PRIMA PARTE VENT'ANNI PRIMA




CAPITOLO DUE

Il periodo del liceo era stato per Lorenzo piuttosto difficile, ma finalmente era finito. Era stato colto da una delle peggiori tempeste ormonali adolescenziali, il suo volto era stato stravolto da un'acne perniciosa, di cui aveva ancora i segni, la vista gli si era abbassata progressivamente fino a costringerlo ad indossare spessi occhiali da miope, e per finire aveva baciato solo tre ragazze e non era andato a letto con nessuna. In più il suo carattere schivo ed orgoglioso non gli aveva permesso di fare amicizia con i suoi compagni di classe, tutti fighi e spensierati animali da discoteca, ma solo con un piccolo gruppo di reietti filo comunisti senza ragazze, che passavano le loro giornate a giocare a Dungeons & Dragons ed a discutere di chi fosse il migliore tra Bruce Springsteen e Bob Dylan. Vestiti in modo improbabile, molto intelligenti e piuttosto saccenti, ma completamente disadattati alla vita dei giovani loro contemporanei, erano i nerd di quei tempi. E lui sarebbe stato come loro, se non avesse avuto una passione che lo aveva ammaliato durante l'infanzia, lo aveva affrancato dalla sua timidezza e gli aveva permesso di vivere decine di vite tanto immaginarie, quanto reali: il teatro.

Era stato promosso quasi con il massimo dei voti, mentre la stragrande maggioranza dei sui compagni non aveva superato il quarantadue, niente di inaspettato, vista la voglia di studiare che avevano. D'altra parte perché sforzarsi troppo, quasi tutti erano figli di papà pieni di soldi, con studi dentistici, di avvocato, industrie o alberghi già pronti ad accoglierli quando sarebbero stati pronti. Le loro strade erano già tracciate e ben visibili sul terreno. Non come la sua, che era piuttosto un misero sentiero nel bosco delle possibilità: nessuno aveva preparato per lui null'altro che un'educazione onesta e laboriosa, si, perché i suoi genitori erano stati in grado di tirarlo su con principi ferrei ma con una scarsa disponibilità economica, che peggiorò nel tempo quando la madre si ammalò e dovette lasciare le sue classi della scuola elementare. Il padre dovette con il suo magro stipendio tirare su i due figli e curare la moglie che lentamente si riprese, ma non riuscì mai più a tornare ad insegnare. Fu duro, quasi inflessibile nella loro educazione, non esitò di usare la cinghia per convincerli a seguire le regole e controllava fino alla mania le amicizie dei due adolescenti, perché sapeva che in una città come Napoli era facile prendere strade sbagliate, bastava una conoscenza deviata, una svista ed il ragazzo sarebbe finito in giri poco raccomandabili, ed il suo lavoro di padre se ne sarebbe andato a quel paese. Con la scuola poi era ancora più esigente, voleva, anzi pretendeva che i due suoi figli facessero una vita migliore della sua, anche perché lo aveva promesso alla moglie al suo capezzale, quando l'ictus le aveva bloccato la gamba ed il braccio destro, e così li aveva iscritti al liceo Umberto, quello dove i ricchi mandavano i loro rampolli. Lorenzo aveva vissuto il dramma in silenzio, come era abituato a fare, aveva accettato di entrare in quella scuola che odiò fin dal principio, ma sapeva che suo padre avrebbe fatto di tutto per non fargli mancare niente, a costo di lavorare la notte, e non si ribellò, apprezzava gli sforzi di quell'uomo stanco ed in un certo senso solo, ma vedeva fin troppo bene le differenze tra lui ed i suoi compagni. Per questo, Lorenzo, seguendo la promessa del padre, aveva deciso, che qualunque cosa avrebbe fatto, da grande, sarebbe diventato il migliore, o comunque ci avrebbe provato. Da studente non poteva far altro che studiare. E capire quello che studiava, cosa non scontata. In futuro poi avrebbe scelto la sua strada.

Ma il futuro era già alle porte, perché dopo la maturità, si pose il problema della facoltà da scegliere, ed iniziò la prima delle sue battaglie. Il padre ed i professori lo incoraggiavano a decidersi, tra una delle classiche facoltà, quelle che gli avrebbero garantito un avvenire sicuro, agiato, degno di una persona brillante come lui, la madre non parlava, ma lo guardava con sguardo severo e corrucciato. 

