lo sguardo alle loro mani intrecciate. «Simon, tu, ma anche Jo, in un certo senso...»
«Hai una cotta per Jo?» La domanda di Dee uscì tranquilla, ma Leo notò che il suo sorriso perse un po' di stabilità.
«Non ho una cotta per Jo» chiarì in fretta. «Ma... Non è un segreto che mi sarebbe piaciuto vivere con lui a New York, dopo la GVU» gli spiegò, perché Dee lo sapeva benissimo che, prima della decisione del suo amico di trasferirsi lì a Londra, erano stati quelli i loro piani. Così come non era un segreto che quando Jo aveva comunicato della sua partenza, Leo non l'aveva presa benissimo. Ci aveva messo del tempo per farne i conti. Non era stato distrutto quanto lo era stato con Simon, quanto lo sarebbe stato con Dee, ma lasciarlo andare era stato comunque difficile. «Lo so che Jo è allo ed etero, e che non sarebbe durata, ma non mi sarebbe dispiaciuto condividere la mia vita con lui. Lo amo, platonicamente. Ne sarei stato quindi felice. Mentre... prendi Trix. Lei si è trasferita a New York, no? Le voglio bene e la considero una carissima amica, ma non mi è mai passato per l'anticamera del cervello di chiederle di andare a convivere insieme. Non mi sarei sentito a mio agio a condividere così tanto della mia vita con lei. È per questo che penso di essere omoromantico, non ho mai provato un briciolo di interesse romantico per le ragazze. Ha senso?»
Dee non gli rispose subito, considerò le sue parole per diversi istanti. «Ha senso, sì» gli disse poi. «Ma anche se non l'avesse per me, l'importante è che l'abbia per te, Leo.»
Leo annuì. «Credo che l'abbia» mormorò, umettandosi le labbra. «Voglio dire, non credo che potrò mai esserne sicuro al cento percento, però al momento lo sento più mio rispetto a panromantico o biromantico.» Poi tirò la mano di Dee che stava stringendo, invitandolo ad avvicinarsi. Quando lo fece, scivolando in su sul suo corpo, Leo aggiunse: «E l'unica persona a cui sono romanticamente attratto sei tu, Anderson Wright Jr». Gli occhi di Dee si illuminarono della solita luce solare. «Ti è chiaro, vero?»
«Mi è molto chiaro» sussurrò Dee, e poi si raddrizzò, sedendosi sulle sue ginocchia.
«Dove vai?» si lamentò Leo, che aveva avuto intenzione di stringerlo ancora.
«A lavarmi i denti, perché ti voglio baciare come si deve, dato che da quando ci siamo incontrati in aeroporto non ho veramente avuto modo di farlo, ma qualcuno qui ha quella regola teeth before kissing.»
«Un qualcuno molto saggio» replicò divertito Leo. «Ma se scendi in bagno si accorgeranno che siamo svegli.»
Dee gesticolò in aria. «Questo non toglie il fatto che potrò tornare in camera con la scusa di vestirmi e baciarti finalmente come dico io.»
Leo fece un cenno verso il basso. «Hai un'evidente erezione, Dee.»
«Mi sono risvegliato accanto a te dopo due mesi che non ti vedevo» gli fece notare, scoccandogli un'occhiata. «Mi sembra il minimo da un ragazzo con la libido di un quattordicenne, no?» ironizzò.
Leo lo guardò come se avesse detto qualcosa di ovvio, poi incrociò le braccia dietro la testa. «Masturbati.»
Dee roteò gli occhi. «Era mia intenzione farlo, ma non ci tenevo a farti sapere che mi sarei masturbato nel tuo bagno di famiglia a un passo da tutti loro.»
Leo scosse lentamente la testa. «No, fallo qui, davanti a me, sul mio letto.» Dee si immobilizzò, lo sguardo all'improvviso serio nel suo. «Avanti, toccati» lo incitò, arricciando le labbra in un ghigno.
«Cosa stiamo facendo, esattamente, Leo Davis?» gli domandò, la voce in un sussurro roco.
Leo fece schioccare le labbra tra loro. «Una variante del gioco della bottiglia.»
«E fammi indovinare» disse Dee, gli occhi calamitati nei suoi. «In questa variante, la bottiglia finisce sempre su di me e sei l'unico che può darmi ordini?»
«Sei perspicace» lo prese in giro. «Su, ti obbligo ad accarezzarti da sopra i boxer.»
Dee lo squadrò per un altro istante, ma poi fece quanto gli aveva detto; fece scivolare la mano all'interno dei pantaloncini in cui aveva dormito, e Leo vide il movimento che iniziò a portare avanti sotto la stoffa.
Lo lasciò fare per qualche secondo, prima di impartire il nuovo ordine. «Stringilo e strusciati contro la tua mano.»
E Dee fece anche quello. La mano si fermò, e iniziò a muovere il bacino.
Leo gli diede un comando dietro l'altro, che Dee eseguì senza mai lamentarsene.
Quando lo invitò a farsi strada nei boxer e a prenderlo in mano, Dee chiuse gli occhi e si morse le labbra.
«Guardami, Dee» lo riprese subito. Dee lottò per qualche istante contro le palpebre abbassate dal piacere, e poi le risollevò, puntando quello sguardo affamato su di lui. «Bravo.»
E Leo continuò, senza mai lasciarlo cadere dal suo volto.
Gli disse di andare lento, e poi veloce, e di nuovo lento. Gli disse cosa toccare con fermezza e cosa sfiorare solo con le punte delle dita. Gli disse di avvolgere strettamente il pugno attorno alla sua erezione e di muovere il bacino immaginando di star penetrando lui. Gli disse come roteare i fianchi e impostare il ritmo. Gli disse di non lasciarsi scappare neanche un gemito.
Si prese il suo tempo, gli fece fare tutto quello che sapeva amava gli facesse lui, lo guidò con calma verso la meta che desiderava raggiungere. E quando ci arrivò, con il fiato appesantito di chi si è impegnato fin troppo a tenerlo sotto controllo, Leo gli concesse di chiudere gli occhi per fargli ritrovare il controllo di sé.
Rimase così in silenzio ad ammirare il suo viso arrossato, i denti ancora affondati nel labbro inferiore, a malapena visibile, il suo petto mentre cercava di ritrovare i normali ritmi di lavoro, la mano sporca di sperma che gli giaceva ora sul grembo.
