Capitolo 5

Mi sveglio con la bocca piena di sangue. Cerco, ancora una volta, di ricordare la notte precedente, ma, come la prima volta, è come se non mi ricordassi più nulla. 

Cerco di ripetere a voce alta le poche informazioni che ancora possiedo: il mio nome è Lana, ho diciassette anni, vivo a New York con la mia famiglia, ho due sorelle, vado a scuola al liceo privato Saint Jules, Lucas è il mio fidanzato, voglio diventare un avvocato... mi ricordo tutto, ma non ieri sera, in realtà non ricordo proprio nulla di ieri. 

Come sono capitata in questo posto? Che cosa vogliono da me? Chi sono queste persone? Voglio tornare a casa, ho paura lo ammetto, sono una fifona tremenda, ho bisogno di sapere cosa sta succedendo; non sento rumori intorno a me, sono da sola? 

Vorrei togliermi la benda, ma le mie mani sono legate. Diversamente dalla prima volta in cui mi sono svegliata, il filo che le lega i polsi è meno teso, quasi allargato per non lasciare segni, o meglio ancora, per non ferirmi; "Come se non lo avessero già fatto" sospiro, ironicamente. 

Penso a tutte le possibili spiegazioni riguardo a questo rapimento, ma mi vengono in mente solo le storie con cui i miei genitori mi spaventano da piccola, per non farmi tornare a casa da sola la sera; mi dicevano che c'erano bande clandestine che rapivano bambine e ragazze, ma erano soltanto storie... storie basate su fatti realmente accaduti ma anni fa. 

Inizio a sentire la paura impossessarsi di me, il terrore puro poiché non so cosa stia succedendo; "Se solo potessi vedere dove sono" maledico mentalmente, mentre alcune lacrime iniziano a scendere. 

Chiudo gli occhi più volte velocemente, per nasconderle; chiunque arrivi, chiunque sia non voglio che mi veda piangere, devo restare forte, non sapendo cosa vogliono da me. Come mia nonna mi dice sempre, il nemico non sa che cosa ti passa per la mente, fino a che non glielo mostri con le emozioni; quindi nascondile sempre, possono essere un'arma fatale. Lei è una delle donne più sagge che conosco, è un modello di vita per me; voglio essere forte, devo essere forte e lo sarò. 

Sto seduta sul pavimento con la testa sulle ginocchia per quelle che sembrano ore, "Magari si sono dimenticati di me" scherzo, cercando di sentirmi meglio; ho come un peso che mi opprime, o forse è il dolore che provo al viso. 

Sento dei panni che mi hanno messo per fermare il sangue, eppure non sono serviti a molto, il sangue è continuato a colare per tutti il tempo.

                                                                                    ***

Per l'ennesima volta mi sveglio, ma questa volta le cose sono diverse; non mi faccio più domande, a questo punto non ha più senso, non ho risposte. 

Cerco di muovermi per vedere se i colpi ricevuti hanno creato gravi danni e solo in quel momento realizzo che non sono più seduta sul freddo pavimento, ma su quello che sembra un materasso; mi chiedo chi mi abbia spostato, e mi si raddrizzano i capelli quando penso che qualcuno mi abbia messo le mani addosso. 

"E' stato un gesto gentile, quello di spostarmi" penso con ironia, "come nella caccia, si deve per prima cosa far sentire la vittima al sicuro". 

Come appena svegliata in un sogno, mi accorgo che mi hanno slegato i polsi, è cosi bello sentirli liberi di nuovo; immediatamente allungo le braccia e slego la benda. 

La luce mi colpisce con un bagliore troppo forte, per quanti giorni ho dormito? Chiudo gli occhi e li riapro più volte per farli abituare, dopo di che inizio a ispezionare la stanza che mi circonda. In realtà non c'è molto da esplorare, la stanza è vuota. 

I muri bianchi sono in parte ricoperti da muffa che rende l'aria circostante ripugnante, ma almeno il pavimento sembra intatto; l'unico elemento presente è il materasso sul quale ho dormito. 

Qualcosa mi tormenta dentro, c'è qualcosa che non va; spaventata mi giro più volte, cammino per la stanza, guardo attentamente ogni muro ma niente, non la trovo, dov'è la porta? Con lo sguardo faccio un altro giro della stanza, da destra a sinistra per altre tre volte per essere sicura di non sbagliarmi. 

"Non c'è via d'uscita" la mia voce è un fremito, ora non è la paura a impossessarsi di me, ma la pazzia; mi muovo per la stanza, incapace di stare ferma, e batto i pugni, già dolenti, contro le parenti. 

"Deve esserci un'uscita, non è possibile che non esista" urlo dentro di me, "andiamo, andiamo" mi maledico mentalmente, sentendo le prime lacrime scendere sul mio viso; questa volta non cerco di nasconderle, non mi interessa, nessuno mi può vedere, sono da sola.

"Sono da sola, sono da sola" sospiro, lasciando le lacrime aumentare. 

I singhiozzi diventano sempre di più, quindi mi raggomitolo nel materasso e stringo al petto le ginocchia; lascio che la paura abbandoni il mio corpo, voglio solo dormire in questo momento, ma non ci riesco. Questa solitudine è peggiore del trattamento che mi hanno riservato la prima volta, almeno le botte mi facevano sentire qualcosa; ora, invece, il silenzio regna sovrano e riesce a farmi impazzire. Chiudo gli occhi e mi lascio cullare dal mio pianto.

                                                                                   ***                                 

Mi risveglio ancora una volta nello stesso materasso; questa volta sono avvolta da un leggero lenzuolo e una calda coperta. Mi muovo nel letto senza però alzarmi, che senso avrebbe farlo? Tanto non posso uscire. Rotolo verso la parte opposta del letto e prendo in mano il pezzo di vernice che ho trovato pochi giorni prima; è solo un piccolo pezzo appuntito ma da quel giorno lo ho usato per tenere il conto dei giorni che passano. Lo tengo stretto tra le dita e incido una piccola linea sottile: "Quattordici" sospiro, sdraiandomi sul materasso. 

"Quattordici giorni" sospiro ancora. 

Piangerei se avessi ancora lacrime ma ora c'è solo rassegnazione. I primi giorni sono stati difficili; la speranza che qualcuno mi venisse a salvare si alternava alla paura ogni dieci minuti, come un orologio. 

Con il tempo la mia vita ha assunto la stessa routine, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana: mi sveglio la mattina e trovo un vassoio con una mela e una bottiglietta d'acqua. Il primo giorno mi ero domandata come avessero fatto a farlo entrare, doveva per forza esserci un'entrata; avevo deciso di non dormire quella notte e stare sveglia per vedere la mattina dopo dove si trovava. Quel giorno nessuno era venuto, e nemmeno quello seguente; non volevano farmi sapere. All'inizio avevo pensato che non mi importasse, una mela non avrebbe cambiato niente, avrei fatto digiuno. Con i giorni mi ero accorta che il mio piano non aveva nessun senso, l'acqua per me era di vitale importanza se volevo sopravvivere; quindi avevo abbandonato il mio piano e avevo cercato di dormire. La mattina dopo mi ero svegliata e il vassoio era lì per me, ma questa volta insieme a esso c'era un sonnifero; lo avevo preso senza fare storie, avevo capito la lezione. Da quel primo giorno ogni vassoio che arrivava significava per me una linea sul muro, un giorno in più in quella prigione.  

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