Per loro era facile parlare, ma per lui no, lui, grazie al teatro, aveva scoperto in quegli anni bui un'altra dimensione, che lo aveva salvato, facendolo viaggiare attraverso i secoli, le epoche, le lingue e le nazioni, facendolo diventare ora un militare, ora un marito, ora un fidanzato od anche un pazzo ed un ladro. No, lui non si vedeva con la giacca e la cravatta a dare del Lei ad un capo ed a stare dietro ad una scrivania a scrivere progetti, amava trasformarsi, diventare qualcun altro, vivere ogni giorno un'avventura diversa, il suo sogno era girare il mondo su quattro assi di legno polverose e un palcoscenico. Lui non aveva dubbi, voleva diventare un attore. Niente lo emozionava e lo faceva vibrare dentro così tanto come l'attesa dell'apertura del sipario, quei pochi minuti in cui le luci del palco erano ancora spente ed il vociare ovattato della gente in sala segnalava che lo spettacolo stava per iniziare. Poi l'ultima campanella avrebbe avvertito gli spettatori di sedersi perché nel giro di poco sarebbe calato il buio.

Voleva diventare un attore, ma i genitori consideravano l'idea una assoluta idiozia, gli attori sono morti di fame, gli avevano sempre detto, ignoranti e morti di fame, pensi di andare a Hollywood? Sai quanti ci hanno provato e sono in mezzo ad una strada? Era stata una bocciatura senza appello. Certo, poteva sempre continuare a coltivare la sua passione come un hobby, ma doveva fare un lavoro serio e guadagnarsi da vivere per davvero. E soprattutto doveva prendersi una laurea. Come aveva fatto il fratello che aveva scelto economia e commercio e sarebbe diventato sicuramente un commercialista di grido.

"Che palle!", commentava sempre Lorenzo alla fine di ogni discussione, si chiudeva in camera sua, prendeva uno tra le decine di copioni che aveva nella sua libreria e si perdeva tra le battute dei personaggi di Eduardo, il suo idolo, visto solo in videocassetta purtroppo, perché era morto quando lui frequentava ancora le scuole elementari. Alla fine, dopo tante polemiche in famiglia ed un'estate passata in protesta in un campeggio sulla costa di Palinuro, cedette alla ragione e lasciò la passione in un cassetto. Almeno così avevano creduto tutti, egli stesso compreso. Si iscrisse di malavoglia a giurisprudenza, perché era la facoltà che secondo lui gli avrebbe lasciato più tempo libero delle altre, pose della cenere fredda sulle braci ardenti, in attesa di poterci soffiare su ancora una volta, ed aprì i libri di diritto. Sembrò la fine dei suoi sogni, ma non tutti i mali vengono per nuocere.

Fu tra le panche dell'università che la vide per la prima volta, non se ne innamorò perdutamente al primo sguardo, anzi a dire la verità quasi non la notò tra le centinaia di persone che gremivano il loggione dell'aula. Non era strano, lui prendeva posto sempre tra le prime file, perché altrimenti le luci artificiali associate alla sua miopia gli avrebbero impedito di seguire la lezione, per osservare bene il profilo di lei avrebbe dovuto girarsi, scrutare tra la folla e cercare una figura magrolina con una cascata di capelli d'oro che si mimetizzava tra decine di altre persone intente a non seguire la lezione ed a chiacchierare del più e del meno. D'altra parte lui aveva una ragazza e non aveva iniziato l'università per trovarsene un'altra, anche se, si sa, le tentazioni in certe occasioni possono diventare irresistibili, specialmente se girano vestite con gonne sopra il ginocchio, stivali e maglie un po' troppo scollate. Ma non era stato quello il caso, non perché lei non fosse molto carina, anzi, probabilmente sarebbe stata anche il suo tipo, ma perché il passaggio dal liceo all'università era stato per Lorenzo, come probabilmente un po' per molti i ragazzi della sua età, un piccolo trauma, una sorta di passaggio, da una fase in cui il mondo era piccolo e controllato, con i professori che li avevano accompagnati nel momento più difficile dell'adolescenza, ad un'altra in cui sarebbe stato trattato da adulto in un mondo più grande, con aule enormi ed imponenti, e docenti austeri e poco comunicativi. Insomma, il povero Lorenzo, combattuto tra l'amore per il teatro, la scelta di una facoltà che non aveva desiderato ed una ragazza che frequentava già da un anno ma che non aveva ancora intenzione di andare a letto con lui, aveva perso la sua prima buona occasione di conoscerla. Se solo si fosse soffermato un istante in più quando i loro sguardi si erano incrociati.