«Grazie» gli disse Dee, quando riaprì gli occhi istanti dopo. «Avevo bisogno di farlo con te.»
Leo gli sorrise, dolce. «Lo so.»
«Vuoi... anche tu?»
Leo scosse la testa, e staccò la schiena dal muro per chinarsi su di lui. Gli lasciò un bacio all'angolo della bocca. «No, scendiamo a lavarci i denti» gli sussurrò poi sulla pelle accaldata.
Perché anche io non vedo l'ora di baciarti come si deve.
*
«Rain, piantala!»
Leo si voltò sullo sgabello per gettare un'occhiata a suo fratello quando Sun alzò gli occhi dal suo blocco da disegno per riprenderlo esasperata.
«Non sto facendo niente!» si lamentò lui.
Aveva le mani in alto come nella posa di chi vuole dimostrare la sua innocenza, ma Leo sapeva quello che stava nascondendo dietro la schiena. Sul ripiano della cucina a cui si era avvicinato, Leo aveva posato la ciotola di patatine che aveva appena tolto dalla friggitrice ad aria.
«Hai una seria dipendenza da quelle cose, lo sai?» gli chiese Leo.
Rain gesticolò in aria e si avvicinò all'isola dove lui e Sun erano seduti da tempo; lei a disegnare lo sketch di un vestito, lui a controllare l'arrosto nel forno, entrambi a farsi compagnia.
«Ognuno ha la sue» decretò con frivolezza suo fratello. Si appoggiò sul piano con le braccia e si chinò per sorreggersi il mento tra le mani. «Sei consapevole che nostra madre ha preso in ostaggio il tuo ragazzo in salotto?»
Leo annuì. «Se la sta cavando?»
«Mi è sembrato ancora tutto intero.»
Sua madre l'aveva trascinato via dalla cucina mezz'ora prima, lasciando lui lì con il compito di tenere d'occhio la cena. Li sentiva parlottare, ma non capiva cosa si stessero dicendo. Dai loro toni tranquilli e dalle risate che ogni tanto tagliavano l'aria, Leo era sicuro che Dee non avesse bisogno del suo aiuto.
«A posto, allora.» Leo tornò a fronteggiare l'isola. «Dicevamo» si rivolse a Sun, riprendendo la conversazione che Rain aveva interrotto con il suo arrivo. «Nessuna ragazza che ti ronza attorno?»
Rain fece un verso di scherno. «Le piacerebbe.»
Sun alzò gli occhi dal disegno. «Anche a te» ribatté, la voce pregna di ironia
Rain si fece passare una mano tra i capelli ricci per tirarseli via dal viso. Se li era fatti crescere, gli arrivavano quasi alle spalle. «Per niente, io sono uno spirito libero.»
Sun inarcò un sopracciglio. «Sicuro, Raya.»
Le guance di suo fratello si arrossarono. «Ti odio» borbottò.
La sua reazione lo incuriosì, così chiese svelto: «Chi è Raya?».
«Nessuno» si affrettò a rispondere lui.
«Una ragazza della nostra scuola» disse invece Sun. «Rain le muore dietro da mesi, ma lei non se lo fila.»
«Non darle retta» insistette Rain, guardandolo con un'aria quasi supplichevole. «Non sa quello che dice.»
Fu Sun questa volta a rilasciare un verso sarcastico. «Nei tuoi sogni.»
«Raya, eh?» chiese Leo.
Rain si affrettò a scuotere la testa, in evidente imbarazzo. «Il mio è un cuore libero, solo settimana scorsa sono uscito con una ragazza...»
«Chi, Lia?» lo interruppe divertita Sun, nominando la migliore amica di Rain.
«Non Lia» precisò lui, infastidito. «Una ragazza, ma non bacio per poi raccontarlo in giro» continuò, raddrizzandosi per recuperare un bicchiere dalla madia. Tornò verso l'isola e se lo riempì dell'acqua della caraffa che se ne stava lì tra di loro. «E ci siamo divertiti parecchio, per vostra informazione» concluse, come se volesse dimostrare qualcosa.
Leo, pensieroso, guardò il sorriso ammiccante di Rain, e poi Sun, che stava scuotendo la testa esasperata.
Si sorprese, come sempre si sorprendeva, di quanto fossero cresciuti. Si chiese se si sarebbe mai arreso all'evidenza che non erano più dei bambini, o se sarebbero sempre rimasti tali nella sua testa. Forse, da fratello maggiore, non sarebbe mai riuscito a vederli in modo diverso dai fratellini di cui si era sempre preso cura.
Avevano sei anni di differenza, Leo li ricordava fin dal giorno della loro nascita.
Ma quella discrepanza tra chi erano stati e chi erano adesso era solo nella sua testa: nella teoria delle cose, era ben consapevole che tra un paio di settimane avrebbero compiuto diciotto anni, che mancava loro solo un anno di liceo e che presto si sarebbero avventurati nel mondo dei giovani adulti. Era solo naturale, quindi, che stessero facendo le loro prime esperienze.
Così si schiarì la voce e domandò: «Rain, hai fatto sesso?».
Rain, che stava bevendo l'acqua, quasi si strozzò quando sentì la sua domanda. Allontanò in fretta il bicchiere dalle labbra e tossicchiò. «Eh?»
«Hai già fatto sesso con qualcuno?» chiese di nuovo. Rain lo fissò con le labbra schiuse, le palpebre spalancate. «Che c'è?» continuò Leo, confuso. «Devo fingere che hai ancora dodici anni? Tra due settimane ne compirai diciotto.»
Gli dispiaceva pensare che si sarebbe perso il diciottesimo compleanno dei gemelli solo per una manciata di giorni. April, però, aveva organizzato una festa a sorpresa anticipata per quella settimana, così che potessero festeggiare tutti insieme in famiglia, con anche i loro nonni e parenti vari.
L'ansia di Dee per quella giornata era ai massimi storici.
Rain puntò un dito verso Sun. «Le hai fatto la stessa domanda?»
Leo gettò uno sguardo a sua sorella, che aveva ripreso a disegnare con le labbra arricciate in un ghigno divertito. «No, perché Sun è assennata e so che sa come fare sesso sicuro» rispose, ritornando a guardare lui, che era tutto rosso in viso. «Non c'è niente di cui vergognarsi, è una cosa naturale. Voglio solo essere certo che lo fai nel modo giusto.»
