XXI. Specchio
"Sì, vostra altezza", "Ovviamente Vostra maestà", "Come desiderate", "Nessun problema" e poi ancora "Sì, vostra altezza", "Sì vostra altezza!" e poi "Sì, vostra altezza, immediatamente!" erano diventate le uniche parole che pronunciavo in presenza della principessa Dayana da un mese a questa parte. Non c'era più stato un singolo momento leggero tra noi, non più un sorriso, non più uno sguardo amichevole. E non più un contatto.
Mi limitavo a starle affianco, come lei desiderava e assecondarla in ogni gesto. Lei d'altro canto, non mi aveva neppure chiesto scusa ed io iniziai ad odiarla.
Non avevo paura di lei, non erano state le sue torture a rendermi così obbediente. Era la consapevolezza di non avere vie di scampo. Avevo riflettuto più volte sull'idea di prenderla per il collo, appenderla al muro e colpirla con tutta la forza del mondo. Ma ci avevo rinunciato, ben sapendo che la prima indiziata sarei stata io e che mi avrebbero ammazzato subito.
Per quanto questa vita mi abbia presa a schiaffi sin dal giorno in cui sono nata, non ho alcuna voglia di separarmene. Voglio vivere, quanto più a lungo possibile.
Voglio vedere come andrà a finire.
Al termine della sua punizione mi aveva condotta dinanzi a uno specchio e mi aveva obbligata a guardare le ferite che mi aveva procurato, quella D incisa ormai sotto la clavicola e quel marchio a fuoco che aveva deciso di incidermi nel bel mezzo dello stomaco. Aveva bruciato come l'inferno. E quando mi aveva vista, così umiliata e sofferente dinanzi a quello specchio aveva deciso che avrei patito ancora quella visione.
Per questo ne aveva fatto piazzare uno proprio difronte al mio letto: era impossibile non guardare il proprio profilo una volta che ci si stendeva sopra.
Ed era una visione orrida.
Odiavo il mio riflesso, perché mi ricordava il mostro che ero e che sono, l'immagine che era stata distorta e costruita a tavolino da altri. Quando a fine giornata mi denudavo per andare a riposare e passavo davanti a quell'oggetto del demonio, mi forzavo di non guardare. Abbassavo lo sguardo, mi concentravo su qualsiasi piccolo particolare pur di non fissare i miei stessi occhi.
Quando però mi sdraiavo era impossibile addormentarsi senza riconoscere quella figura che a sua volta mi squadrava nel silenzio più assoluto. Quel corpo pieno di tagli, cicatrici, dolore e odio veniva rappresentato con così tanta cura da quel maledetto. Ed io tentavo di autoconvincermi che quella non fossi io e ricordare com'era la mia pelle prima di tutto. Com'ero io, prima di tutto.
Solo che non riuscivo a rammentare molto e tutto iniziava nel peggiore dei modi: quando avevo solo sei anni e fui venduta per soddisfare uomini. Il senso di assoggettamento, essere sessualizzata già da bambina, aver avuto paura di ogni più piccolo gesto. Odiavo gli uomini. Odiavo il loro modo di fare da scimmie, la loro insensibilità al mio dolore, il loro sentimento di ricerca del piacere a scapito del più debole. Ed erano lì che erano nati i primi segni.
Erano solo lividi, niente di più. Qualcosa che andava via in una settimana. Ma anche se non li vedevo più, sulle mie braccia, sulle mie gambe e sul mio collo, li sentivo addosso. Avevo la sensazione di morire ogni volta. E poi quella bambina, tanto desiderata da perversi e manigoldi, era man mano cresciuta ed era sgattaiolata fuori per vivere davvero. Non mangiava, non beveva granché e si ritrovava a rubare.
Rubare era la vergogna più grande. Ma cos'altro restava? Non ho mai desiderato di morire. E così mi aggrappavo con tutta la forza a quel sogno di vincere le avversità e rubavo, rubavo, rubavo qualsiasi cosa riuscivo. Mi hanno arrestata un paio di volte per questo, mi hanno minacciato di tagliarmi una mano o entrambe a causa dei miei reati. Poi però si dimenticavano di questo e dicevano che c'era un altro modo per farsi perdonare e così, quella bambina si ritrovava nelle corti a far da servetta. Ed era lì che quella marmocchia aveva incontrato sé stessa, proprio quando l'ennesimo maiale stava per averla, sfoderò un pugnale che aveva rubato e lo accoltellò in pieno petto.
Corse, con tutto il fiato che possedeva. Talmente veloce che si alzò la polvere al suo passaggio. E le cicatrici, i tagli, man mano si sommarono.
E più il corpo veniva ferito e più la bambina cresceva, più perdeva l'ingenuità e acquisiva la cattiveria. Più avanzava e più dimostrava che nessuno le avrebbe più fatto del male.
Quella bambina si era trasformata in un mostro. E questo io, lo sapevo bene. Osservavo il mio riflesso e sapevo che dentro di me c'era più male che nello sguardo della principessa, che lei non aveva la più pallida idea di cosa fosse il male. E così, mentre lei continuava a fare l'orgogliosa, io mi coprivo con la pelliccia ed evitavo di guardare quella figura rannicchiata nell'ombra che pareva un uomo pronto a morire o una pantera pronta a un agguato.
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