CAPITOLO TRE

Lo vidi appena entrata nell'aula, esattamente il primo giorno di lezione, eravamo tanti, almeno quattrocento persone, forse di più, io stavo chiacchierando con alcuni studenti che, come me, non erano riusciti a trovare posto nelle file più basse, quando, alla base della gradinata incrociò il mio sguardo, era lui, un ragazzo con un paio di stivali da cowboy, giubbotto di pelle marrone ed un casco in mano, si era alzato per trovare una posizione migliore e per un brevissimo istante i nostri occhi si sono incrociati. Probabilmente lui neanche si era accorto di me, io invece si, eccome, fu come un lampo di luce, e poi lo vidi rigirarsi e voltarmi le spalle, e sistemarsi i suoi capelli lunghi biondi. Decisi che dovevo conoscerlo, e quando io mi metto in testa qualcosa, niente me la toglie.

Il liceo per me era stato piuttosto facile, ero una ragazza, in una classe con una grande maggioranza di maschi, adolescenti e testosteronici, avevo avuto buon gioco con molti di loro ed ero riuscita ad avere un piccolo stuolo di cavalier serventi che, in attesa di una mia gentilezza erano praticamente a mia disposizione: c'era chi mi portava tutte le mattine la pizzetta calda del salumiere, chi mi portava il vocabolario di latino, chi ancora mi regalava penne e matite e poi c'era il più disperato, Marrazzo, che mi aspettava davanti alla scuola al ritorno dalle vacanze estive con un quaderno nuovo, nel quale erano stati svolti tutti i compiti assegnati, con la mia grafia perfettamente imitata. Ovviamente nessuno di loro ha mai ricevuto un bacio o un appuntamento, bastava un sorriso ed un grazie sospirato un po' per farli sciogliere ai miei piedi, e dar loro la speranza. Non fu così con lui, che per quanto mi sforzassi di farmi notare, non mi vedeva, non mi guardava, non mi rivolgeva nemmeno la parola. Non che io mi disperassi per questo, avevo tanti amici con cui uscire e non ero certo il tipo che sbavava appresso ad un ragazzo, ma, sotto sotto, il mio amor proprio di donna certamente non ne era contento, qualcosa andava fatto. Con calma, a suo tempo, ma mi avrebbe notato.

L'occasione sarebbe arrivata prima o poi, sarebbe bastato tenere d'occhio la preda, cosa che però sembrava più difficile del previsto, perché si contornava di ragazze, che gli facevano le fusa come gattine, lui si muoveva con sicurezza tra i banchi, e si rivolgeva a loro con espressione un po' saccente, sempre con un quaderno in mano, pronto a prendere appunti che gli sarebbero stati utili per lo studio. Gongolava con aria distratta quando quelle sciacquette lo adulavano, ma era un uomo, e come tutti sicuramente amava due cose, culi e tette. Sul primo ero ben fornita, grazie al pattinaggio ed alla pallavolo, le seconde mi creavano qualche problema, io sono sempre stata una ragazza atletica con un corpo ben definito, con muscoli, ma senza un filo di grasso, nemmeno dove avrei voluto. Questo mi fece pensare un po', anche perché sarà stato un caso, ma tutte le ragazza che gli stavano intorno, erano piuttosto abbondanti, che gli piacessero le tettone?

Decisi che non sarei rimasta in attesa di un suo cenno, mi sarei divertita durante quegli anni. Certo, stavo ancora insieme al mio fidanzato storico Gianni, che avevo conosciuto alle scuole medie, ma di lì a poco ci saremmo lasciati, avendo chiaro che ormai il nostro era praticamente un rapporto tra fratelli, ci volevamo bene, ma nulla più. Avrei finalmente potuto scoprire il mondo da vicino.