Rain prese un sorso d'acqua, poi mormorò: «Sto... attento».
«Ottimo, bravo» ribatté Leo.
Rain gli scoccò un'occhiata imbarazzata. «Ho fatto sesso solo una volta, e non è stata neanche un'esperienza così memorabile» sussurrò, rigirandosi il bicchiere tra le mani. «Anche se dubito che la prima volta sia davvero fantastica per qualcuno.»
Leo ripensò alla sua prima volta di sesso penetrativo. Non la considerava memorabile – riteneva che con Dee avesse avuto tantissimi momenti degni di nota, nella loro relazione, e il sesso non rientrava tra quelli –, ma non poteva negare che era stata piacevole e molto naturale. Non si premurò di dirlo a Rain, ma gli chiese: «Hai guardato un po' cosa fare?».
Rain aggrottò la fronte. «In che senso?»
«Hai fatto ricerche per capire cosa piace alle ragazze, su come comportarsi durante...»
«No, Leo» lo interruppe Rain, quando dovette capire cosa intendeva. «Non ho fatto ricerche su come fare...» Scosse la testa, l'imbarazzo di nuovo ad arrossargli le guance. «Ok, possiamo cambiare discorso, per favore?»
Leo si strinse nelle spalle. «Come vuoi, dico solo che informarsi è utile, tutto qui.»
«Ne terrò conto» borbottò lui. Recuperò il cellulare dalla tasca dei jeans e lo mise sull'isola. «Piuttosto... ho finito una canzone ieri, ti va di ascoltarla?»
Leo gli sorrise incoraggiante. «Certo.»
Rain annuì piano e poi sbloccò il telefono per cercare tra le registrazioni.
Tra i quattro figli dei Davis, solo April aveva ereditato la loro mente scientifica. Aveva scelto di perseguire la stessa carriera dei loro genitori non per un senso di dovere o un qualche tipo di obbligo. Fin da bambina, era stata affascinata dalle materie scientifiche, dal funzionamento del corpo umano, dagli esperimenti, dalla biologia. Erano le uniche discipline che l'avevano sempre interessata, e aveva capito presto che desiderava diventare un chirurgo.
Lui, Sun e Rain avevano sempre avuto, invece, spiriti artistici.
Leo con il teatro e la recitazione.
Sun con l'interesse per la moda e la creazione di abiti.
Rain con la musica e le parole.
Dopo la fine della scuola, entrambi avevano intenzione di perseguire le loro passioni.
Sua sorella voleva entrare al London College of Fashion per diventare una stilista.
Suo fratello era ancora insicuro di cosa avrebbe fatto una volta uscito dalle superiori, non sapeva se iscriversi a un'università di Belle Arti con la specializzazione in Musica, o se tentare fin da subito di buttarsi sull'industria musicale. Aveva da anni un canale YouTube abbastanza seguito. Leo sperava che qualcuno, prima o poi, lo avrebbe scovato. Se lo meritava davvero.
La registrazione partì.
Per i primi secondi, nella cucina si diffusero le note dolci del pianoforte. Rain lo suonava fin dalla tenera età, mentre aveva imparato a padroneggiare la chitarra solo in tempi recenti. Poi si aggiunse la sua voce delicata. Aveva un timbro che Leo oggettivamente amava. Gli piaceva molto, ascoltarlo cantare.
Si concentrò sulle parole, delicate quanto la musica in sottofondo, che portarono la mente di Leo attraverso una storia di un amore non ricambiato e la riempirono di quei sentimenti che nascono dal desiderio di essere visti.
Da delicata, la voce si faceva poi graffiante nei ritornali, per ridursi alla fine quasi a un sussurro sull'orlo delle lacrime durante il bridge.
Era bellissima.
Bellissima e sentita.
Quando la canzone finì, Leo riportò lo sguardo su Rain, che aveva il suo basso sul telefono. La sua espressione traboccava di aspettative.
«Oh, Rain» sospirò Leo, mettendogli una mano sulla spalla. «Sei davvero innamorato.»
Sun, che aveva smesso di disegnare per ascoltarla allo stesso modo – nonostante Leo fosse sicuro che era stata la prima persona con cui Rain l'aveva condivisa –, sorrise sardonica. «Te l'ho detto.»
Rain fece passare lo sguardo allibito tra di loro. «Non sono...» si interruppe, di nuovo colmo di imbarazzo. «Non vi farò ascoltare più niente» aggiunse, bloccando il telefono. «Quando te ne torni a New York, Leo?»
Leo scoppiò a ridere, e fu sulla sua risata che Dee tornò in cucina, seguito subito dopo da sua madre. Entrambi avevano dei sorrisi raggianti sui volti.
«Leo, questa foto è appena diventata la mia foto preferita di sempre!» esclamò, avvicinandosi a lui.
Leo aggrottò la fronte. «Che foto?» chiese, sospettoso.
Dee gliela sventolò davanti agli occhi, e Leo la prese per guardarla.
Era una foto che lo ritraeva sulla riva di una spiaggia della Sardegna, la regione italiana dove sua nonna Aurora era nata e cresciuta fino ai sei anni, prima che i suoi genitori si erano dovuti trasferire a Londra per lavoro. Aveva vissuto tutta la sua vita in Inghilterra, ma era rimasta molto attaccata alla sua terra d'origine nonostante non conservasse chissà quali grandi ricordi della sua infanzia lì. Quando erano stati piccoli, era capitato spesso che vi avesse portato i suoi nipoti per una vacanza estiva.
Nella foto, Leo doveva avere circa cinque anni. Era in costume, seduto dove la sabbia si mischia all'acqua salata del mare. Aveva due voluminosi braccioli gialli, come il suo costume. Un ridicolo cappello gli copriva la fronte, e degli altrettanti ridicoli occhiali da sole nascondevano metà del suo volto. In una mano, teneva una paletta per la sabbia. Davanti a lui, c'era quello che doveva essere un castello, ma che era più un obbrobrio incomprensibile.
«Mamma!» si lamentò. «Hai davvero tirato fuori gli album fotografici?»
«Certo che sì» ribatté lei, fiera del suo operato. «Per chi mi hai preso?»
