XI. Inchino
Non credevo che la principessa fosse capace di "comprendere" delle emozioni umane. La vedevo ormai come una figura che di terreno non aveva un bel niente, per cui la ritenevo incapace di capire ciò che sentivo.
Ma fu proprio quando lei fece quel passo indietro, lasciandomi respirare, che io avanzai. Mi parve addolorata nel sapere ciò che le avevo confidato e quando mi fece lasciare dei vestiti puliti, senza merletti, pizzi e cuffiette strane, sentii di doverla ringraziare.
Un paio di pantaloni lucidi e tendenti al blu, non troppo aderenti e una camicia semplice da uomo. La camicia mi stava a pennello, mentre i pantaloni stringevano un po' ma non me la sentii di lamentarmi. Gli stivali che mi lasciarono in terra erano bassi, ma semplici. Apprezzai molto quella scelta.
Finnick, che non avevo più rivisto dalla nostra ultima chiacchierata, si fece avanti con una spazzola tra le mani.
- Che vuoi fare con quella? - domandai. Mi era stata tolta la catena al piede da qualche ora.
- Devo acconciarti i capelli. - rispose lui mostrandomi varie forcine, fiori e piccoli fili.
- Niente di troppo complesso. E niente fiori. -
Lui annuì e deglutì, indicando il letto e facendo cenno di sedermi. Non ci mise molto a sistemare la mia chioma.
Avevo sempre avuto un rapporto di amore e odio per i miei capelli. Detestavo quando venivano toccati da qualsiasi persona, ma allo stesso tempo non potevo fare a meno di amare quanto fossero morbidi e setosi. Si sporcavano lentamente, ma forse a causa del colore, risultavano sempre brillare sotto al sole.
Non fece granché ed io accettai quella sua forma di premura. Afferrò le due ciocche laterali vicino alle tempie e le pettinò per bene, districando ogni nodo, poi con delicatezza mise un laccetto a fermarle dietro il capo. I capelli che scorrevano al di sotto furono pettinati soltanto e ci spruzzò sopra uno strano profumo.
Era da un po' che non mi guardavo allo specchio e mi resi conto che sembravo perfettamente ciò che ero: una donna onorevole e austera. I vestiti lasciavano intravedere poco del mio fisico, l'acconciatura invece metteva in risalto il mio sguardo affilato e il viso magro. La pietra che portavo al collo risaltava luccicante, ma quando Finnick fece gesto di togliermelo e io ribadii un secco "no", si arrese subito.
In complesso mi sentivo a mio agio e questo mi bastava, anche se provavo una vaga sensazione di intorpidimento alla caviglia che aveva sopportato per giorni il peso di quella catena.
- È pronta? - domandò Finnick che stava attenendo, con le mani dietro la schiena e il viso privo di sentimenti. Aveva imparato a celare ogni emozione.
- Credo di sì... Ma cosa devo fare? -
Il ragazzo lanciò uno sguardo alla porta, assicurandosi che gli altri fossero andati avanti e non ci fosse nessuno ad ascoltarli.
- Dagli ciò che vuole, qualunque cosa. Non amano essere contradetti e la pena può essere la morte. Ricorda ciò che ti ho detto, mercenaria. - mormorò avvicinandosi e piegandosi per sistemare come cadessero i pantaloni, tirandoli un po' sopra.
- Finnick... Cosa volevano da te? Se ti hanno risparmiato ci sarà un motivo. - mi ritrovai a mormorare anch'io.
- Io non brandisco una spada, né posseggo talenti particolari, né vendo oggetti rari. Tutto ciò che avevo è andato perso anni fa, ero solo e feci nascere un sentimento di pietà. Mi hanno adottato come si fa con un trovatello abbandonato, mi hanno dato quattro stracci e mi hanno detto che ero in debito con loro finché la morte non mi coglierà. - spiegò lui prima di rialzarsi e mordersi l'interno delle guance. Forse era da tanto che non ci ripensava.
- Mi dispiace. - fu tutto ciò che riuscii a dire.
- Non dispiacerti. Ad altri è andata peggio e tu potresti uscire da questa situazione senza testa, per cui non farlo. Piuttosto prova a compiacerlo. -
Finita quella conversazione avevo un peso che mi premeva sul petto. Non che mi abbia mai fatto paura l'idea di morire. Del resto non lasciavo nulla su questa terra e facevo del mio meglio per non attaccarmi a niente di materiale.
Ciò che mi impauriva era il senso di colpa di non aver vissuto al meglio, non aver potuto vivere come volevo. Era un tipo di dolore diverso.
Mi incamminai lungo gli stretti corridoi della fortezza Decennale, che io preferii denominare "Diroccata". Non ci volle molto a raggiungere l'immensa sala dove i sovrani mangiavano e non mi ci volle molto a individuare i due. Li avevo già visti assieme, ma non a una distanza così ravvicinata. Nell'arena si erano comportati come divinità capaci di emettere un giudizio sulla vita o sulla morte di una persona, ma adesso sembravano soltanto due persone normali. Il lungo tavolo centrale, che avrebbe potuto ospitare una ventina di persone, era occupato solo dal Re a un capotavola e la principessa Dayana all'altro. Il tavolo era stracolmo di prelibatezze, la servitù mi fece entrare.
Accennai un'inchino non proprio equilibrato e vidi il Re ridere.
- Adesso devo proprio averle viste tutte... vuoi farti difendere da una che non sa neppure fare un inchino decente? - sghignazzò lui.
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