E così è stato, il gruppo dei ragazzi del loggione era certamente meno volenteroso di quelli delle prime file, ma nettamente più vivace, amavano uscire la sera, le gite in moto, le partite allo stadio, e la discoteca. Oh si quante notti ho passato nelle discoteche della città e dei dintorni non saprei, e che nomi altisonanti avevano: Le Dune, Virgilio, My Way; mi piaceva ballare, e sudare senza pensare a niente, peccato che non reggessi troppo bene l'alcol, o meglio, non lo reggessi come un uomo alcolizzato, in genere se superavo il terzo cocktail finivo la mia serata nei bagni della discoteca e poi venivo trasportata di peso a casa da qualcuno più o meno sconosciuto. Per fortuna nessuno ha mai abusato di me in quei frangenti, o comunque non me ne sono mai accorta. Certo i cocktail che andavano in quel periodo erano fatti proprio per colpire in testa, ancora mi ricordo dell'Angelo Azzurro o del Laguna Blu, non ho mai capito se fossero lo stesso intruglio, ma sicuramente erano belli forti entrambi. Per non parlare del peggiore di tutti, il Quattro Bianchi, che non aveva alcun sapore, ma era una bomba: Tequila, Gin, Vodka, e Rum bianco, creato secondo me soltanto per liquefare il cervello. Mi divertivo, lo ammetto, ballavo, sempre in gruppo, con tutti gli amici, ma lui non è mai venuto in una discoteca, non l'ho mai incontrato, chissà cosa faceva e a cosa era interessato. Eppure ho girato diversi locali, ma lui non c'era mai, dovevo sempre aspettare il lunedì per incontrarlo in aula, con quel suo giubbotto di pelle e gli stivali. Mi piaceva immaginarlo in piedi, dopo che avesse appena legato il suo cavallo li dove noi tenevamo i nostri motorini vecchi ed arrugginiti.

CAPITOLO QUATTRO

Fu in una mattina di dicembre, fredda ma soleggiata, che Lorenzo ricevette l'invito, i corsi erano ormai iniziati da un po' e le matricole ormai si conoscevano più o meno tutte fra loro, si erano anche creati i vari gruppi di studio e le prime simpatie si palesavano, lei gli si parò davanti con sfacciataggine disarmante e gli disse: "Ho organizzato una festa di Natale per sabato prossimo a casa mia, vuoi venire? Ci sono un po' di colleghi, così facciamo tutti amicizia! Ah, dimenticavo, io sono Claudia, nel caso non ricordassi il mio nome!". Lui non trovò controindicazioni a quell'invito, ed accettò di buon grado, notando comunque che quella ragazza magrolina con l'aspetto da santarellina, nascondeva una caparbietà molto spiccata.

Quando si aprì la porta dell'appartamento al Vomero, lui vide una figurina esile fasciata da un vestitino di velluto rosso che le scopriva le gambe sopra il ginocchio, con un cappello da Babbo Natale che parzialmente nascondeva la cascata di capelli biondi. La pelle del viso, bianchissima, era ravvivata dal colpo di colore delle labbra, ovviamente rosso fuoco. Quell'immagine sarebbe rimasta stampata nella mente di Lorenzo per tutta la vita, ma in quel momento non se ne accorse, acquisì soltanto l'informazione, la salutò e presentò ai presenti la sua ragazza, Daniela, che, come un lupo in difesa del suo territorio, prima si guardò intorno per scovare minacce e pericoli e poi gli intimò di pulirsi i resti di rossetto che l'ospite gli aveva lasciato sulla guancia. La serata passò velocemente, senza strappi o colpi di scena, d'altra parte alcuni invitati erano vecchi amici di Claudia, ed avevano contribuito a rendere la festa piacevole, altri, come Lorenzo e vari colleghi, si incontravano in area non universitaria per la prima volta ed avevano approfittato per scambiare quattro chiacchiere e conoscersi meglio. Daniela non si allontanò da lui neanche per un minuto, e quasi con aggressività pretendeva che Lorenzo le preparasse il piatto dal buffet, le portasse il bicchiere con il cocktail, insomma che mostrasse a tutti che era un devoto fidanzato. Lui, dalla sua parte, era innamorato di Daniela, anche se a distanza di anni, non avrebbe saputo dire il perché, erano due caratteri molto diversi, che si andavano formando con le esperienze di ogni giorno, e che ogni giorno divergevano un centimetro di più. Ma a quel tempo lui era ancora convinto che lei fosse la donna della sua vita. Sbagliando ovviamente, ma sbagliare è umano, perseverare un po' meno.