Leo guardò in direzione di Rain, esasperato. «Perché non me l'hai detto?»
Rain si strinse nelle spalle. «Mi hai chiesto se se la stava cavando, non cosa stessero facendo.»
«Guarda come sorridi» continuò Dee, indicando il suo sorriso sdentato. «Vorrei metterla nel portafoglio ma è troppo grande» considerò, per poi guardare sua madre. «Ti dispiace se la prendo in prestito? Cerco di farmi fare una copia rimpicciolita.»
«Prendila pure, caro» rispose lei, in tutta tranquillità. «Te la regalo.»
Leo, invece, scosse la testa. «Non la vedrai mai più, Dee. Figurati fartela portare in giro nel portafoglio.»
Dee gli scoccò un'occhiata malevola. «Leo Davis, ridammela.»
«No» ribatté, mentre se la portava dietro la schiena per farla sparire nella tasca dei suoi jeans.
Ma Rain, dietro di lui, gliela tolse dalle mani e la ripassò a Dee, prima che Leo potesse anche solo rendersene conto. «Ecco a te, Dee.»
Dee gli sorrise smagliante e se la portò protettivo al petto. «Grazie, Rain Davis.»
Rain diede una pacca sulla spalla di Dee, e poi guardò lui, rivolgendogli un sorriso angelico quando incontrò lo sguardo omicida con cui lo stava guardando.
«Ragazzi, papà sta tornando» intervenne loro madre, riportandoli all'ordine. «Apparecchiate, dai.»
John era uscito mezz'ora prima alla ricerca di una torta di fragole e panna, perché mentre parlavano di quale tipo di dolce avrebbero potuto recuperare per quella sera aveva capito che era quello preferito di Dee.
Dee aveva provato a dire che non c'era alcun problema, che avrebbero potuto comprare quello più comodo e facile da trovare, ma i suoi genitori avevano ribattuto: No, hai detto che lo mangi ogni mattina a colazione. Che ospiti saremmo se non ti facessimo trovare quello che mangi a colazione?
Il luccichio che aveva visto negli occhi di Dee gli aveva fatto credere che si stesse quasi per mettere a piangere.
Sun chiuse il blocco da disegno. «Tocca a Rain apparecchiare» disse, indicandolo con un dito.
Rain se ne puntò uno al petto. «Come è possibile che tocca sempre a me?»
«Ma per favore» replicò Sun, esasperata. «Non fai mai niente!»
I gemelli iniziarono uno dei loro litigi di routine, mentre Dee si offriva di mettere la tavola, se solo gli avessero detto dove trovare tutte le cose necessarie.
«Non ti azzardare» lo minacciò sua madre, spingendolo per le spalle per invitarlo a prendere posto su uno degli sgabelli liberi. «Non ho partorito quattro figli per poi far fare le faccende domestiche agli ospiti» aggiunse, severa. Diede un colpetto sulla testa di Rain. «Apparecchia.» Rain sbuffò, ma poi si avvicinò al cassetto dove tenevano le tovaglie. «Sun, tira fuori l'arrosto dal forno.» Lo sguardo di sua mamma si spostò poi su di lui. «Leo, mi viene ad aiutare attimo di là? Ti dispiace, Dee?»
Dee scosse la testa. «No, certo.»
Rain cinse le spalle di Dee con un braccio. «Nessun problema, ci pensiamo noi a tenergli compagnia. Ho un sacco di cose da raccontare che delle foto non possono fare.»
Leo gli puntò un dito contro in avvertimento. «Sun, controllalo.»
Sua sorella fece un verso di assenso, e Leo seguì sua madre fuori dalla cucina. Attraversarono lo stretto corridoio che portava alla porta di ingresso e alle scale per i piani superiori, ed entrarono nello spazioso salotto.
Sul tavolino tra il divano e la televisione, c'erano una marea di foto e alcuni album fotografici. Leo sospirò esasperato nel vedere quanta roba aveva tirato fuori, e poi vi andò incontro, pensando che fosse quello che sua madre voleva che l'aiutasse a sistemare.
Ma Beth lo fermò prima che potesse anche solo raccoglierne una. «No, lascia stare» gli disse, e nel suo tono sentì un pizzico di esitazione. «Siediti un attimo.»
Leo la guardò confuso, ma poi prese posto sul divano. Lei non lo imitò, rimase in piedi e si allontanò da lui per avvicinarsi alla libreria.
«Tutto bene?» le chiese, scrutando il suo volto tirato. Stava sorridendo, ma Leo notò l'insicurezza sulle sue labbra. «È successo qualcosa?» aggiunse, preoccupato.
Sua mamma si affrettò a scuotere la testa. «No, non è successo niente.»
«Ok» mormorò, allentando la presa delle sue mani. Neanche si era accorto che aveva iniziato a stritolarsele. «Che c'è?» la incitò, per poi iniziare a provare un altro tipo di ansia. «C'entra... Dee?»
«No, tesoro, no» lo rassicurò, precipitosa. «Dee è un ragazzo meraviglioso. Sono così contenta che tu l'abbia trovato.» Sospirò, e poi si ravviò i capelli chiari. «Non sono sicura che sia il momento migliore, non sono neanche sicura che ci sia un momento giusto ma...» I suoi occhi si erano ora come spenti. «Me la sto tenendo per me già da cinque mesi, ed era facile trovare una scusa quando eri lontano, ma ora sei qui e non posso più fare finta di niente.»
Questa volta, Leo incrociò le braccia al petto e si conficcò le dita nei bicipiti. «Mi stai preoccupando.»
Beth prese un piccolo libro dalla libreria, poggiato orizzontalmente sugli altri impilati invece verticalmente, come se non fosse quello il suo vero posto ma solo una sistemazione di passaggio. «C'è una parte di me che non vuole dartela» riprese sua mamma, mentre Leo provava a scrutare il libro per capire cosa fosse. «Ho pensato di non dartela, ma so che non sarebbe giusto. Devi scegliere tu cosa fare.»
Leo strabuzzò gli occhi, quando lei girò il libro tra le mani e riuscì a leggere il titolo.
Aspettando Godot.
Non era la sua copia, che era a New York, e da quel che ne sapeva in casa non ce n'era mai stata una seconda.
Riportò con uno scatto lo sguardo in quello di lei, ma non lo stava più guardando. «Mamma?» la richiamò a bassa voce.
