XXXII. Piccola furfante

Non successe nell'immediato. O forse non avevo capito nulla.

Avevo ancora nella testa quella voce rachitica che rimbombava: "se lei se ne va per te è finita". Oltre a quella bufera, fin troppo irruenta e che stava mettendo in ginocchio un regno prospero come Dyronne, c'era qualcos'altro che mi preoccupava. Se fosse morta, cosa mi sarebbe accaduto? E se Finnick fosse riuscita a trovarla, che ne avrei fatto di lei? L'avrei legata nei sotterranei, le avrei curato le ferite e le avrei impedito di fuggire ancora. Doveva essere l'unico modo. Se eravamo legate da una profezia e dovevamo vivere assieme, significava che la morte di una avrebbe provocato la fine anche dell'altra.
Questa era la mia unica certezza.

Un mese di niente. Ecco come lo definirei. La mia prigionia in stanza terminò e lasciò spazio a una nuova fase, l'elaborazione. Non nascondo che vissi quella mancanza come un lutto in piena regola.

Trascorrevo gran parte del mio tempo nelle segrete, attendendo notizie di Finnick. La mia idea su come farlo scappare aveva funzionato, ma niente poteva assicurarmi che dopo fosse sopravvissuto.
Avevamo inscenato la sua morte a causa di una caduta dalle scale e ordinai ai miei soldati di gettarlo nella fossa comune, tre metri di vuoto e il suo corpo era finito in mezzo al mucchio di cadaveri che giacevano lì e si decomponevano lentamente. Quando ero piccola avevo sempre avuto paura di quel posto, proprio avanti al palazzo, nel fossato d'ingresso. Ma mi spiegarono che era un mezzo per dissuadere chiunque volesse attaccarci e la cosa mi andò bene.
Controllai con attenzione che Finnick fosse vivo e lo vidi muovere impercettibilmente il torace, due ore dopo il suo corpo non c'era. Doveva essere riuscito a scavalcare gli ultimi corpi e a filarsela.

Stavo fissando quel marasma di corpi, che avevano un tempo ospitato le anime di persone vive. Erano in posizioni strane e innaturali, alcuni con braccia rivolte al contrario, gambe spezzate e teste mozzate. Era un puzzle umano fatto di morte. Le mosche ronzavano su quei corpi puzzolenti e nonostante la distanza avvertivo il fetore nelle narici. Mi portai una mano sul petto quando sentii una leggera fitta colpirmi.

- Colossus... Andiamo dentro. - ordinai al mio cane che si era seduto paziente e mi fissava. Prese ad abbaiarmi contro con insistenza, al che mi spaventai. Il dolore si fece poco più forte e indietreggiai spaventata. Mi massaggiai il braccio.

- Smettila adesso. Ho detto andiamo. - ordinai ancora, ma stavolta il bestione mi ringhiò contro. Come se avesse paura di me. Come se temesse qualcosa.

Mi si offuscò la vista, come se un fumo nero mi avesse coperto gli occhi e oscillai pericolosamente verso quell'enorme fossa comune sottostante. Niente rispondeva più ai miei comandi, non avevo più il controllo di niente. Pian piano ero sempre più vicina al bordo, sempre più vicina all'abisso.
Colossus morse la stoffa del mio vestito e mi tirò verso l'interno, impedendomi di cadere al di sotto. O almeno è quello che ricordo. In quel momento non ebbi neppure la forza di arrabbiarmi.

Caddi, sbattendo la testa sul marmo, senza riuscire ad aprire gli occhi o a restare sveglia.



Mi trovai in un mercato affollato, pieno di gente che urlava e bancarelle stracolme di ogni cosa. Il sole illuminava la frutta che brillava nelle cassette e i gioielli riposti accuratamente in piccoli cofanetti. Tutto quanto aveva un aspetto meraviglioso in quel caotico mercato.
I miei occhi però sono attirati da una bambina, non più alta di un metro, vestita di stracci e con un cappuccio a coprirle i capelli. Si aggira furtiva e passa vicino alla bancarella del panettiere, allunga la mano facendo finta di stiracchiarsi e ruba un pezzo di pane che fa ricadere distrattamente nella sua borsetta di paglia.
Cammina ancora, quell'anima non troppo pura, con aspetto innocente e si avvicina a qualcosa che brilla più del resto.
- Che bella, che cos'è questa? - chiede al venditore che la osserva con un sorriso. È un uomo corpulento, con occhi scuri e i capelli rasati. Indossa abiti orientali, quasi religiosi. Assomiglia a uno sciamano o a uno stregone.
- Pirite mia cara, la pietra della ricchezza. - dice lui mostrando la sua merce. Vende pietre per vivere e la sua bancarella è avvolta dal profumo di incenso e da una strana energia attrattiva.
- Se la compro potrò diventare ricca? - domanda guardando quel minerale che sembra essere oro da quanto sbrillucica.
- Oh no, la ricchezza si può intendere in tanti modi. -
- In che senso? -

Mi avvicino anch'io per osservare meglio quelle pietre. A chi mai verrebbe in mente di vendere delle pietre? Perché qualcuno dovrebbe spendere soldi per portarsi a casa qualcosa che può raccogliere per strada? Eppure... Sono così belle.

- Esiste la ricchezza interiore, ad esempio. Questa pietra ti può aiutare a diventare una persona migliore, a fare uscire il meglio di te. - sostiene lui e la bambina scuote la testa. Non è convinta per niente e arriccia il naso, si avvicina un po' a osservarla ancora e poi dice:
- Io non me ne faccio nulla della ricchezza interiore, quella non mi manca. È la ricchezza materiale che cerco io! -

Ha forse dieci anni, ma parla già di soldi. Rifletto io. Analizza la pietra che ora stringe tra le mani, indecisa.

- Sei una stolta se pensi che quella ti renderà felice. C'è chi ha la ricchezza materiale che tu cerchi ed in realtà è un mostro ad esempio. Solo raggiungendo l'equilibrio si può giungere a un compromesso. -

Lei lascia ciò che ha preso sul banco e indica le collane che sono appese in alto.
- E quelle? Hanno un significato? -
- Tutte le pietre hanno un significato, ma non posso dirti cosa sono finché non ne scegli una. Perché vedi, se ti senti attirata da una pietra è perché la tua anima necessita qualcosa, che solo una pietra può darti. -
La bambina allungò l'indice verso una delle collane con una pietruzza violacea e l'uomo gliela porse.
- Hai scelto l'ametista, tu hai carenze d'amore. - e la bambina deglutì, prima di mettere la mano nella sacca e porgere all'uomo due monete. Quello la salutò accarezzandole il capo e nel farlo le abbassò il cappuccio, scoprendole i capelli argentei.
Altri passanti si avvicinarono al mercante e la bimba, dopo essersi guardata intorno, arraffò la pirite e corse via. Non si rese conto che il mercante aveva visto tutto e aveva persino così parlato:
- In che guai ti stai cacciando, piccola furfante. Rubare la pirite significa mettersi contro il destino, spero che troverai chi compensi il tuo vuoto perché altrimenti la morte vi travolgerà in modo inesorabile. -

Trasalii a quelle parole, mentre le guardie mi portarono dal guaritore reale. Non ricordo nient'altro.

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