Dopo aver mangiato abbondantemente e bevuto con moderazione, erano sempre a casa di una ragazza, con i genitori che facevano da valletti dalla cucina al salone, qualche buontempone amico di Claudia propose di cominciare i giochi di Natale, quelli che riempiono il tavolo verde di bucce di mandarino, carte napoletane, fiches colorate, monetine e frutta secca. Lorenzo odiava quei giuochi, gli ricordavano le interminabili serate a casa dei parenti nelle quali era costretto ad annoiarsi durante il pomeriggio per arrivare alla cena e dopo per arrivare alla mezzanotte. Non amava scommettere, non era fortunato al gioco, e non trovava divertenti le carte. Solo il tressette a perdere aveva avuto per lui un certo fascino l'estate di qualche anno prima, ma probabilmente perché giocava sempre con una ragazza di cui era perdutamente invaghito da quando era quasi bambino, ed alla quale non aveva mai confessato la sua cotta. Sicuramente se avessero passato i pomeriggi a ricamare, per lui sarebbe stato lo stesso.

Quella sera però non si annoiò, accettò di giocare perché sarebbe stato poco elegante rifiutare l'invito, Daniela infatti notò la stranezza e gli disse nell'orecchio: "Ma tu odi giocare..." sperando di poterlo convincere ad allontanarsi dal tavolo e da eventuali pretendenti. Ma lui le sorrise e si sedette accanto a Claudia che gli mostrava il posto libero accanto a lei. La guardò, e mentre il ragazzo a capotavola mischiava le carte per fare il primo giro di sette e mezzo, qualcosa di lei lo colpì, era fresca, spensierata, spontanea, aveva una voce squillante che diventava sensuale quando abbassava il tono, ed era divertente, si, lo faceva sorridere, vicino a lei, si sentiva più leggero, più gioioso. Non era poco per un ragazzo come lui, che viveva un continuo tormento interno, da quando era piccolo, si sentiva inadeguato, inadatto alla città in cui viveva, considerava la maggior parte delle persone che aveva intorno a se vuote e stupide, e per di più arroganti e spesso violente; lui odiava la violenza ed il mondo che aveva intorno, anche perché non sapeva battersi, aveva paura di farsi male, non era abbastanza coraggioso da lasciarsi coinvolgere in una rissa. Probabilmente, anzi sicuramente non aveva mai picchiato nessuno. Ma avrebbe voluto farlo, eccome, quante volte aveva ripensato ai gruppetti di guappi che sull'autobus lo avevano preso in giro e tentato di indurlo a reagire, ma lui non aveva ceduto, non reagiva mai, ma non riusciva a trattenere quello sguardo di supponenza che tanto infastidiva gli altri, e soprattutto non riusciva a trattenere quella lingua tagliente che in futuro avrebbe rischiato di metterlo nei guai. Anche quella sera, vedeva diversi personaggi che cercavano di guadagnare maggiore visibilità nella compagnia, con barzellette, battute, toni alti e lazzi, lui non sarebbe mai stato come loro, pensava, era timido in fondo, e scostante, e non aveva molto da dire in mezzo a tanta gente, a meno che non dovesse recitare un copione. Lorenzo non sapeva parlare del più e del meno, o del tempo, non amava la dialettica sterile, quella che puntava a dimostrare chi avesse ragione su un qualsivoglia argomento, no, lui preferiva entrare in contatto con le persone e conoscerle, per poter scoprire cosa avessero dentro. E non non aveva mai avuto un gruppo di amici, maschi, come spesso i ragazzi hanno a quell'età, tranne i tre nerd del liceo, lui non amava fare parte di un branco, e soprattutto non tollerava i capibranco, e quelli che si sfidavano in prove idiote tanto per dimostrare la propria eccellenza in stupidi ed inutili abilità, come lo sputare più lontano degli altri, o bere una bottiglia di birra senza staccare la bocca, o peggio sfidare la legge rubando pacchetti di gomme dal tabaccaio o lanciare gavettoni dal balcone. Era normale che ci fossero quelle persone, e lo era anche quella sera, ma quella volta a lui non importava, li guardava anzi con occhio quasi benevolo, stava bene accanto a Claudia, era a suo agio, non sentiva fastidio, aveva la sensazione che lei lo conoscesse da tempo immemore, anche se ovviamente non era così, e, cosa ancor più strana per un po' aveva quasi dimenticato Daniela che alla sua destra gli stava chiedendo da dieci minuti di passarle il portafogli. Non aveva sentito la sua voce, soltanto quando, con una certa irruenza seccata, gli aveva colpito più volte la spalla per farsi notare, aveva voltato lo sguardo verso di lei e si era reso conto che le sue labbra si stavano muovendo e come una valanga le sue parole lo colpirono: "Ehi mi stai ascoltando o no? Il portafogli, passami i soldi!". In quel preciso momento ebbe la netta sensazione, effimera ma nitidissima, di avere accanto a se contemporaneamente il proprio futuro ed il proprio passato. Da un lato c'era un'onda che lo portava al largo e dall'altra un'ancora che lo teneva legato alla riva.