Lei annuì, ma Leo notò la fatica che gli costò riaprire le labbra. «Qualche mese fa, i genitori di Simon hanno deciso di...» Riportò lo sguardo nel suo, una dolce espressione che non riuscì però a tranquillizzarlo. «In tutti questi anni, non hanno mai trovato il coraggio di... pulire... la sua stanza.» Leo deglutì, e la sua mente volò lì, a quella camera che conosceva quanto la propria. Il pensiero che per tutto quel tempo fosse rimasta identica a come la ricordava, preservata come un mausoleo di dolore, gli strinse lo stomaco. «Hanno... Era arrivato il momento» continuò, il più possibile delicata. «Stavano mettendo via i suoi libri, quando in questo...» Lo aprì, e Leo quasi iniziò a piangere quando capì di chi era quella copia. Gliela aveva regalata lui, sottolineandovi alcuni dei suoi passaggi preferiti, proprio come aveva fatto con la sua. «Hanno trovato questa.»
Leo focalizzò gli occhi su quello che sua madre aveva tolto dalle pagine del libro. Era una busta da lettere, rigonfia. «Cos'è?» chiese, o pensò di chiedere.
Sua madre lasciò il libro su uno scaffale e andò da lui. «Una lettera, probabilmente. C'è il tuo nome, l'indirizzo di casa e un francobollo» gli spiegò, passandogliela, anche se con esitazione. «Credono... Credono che avesse avuto intenzione di spedirtela prima di andare in aeroporto.»
Leo guardò la busta, ma non sciolse la stretta dalle braccia per prenderla. Vedere la grafia di Simon dopo tutti quegli anni fu un colpo sordo al cuore. L'idea che lì dentro ci fossero delle parole per lui gli conficcò degli spilli nello stomaco. La certezza che fosse rimasta per cinque anni in attesa di essere letta gli strizzò l'animo.
Gli occhi gli si inumidirono e li rialzò in quelli comprensivi di lei. «Mamma» la supplicò, la voce al limite del pianto, senza neanche sapere per cosa la stesse pregando.
Falla sparire.
No, dammela.
No, torna indietro nel tempo e non dirmelo.
No, io...
«Dimmi cosa vuoi che faccia, tesoro» disse svelta lei, mantenendo però il tono di voce il più possibile delicato. «La devo stracciare? Te la devo conservare per un altro momento? La devo aprire per te?»
Leo scosse la testa, per poi dire, sincero: «Non lo so».
Non lo sapeva. Non aveva idea di cosa volesse.
Era stato colto di sorpresa, non si era mai immaginato una possibilità del genere. Aveva fatto i conti che la sua storia con Simon non avrebbe mai avuto una conclusione. Aveva accettato che non avrebbe mai avuto una risposta alle sue domande.
E ora c'era una lettera per lui.
Una lettera che Simon non aveva avuto il coraggio di dargli a mano.
E se in quella busta sigillata c'era quello che voleva sapere da anni?
E se, invece, non era niente di tutto quello?
Se sarebbero state le ennesime parole che non avrebbero fatto altro che alimentare i suoi dubbi?
Sua madre gli fece passare una mano sulla guancia, asciugando lacrime che neanche si era accorto di star versando. «Ti chiamo Dee?»
«No» si affrettò a dire, uno stridulo che tagliò l'aria. «No» ripeté, con più calma, tirando su con il naso.
Per far cosa?, pensò. Piangere sul suo grembo per un altro ragazzo?
Eppure... lo voleva. Voleva la presenza rassicurante di Dee lì accanto a lui. Voleva chiedergli cosa fare. Voleva parlarne con lui, capire con lui, piangere lacrime che non avrebbe mai giudicato.
Ma era il loro primo giorno lì insieme. Era il loro primo giorno insieme dopo mesi. E Leo riusciva a sentire la risata di Dee diffondersi dalla cucina. Era felice. Era spensierato. Era, per la prima volta dopo giorni di ansie a pesare sulle sue spalle all'idea di come la sua famiglia lo avrebbe accolto, sereno.
Non posso rovinargli questo momento.
La porta d'ingresso si aprì, e un attimo dopo la voce di suo padre riempì il silenzio in cui erano caduti lui e sua mamma. «Operazione torta riuscita!» esclamò, allegro. Dovette notarli mentre passava per raggiungere la cucina, e Leo sentì i suoi passi alle sue spalle. «Che fate?» domandò, raggiungendoli.
Né lui, né sua mamma gli risposero, e dopo qualche secondo sentì la mano di suo papà posarsi sulla sua nuca. Un gesto di conforto, che in Leo aprì un'altra voragine nel petto.
Non disse niente, nessuno di loro disse niente per un tempo imprecisato, e Leo chiuse gli occhi per cercare di fermare le lacrime, per allentare il dolore che sembrava starlo aprendo in due, per sbrogliare il nodo alla gola che gli rendeva difficile respirare.
A fatica, recuperò diversi profondi respiri, ancorandosi al peso della mano di suo padre sulla testa e a quella di sua madre sul ginocchio.
Sono qui.
Sì, era a casa sua, non nella fredda camera mortuaria di un ospedale, non in una chiesa buia colma di gente, non in un cimitero il cui silenzio era rotto da singhiozzi.
Sono qui.
Quando risollevò le palpebre, prese la busta dalle mani di sua madre senza neanche guardarla. Cercò di non dare attenzione al gesto, cercò di non pensare che stesse toccando la carta che anche Simon aveva toccato, cercò di non pensare al contenuto che nascondeva.
Non adesso.
Si alzò in piedi e se la fece scivolare nella tasca posteriore dei jeans. Poi si fece passare le mani sulle guance, asciugò ogni traccia del suo pianto, tossicchiò per ritrovare la voce e poi disse: «Andiamo a mangiare».
Guardò i volti dei suoi genitori, vide gli sguardi colmi di dispiacere, notò l'occhiata esitante che si scambiarono, ma poi annuirono, senza aggiungere altro.
Leo fu il primo a lasciare la sala, cercando di mantenere i suoi passi sicuri.
Gli fu difficile; la lettera nella sua tasca sembrava pesare quanto un masso legato alla sua caviglia, e lui lottò con tutte le sue forze per non affondare nell'acqua gelida in cui l'aveva buttato.
