XX. Tortura

Quando vidi Alexa giustificarsi per essersi allontanata dal castello e aver rincorso quei briganti ebbi un attacco d'isteria. Avrei voluto picchiarla ancora e ancora, ma decisi di punirla in un altro modo. Il silenzio forse, era l'arma più efficace.
Mi seguì passivamente fino ai sotterranei, guardandosi intorno di tanto in tanto.

Io, che ero cresciuta tra quelle mura, non ci trovavo niente di interessante. I teschi, la puzza, gli scheletri riversi a terra, le guardie armate che sorvegliavano ogni singola cella, non era mai cambiato nulla a riguardo.
Lei invece pareva così interessata a ciò che la circondava. Vedevo nei suoi occhi sorgere mille domande che tratteneva dentro di sé, perché sapeva perfettamente che non avrei risposto ad alcun quesito e le avrei urlato addosso di tacere.

Mi spinsi nelle profondità delle segrete, in quel dedalo intricatissimo di passaggi stretti e angusti.

- Pietà! Maestà pietà! Vi prego! - urlò disperato un uomo scagliandosi contro le sbarre della sua prigione e tentando di afferrare le mie vesti per fermarmi. Mi voltai e gli rivolsi uno sputo carico di risentimento, poi senza degnarmi di guardarlo tirai ancora dritto fino alla sala delle torture.

La porta di ferro separava il corridoio che era delineato dalle innumerevoli celle piene di uomini e donne urlanti, dal cosiddetto braccio della morte. Lo aveva fatto costruire mio nonno, molti anni prima, quando c'erano state le ultime insurrezioni da parte di un gruppo di squilibrati fanatici.

Dyronne era un regno tranquillo e lo doveva proprio al corpo militare, sempre pronto ad agire e alle segrete che ospitavano la peggior feccia mai vista. La guardia che faceva da piantone alla sala delle torture mi vide arrivare, battè il piede a terra e aprì la porta facendo passare me e Alexa che mi seguì ancora senza dire una parola.

Era una stanza angusta, isolata dalle altre, con le mura totalmente di pietra.
Al centro, c'era una sedia con delle cinghie di cuoio all'altezza delle caviglie, dei polsi, della vita e del tronco. La guardia che ci fece entrare fece un passo all'interno e io lo bloccai.

- No. Dobbiamo essere sole. Uscite e non fate entrare nessuno. - ringhiai e lui annuì richiudendo la porta alle sue spalle.

Alexa, che aveva con sé soltanto un pugnale, lo posò delicatamente a terra e mi fissò. Non so dire cosa stava provando, ma non c'era traccia di paura nei suoi occhi.

- Siediti. - ordinai.
- Volete torturarmi, vostra maestà? - domandò lei. Indossava abiti quotidiani, con una strana tonaca che non le avevo mai visto indossare e aspettava una risposta con le mani dietro la schiena.
- SIEDITI HO DETTO! - urlai tirandole un altro schiaffo dritto in faccia e lei contrasse la mascella ma non ribatté, si sedette sulla sedia. Io le bloccai prima i polsi con le cinghie, poi passai a bloccarle la vita e infine mi inginocchiai per bloccarle anche le caviglie. Non smise neppure per un secondo di fissarmi.

- Quando ordino qualcosa, mi aspetto di essere ascoltata e soprattutto obbedita. Tu sei scappata dal mio regno senza dirmi nulla, mi hai lasciata preda dei briganti. - ringhiai serafica voltandomi per raggiungere il tavolo sulla destra, dove erano riposti tutti gli arnesi preposti alla tortura, alcuni erano ancora sporchi di sangue rappreso. La luce fioca della stanza non mi permetteva di guardare bene negli occhi quella mercenaria che mi stava lentamente distruggendo. E nella mia testa continuavo a pensare che non poteva essere una coincidenza ciò che era successo. Un disastro di quelle proporzioni proprio mentre lei manca, questo sì che è strano.

- Ma sono tornata. -

Mi voltai a fissarla inorridita da quell'affermazione.

- Tu non devi allontanarti da me, ti è chiaro?! Non devi allontanarti neppure per tutto l'oro del mondo. Vuoi che ti incateni al castello? Vuoi che ti faccia dormire nel canile? -

Rimase ferma, seduta e mi fissava ancora con quegli occhi che mi davano ai nervi. Ero posseduta da una rabbia cieca e so per certo che mi capitava di frequente, come un terribile uragano esplodevo e non riuscivo più a cogliere un limite.

- No, vostra maestà. - rispose soltanto. Io afferrai l'attizzatoio del camino, che era ancora caldo e lo scaldai sul fuoco difronte a lei.

- Sono una principessa buona, per questo non ti ammazzo adesso. Ma prova a rifarlo e io ti farò scuoiare, farò un pupazzo imbalsamato di te. -

- Voi non siete così vostra maestà, io lo so. Non avete alcun bisogno di mostrarvi così perfida. Io non so cosa vi abbiano fatto, ma sono certa che voi potete dimostrarvi migliore di così. Torturarmi non vi porterà a nulla... - tentò lei. Lasciai cadere l'attizzatoio ai piedi del camino, con la punta rivolta sui carboni ardenti e mi diressi verso di lei con una lama. Le tagliai la tonaca facendola cadere di lato e con precisione feci scorrere la lama sulla sua pelle, poco sotto la clavicola, solcando una D. Dopo aver calcato a lungo, sollevai lo strato di pelle lasciando che il sangue scorresse libero. Non emise neppure un gemito. Dalle mie parti la tortura della scarificazione avrebbe fatto urlare chiunque, ma lei rimase impassibile.

- Tu, non sai nulla di me. Tu non sai chi sono. Tu non sai perché lo faccio. E non devi saperlo. Tu devi obbedirmi ciecamente, perché appartieni a me. -

- Così spingete le persone ad odiarvi. Come potete pensare che torturare una persona a cui volete bene la spingerà a voler passare del tempo con voi? - domandò voltando il capo verso destra, non voleva guardarmi più negli occhi.
- Io non ti voglio bene. Tu mi servi, che è diverso. -
- Fate ciò che volete. Vi state dimostrando priva di cuore. Sappiate che alla prima occasione buona io andrò via. - promise.

Ed io, non ci vidi più dalla rabbia. Afferrai l'attizzatoio bollente e lo premetti sul suo addome con forza. Solo allora lei urlò.

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