Cosa mi dovevi dire, Simon, che non potevi fare a voce?
*
Erano le otto di sera passate, e il cielo, libero da nuvole, si stava preparando per un luminoso tramonto.
Dopo cena, lui e Dee avevano deciso di uscire per fare una passeggiata per il quartiere che aveva visto crescere Leo; avevano iniziato a camminare prendendo subito la direzione del Tamigi, così da raggiungere l'Albert Bridge e il Ransomes Dock, l'attrazione turistica lì vicino.
Leo non aveva parlato molto, ma a Dee non era sembrato importare. Aveva continuato a guardarsi in giro, frenetico, scattando di tanto in tanto delle foto. Aveva continuato a scrutare gli edifici che trovavano sulla via, concentrato, come se potessero raccontargli una storia. Aveva continuato a rivolgergli sorrisi luminosi, nello sguardo un'eccitazione che gli aveva stretto ogni volta il cuore.
Leo gli aveva camminato affianco, rassicurato di poter attingere alla sua felicità, nonostante la lettera ancora nascosta nella tasca dei suoi jeans non gli aveva dato modo di sentirsi leggero come Dee doveva invece sentirsi a camminare tra quelle strade.
Una parte della testa di Leo era sempre lì; non vi si era più spostata, neanche durante le chiacchiere scambiate durante la cena, neanche quando Dee gli aveva preso la mano sotto al tavolo, neanche quando si erano dati un bacio che gli aveva tolto il fiato appena erano usciti di casa.
E alla pesantezza che la lettera gli aveva addossato, si erano aggiunti i sensi di colpa.
Era lì con il suo ragazzo, ma la sua testa era da tutt'altra parte.
Aveva saputo che ci sarebbero arrivati, prima o poi. Sarebbe stato impossibile non farlo, eppure quando i suoi occhi videro i cancelli di una delle entrate del Battersea Park, a Leo gli si spezzò il fiato come se si fosse trovato davanti qualcosa che non si sarebbe mai aspetto di vedere lì.
Come quando gli si era spezzato posando gli occhi sulla grafia di Simon.
Si fermò di colpo, e Dee lo fece qualche passo più avanti, per poi voltarsi a guardarlo.
Dee aveva preso la direzione del parco senza un minimo di esitazione o un pensiero di troppo ma, quando posò gli occhi confusi sul suo volto, il suo cervello dovette fargli vedere la connessione, quello di cui non aveva tenuto conto. La confusione nei suoi occhi sparì per lasciare spazio alla comprensione.
«L'ho già visto» disse, indicando il parco. «E anche se non l'avessi fatto, non ci dobbiamo entrare per forza, se non vuoi.»
Non era la prima volta che Dee andava a Londra. C'era già stato parecchie volte, e spesso aveva scherzato dicendogli: pensa, magari un giorno ci siamo passati accanto e non lo sapevamo.
Leo recuperò una profonda boccata d'aria. «No, andiamo» gli rispose, affiancandolo. «Non c'è molto altro da vedere, qui in giro. E camminare nel parco è sicuramente meglio che farlo in mezzo alla strada.»
Dee annuì, e insieme sorpassarono il cancello. Era già orario estivo. Avrebbe chiuso tra un paio d'ore, avevano tempo.
Leo si guardò intorno, appurando che erano vicino al vecchio giardino inglese. Non era la solita entrata che utilizzava, ma conosceva quel parco così bene che non si trovò spaesato neanche un istante sulla direzione da prendere.
E c'era solo un luogo verso cui le sue gambe lo portavano.
E così vi portò Dee, senza esserne cosciente, non del tutto. Era un gesto meccanico del suo corpo, come se in quel parco di ottantatré ettari esistesse solo quel pezzo di terra.
Leo cercò la mano di Dee quando mise gli occhi sulla Pagoda che si affacciava sul Tamigi. «Scusa» si affrettò a dirgli, tirandolo indietro come a invitarlo a tornare sui loro passi.
Di nuovo, Dee gli riservò uno sguardo comprensivo. «Perché ti scusi?»
«Ci sono tanti altri posti, e io...» Scosse la testa. «Andiamo da qualche altra parte.»
Ma Dee gli si mise davanti e gli bloccò la strada. «Non vuoi stare qui perché ti dà fastidio che io sia nel vostro posto o perché pensi che dia fastidio a me?»
Non c'era irritazione nel suo tono, o fastidio, o disagio. Era una genuina domanda, volta a capire cosa stesse passando nella sua testa.
Leo fece cadere gli occhi sulle loro mani intrecciate. «La seconda» mormorò, sincero. «Non mi dà mai fastidio mostrarti delle parti di me, Dee.»
«E a me non dà mai fastidio conoscerle, Leo» sussurrò di rimando, delicato. «Lo sai che puoi parlarmi di lui quando vuoi, vero?»
Leo deglutì, mentre pensava che non era vero, che non poteva perché non voleva addossargli i suoi sentimenti irrisolti. «Non è giusto che io lo faccia.»
«E chi lo dice?» gli domandò, con serietà. «Leo, lo so che lo amerai sempre, lo so che non ci sarà giorno in cui non penserai a lui» continuò, e Leo riportò lo sguardo nel suo. «Lo so che è una parte di te» aggiunse, portando l'indice all'altezza del suo cuore. «E siamo a Londra, sono consapevole che ogni cosa su cui punterai gli occhi ti ricorderà Simon. Dal cominciare dalla tua stanza, a una fermata del bus, a un bar. Non pensare neanche per un secondo di dovermelo nascondere, ok?»
Leo gli sorrise, ma sentì la debolezza delle sue labbra. «Ok» gli disse, nonostante non sentisse fosse ok. «Ma... Andiamo al laghetto, è un posto molto più bello.»
Lo sapeva che Dee era sincero, ma non voleva comunque farlo stare lì, in mezzo a tutti i suoi fantasmi. O forse, non voleva starci lui. Non con quella lettera nascosta nella tasca dei jeans, non con quel dubbio che gli rodeva lo stomaco. Non era sicuro che avesse la forza di sostenere cosa significava, lì, nel luogo che li aveva visti per ultimo insieme.
Credono che avesse avuto intenzione di spedirtela prima di andare in aeroporto.
Leo guardò i gradini della pagoda, dove sempre si sedevano, assente.
Cosa non mi hai detto?
«Leo, cosa è successo?»
«Non è...»
Non riuscì a completare la sua menzogna, la voce gli si affievolì prima.
«Credi che non mi sia accorto che il tuo umore è cambiato, quando sei tornato in cucina per la cena?» lo incalzò Dee, con delicatezza. «Pensi che non mi sia accorto che hai pianto?»
Leo chiuse gli occhi.
Certo che te ne sei accorto.
Come pensava di poter nascondere a Dee tutto quello? Come pensava di poter scampare a quegli occhi che avevano sempre visto tutto di lui? Aveva pensato che non era giusto addossare sulle spalle di Dee tutto quello, ma non lo stava già facendo? Non era più terribile fingere di stare bene, e finire per rovinare lo stesso quelle giornate perché Dee avrebbe visto benissimo sotto la sua finzione? Non era forse peggio lasciarlo al buio, ignaro di cosa stesse passando per la sua testa?
E se dovesse pensare che è per colpa sua?
Dee non se lo meritava.
Districò la mano dalla sua e la portò alla tasca dei jeans. Senza dire una parola, recuperò la busta e gliela passò.
Dee gliela prese e per qualche secondo, che usò probabilmente per soppesarla e leggere cosa vi fosse scritto sulla facciata, non disse niente. Poi, chiese: «Cos'è?».
Leo schiuse le labbra, ma la sua voce non riuscì a risuonare al primo tentativo. Le serrò, se le umettò e ci riprovò. «Una lettera che Simon non ha fatto in tempo a inviarmi.» Lui non ribatté, e dopo qualche secondo di silenzio Leo trovò il coraggio di riaprire gli occhi. La lettera non era sparita, come una parte di lui aveva desiderato facesse. Dee la teneva tra le mani, gli occhi puntati nei suoi. Aggiunse: «I suoi genitori l'hanno trovata qualche mese fa, e mia mamma... me l'ha data prima di cena».
«Non l'hai letta.»
L'affermazione di Dee fu sicura; non sapeva se era perché aveva notato fosse sigillata, o se semplicemente l'aveva capito guardandolo.
«No.»
Dee annuì. «Perché?»
«Non so se voglio farlo» gli rispose, sincero, senza spiegargli le motivazioni. Era certo che Dee le avrebbe comprese tutte. Si fece passare una mano sulla guancia, trovandola bagnata. «Dio, ecco perché non volevo... Mi dispiace, Dee, non ti meriti di stare qui a guardarmi mentre...»
«Leo Davis, se mi dici un'altra volta che ti dispiace ti prendo a testate» lo interruppe lui, allungando una mano verso il suo viso per stringergli il naso tra le dita e tirarglielo.
Il gesto lo fece sorridere, questa volta con più sicurezza. «A testate?» gli fece eco.
Dee si strinse nelle spalle. «E non ci andrò neanche piano» confermò. Poi guardò la lettera che stringeva tra le mani, e aggiunse, tranquillo: «Leo, potrebbero esserci le risposte che aspetti da anni».
Era vero, era inutile nasconderlo. Aveva desiderato una chiusura, e forse il contenuto che quella busta nascondeva gliela avrebbe finalmente potuta dare. E anche se non l'avesse fatto, anche se sarebbero state altre parole che avrebbero alimentato i suoi dubbi, cosa sarebbe cambiato? Cosa avrebbe potuto leggere che non aveva già pensato? Cosa avrebbe potuto trovare che non aveva già considerato?
Aveva fatto i conti con tutti gli scenari possibili.
Era pronto ad affrontare ognuno di quelli.
«Posso... leggerla vicino a te?» domandò, debolmente.
Dee gli sorrise, energicamente. «Dove vuoi sederti?»
Leo indicò una panchina di fronte al Tamigi, e quasi scoppiò a ridere quando si accorse dei caldi colori del cielo.
Aveva preso coscienza dei propri sentimenti per Simon davanti a un tramonto in riva all'East River.
Stava forse per scoprire quelli di Simon davanti a un tramonto in riva al Tamigi?
Leo gettò un'occhiata riconoscente a Dee quando si sedettero uno accanto all'altro.
Eccola, la mia costante.
Dee gli passò la busta, senza incontrare il suo sguardo.
Leo non la prese subito. «Ti amo, lo sai? Qualsiasi cosa ci sarà scritta lì dentro, qualsiasi sarà la mia reazione, non cambierà niente di...»
«Leo, lo so» lo interruppe di nuovo, tornando a guardarlo. Le luci nelle sue iridi erano le stesse di quel pomeriggio a New York, quello che l'avevano fatto sentire al sicuro, quello che avevano illuminato il suo volto al posto del sole. «Non sono geloso di Simon.» Gesticolò impaziente in aria. «Sono geloso di... chiunque ti guardi, ma non lo sono di lui. E non perché è morto...» si affrettò ad aggiungere. «Non sono così meschino da sentirmi al sicuro solo perché non c'è più, perché fidati, durante il workshop, mentre scoprivo il vostro legame, sono stato geloso anche di lui.» Riabbassò gli occhi, si rigirò la busta tra le mani. «Me l'hai detto, una volta. Mi hai detto che il fatto che lui rimarrà sempre con te, non significa che tu non possa amare me. E io ti credo. So che l'amore che provi per lui, non toglie niente a quello che provi per me. Così come so che l'amore che provi per me, non toglie niente a quello che provi per lui.» Rialzò lo sguardo, un piccolo sorriso sulle labbra. «Leo, ami in una maniera così totalizzante che...» Si fermò, gli scrutò il viso, pensieroso. «Non te lo so neanche spiegare cosa provo a essere il destinatario del tuo amore. E so che questo non cambierà, a prescindere da quello che troverai scritto qui» disse, sollevando la lettera tra di loro. «Anzi, ti dirò di più. Sono certo che qui dentro c'è scritto che ti amava, Leo, perché ha avuto la fortuna di essere amato da te, ed è impossibile non amarti allo stesso modo.»
Gli occhi di Leo già bruciavano di lacrime. «Dee...»
Dee scosse la testa. «E va bene così. Non voglio stare qui a pensare a cosa sarebbe successo se lui non fosse morto, se tu avessi ricevuto questa lettera prima di trasferirti negli Stati Uniti, se Era una notte d'estate non sarebbe stato il tuo progetto di laurea. Non voglio giocare a questo gioco. Non mi interessa farlo. Non mi sono mai sentito una seconda scelta...»
«Perché non sei una seconda scelta, Dee.» Fu lui questa volta a interromperlo, con sicurezza, irritato al pensiero che potesse credere una cosa del genere.
Dee annuì. «Lo so, so di non esserlo, ed è per questo che non sono più geloso di Simon. Amo, l'amore che provi per lui, perché è anche quello che ti rende chi sei. Leo Davis, il ragazzo che mi fa sentire amato ogni singolo istante delle mie giornate, anche quando siamo seduti nel posto che condivideva con un altro ragazzo, un istante prima di leggere una lettera che confermerà quello che io so da quando ho letto per la prima volta il copione del suo progetto di laurea» gli spiegò, e ora le sue labbra si arricciarono in un ghigno. «E non so se lo scrittore se lo ricorda, ma sai, quando glielo avevo fatto notare mi aveva quasi staccato la testa a morsi per averlo anche solo suggerito.»
Dalle labbra di Leo sfuggì una risata. «Giusto» mormorò, tossicchiando poi per recuperare la voce. Portò una mano alla sua guancia, gliela accarezzò leggera. «Ti avrei amato lo stesso, Dee.»
«No, Leo, va bene così, non dirlo solo per...»
«Se avessi avuto comunque la possibilità di conoscerti, mi sarei lo stesso innamorato di te, Anderson Wright Jr» lo interruppe, di nuovo con la certezza che provava. «Dici che è impossibile non amarmi, e io ti dico che è impossibile non amare te e la tua luce abbagliante. E ho intenzione di dimostrartelo ogni giorno che passeremo insieme.»
Dee si umettò le labbra, lo guardò con gli occhi colmi di quella luce. «Mh» mormorò, inclinando la testa per sistemarsi meglio nel suo palmo. «Lo sai come potrai dimostrarmelo, domani?»
«Come?»
«Al mattino mi porterai a Highgate e Hackney, poi nel pomeriggio a Camden Town e a Shoreditch, e infine alla sera passeremo per Brixton e il West End.»
Leo strabuzzò gli occhi. «È un... itinerario interessante, ma è un po' difficile farlo tutto in un unico giorno, credo...»
«Va bene, ti concedo di dividerlo in due giornate» ribatté Dee, arricciando le labbra. «Anche perché dentro dovremmo mettere anche SoHo e... Oh! Bond Street.»
«Un itinerario molto specifico» ribatté Leo, confuso. «Dove l'hai visto?»
Dee gesticolò in aria. «London Boy.»
«Dove?»
«London Boy, Leo» ripeté lui, esasperato. «Stiamo insieme da un anno, come è possibile che non hai fatto progressi con le canzoni di Taylor Swift? Quando ti invio la canzone del giorno da ascoltare, lo fai veramente o mi menti dicendo di averla ascoltata per inviarmi poi finti pareri?»
Leo scoppiò a ridere, questa volta davvero. Una risata sonora, di gusto. «Si vede che questa non me l'hai ancora inviata.»
«Dubito, sono sicuro che sia stata una delle prime che ti ho fatto ascoltare, probabilmente quando eravamo ancora alla GVU insieme» considerò, scuotendo anche la testa. «Ma va bene, ti perdono la dimenticanza, te la farò riascoltare.»
«Come sei magnanimo» scherzò Leo.
Dee sorrise e poi gli passò di nuovo la busta. «Ora sei pronto?»
Lo era.
Sarebbe stato pronto a tutto, con Dee accanto a lui.
Annuì, prese la busta dalle sue mani, e strappò la carta.
La prima cosa che tirò fuori non fu la lettera, ma una fotografia. Anche senza la data scribacchiata da Simon sul retro, Leo avrebbe capito subito il momento in cui era stata scattata. Il giorno del suo sedicesimo compleanno, quando erano andati a caccia di stelle cadenti per la campagna inglese.
Lo scatto ritraeva lui. Era a mezzo busto, lo sguardo puntato verso l'alto, un piccolo sorriso sul volto. A fare da contorno, una distesa di stelle catturate perfettamente. Sulla volta celeste ne splendevano un'infinità.
Si sentì confuso davanti quell'immagine. Non aveva mai visto una foto di quella notte, anche se Simon ne aveva scattate tantissime. Quando gli aveva chiesto se erano pronte, lui gli aveva detto di non essere riuscito a svilupparle perché i rullini si erano rovinati.
Eppure, ora ne stava stringendo una tra le mani.
Mi hai mentito?
Con un cipiglio di incomprensione, la passò a Dee.
Lui la prese senza esitazione, la scrutò e poi mormorò: «Era davvero bravo».
«Lo era» acconsentì, tirando fuori la lettera.
La dispiegò, cercando l'inizio. Si accorse subito che erano diversi fogli pieni di quella scrittura che gli strinse di nuovo il cuore, e la cosa lo stupì. Simon non era mai stato bravo a esprimersi con le parole: aveva sempre preferito che fossero le immagini a parlare al suo posto.
Guardò la data, e solo quella riuscì a fargli inumidire gli occhi.
13 agosto 2020.
Il loro ultimo giorno insieme.
Chiuse le palpebre, prese un respiro profondo e quando le risollevò puntò per un istante lo sguardo al sole.
Eccoci davanti al nostro ultimo tramonto, Sim.
Poi lo abbassò sul foglio e incominciò a leggere.
.
.
.
Hi!
Ed eccoci qui, con l'extra che ha dato inizio alla "raccolta di Simon".
Nell'extra originale si continuava subito con la lettera, ma ho pensato che sarebbe stato più carino tagliarla per pubblicarla solo alla fine di tutti i racconti, in modo che possiate scoprire passo per passo le vicende e non "spoilerarvi" quello che accadrà tra queste pagine virtuali.
Torneremo quindi con una ripresa dell'extra solo alla fine, mentre dal prossimo capitolo ci immergeremo subito nel pov di Simon.
Che vogliate continuare con la lettura o siete passati di qui per leggere giusto l'extra di Dee e Leo, spero che ricontrarli dopo qualche mese sia stato piacevole. Per me, tornare da loro, è sempre tornare un po' a casa.
A giovedì!
G.
[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top