Fu la prima, delle tante volte che scelse l'ancora.

Fu la prima delle tante occasioni perdute.

CAPITOLO CINQUE

Passai le vacanze di Natale a Roccaraso, come la maggior parte dei Napoletani abbienti. Si, mio padre aveva acquistato una bella casa grande in un residence in costruzione diversi anni prima e finalmente era arrivato il tempo di passare un po' di giorni sulla neve. Mi piace sciare, mi viene naturale, non ho neanche bisogno dei bastoni, io scendo e basta, non ho mai fatto lezioni, sento la pendenza, le gobbe, ed il vento in faccia. Il mio corpo si muove spontaneo, premendo su uno o l'altro sci ed io magicamente faccio le curve, accelero o rallento. Neanche i miei genitori se lo sanno spiegare, ma ho imparato da sola, guardando gli altri, e quando, a tredici anni, mio cugino mi disse che non avrei avuto il coraggio di scendere la pista con lui, perché non avevo fatto lezione, io mentii senza riguardo dicendo che si sbagliava ed andai con lui. Avevo una strizza paurosa, non avevo mai nemmeno preso uno skilift, ma salii e senza batter ciglio mi lanciai sulla discesa, all'inizio chiusi gli occhi per la fifa, ma poi sentendo che invece di cadere acquistavo velocità, li aprii e vidi che il mondo mi sfrecciava ai lati, gli alberi, le persone, le bandiere, ed io andavo, non sapevo come, ma andavo, fu una sensazione stupenda, ma soprattutto fu la conferma per tutti quelli che mi conoscevano, di una mia caratteristica importante: io non avrei permesso a nessuno di dirmi che non sarei riuscita a raggiungere un obiettivo. Anzi, quando qualcuno sorridendo mi prende in giro con un banale "Non ce la farai mai..." , io reagisco, come Marty McFly in Ritorno al futuro, quando gli dicevano che era un fifone: divento un'altra, qualcosa di animalesco scatta in me, certo, per questo motivo qualche volta mi sono cacciata in brutti guai, altre, invece mi sono salvata per miracolo, ma per fortuna sono ancora qui a raccontarle.

Comunque io amo la montagna, sarà per la casa, che è bella, confortevole, con il camino e le lenzuola di flanella, sarà perché si mangia tanto e si mangia bene, o forse perché posso avere mio padre sempre con me, lui che normalmente lavora quattordici ore al giorno insieme a mia madre, chiusi in uno studio, e posso divertirmi con lui a pulire, fare giardinaggio, sistemare il garage, riparare le gomme delle biciclette. Insomma godermi tutto il tempo che non sto sulle piste, insieme a lui. Come tutte le figlie, probabilmente, avevo costantemente paura di perderlo, lo vedevo grande, la sicurezza che mi donava era enorme, ma forse anche per questo mi sembrava che il tempo passato insieme non fosse mai abbastanza. E' probabilmente è stato così. Quel Natale piantammo insieme degli alberelli nel giardino che dà sulla strada, erano delle tuie, ed erano piccole ed indifese, ma quando sarebbero cresciute avrebbero fatto una gran bella figura. Per il momento sembravano microscopiche rispetto al roseto che imperava davanti al balcone.

Passeggiavamo molto, anche con mia madre e con mio cugino Marco che aveva un appartamento nello stesso stabile, seguivamo il sentiero che da Rivisondoli portava a Pescocostanzo, era un sentiero magico, d'inverno era candido di neve, mentre d'estate dopo il tramonto era tutto illuminato da lucciole, grandi ed allegre, di quelle che si vedono solo nei cartoni animati. Qualche volta andavamo al bosco di Sant'Antonio per un'escursione insieme ad altri amici, oppure semplicemente nella piazza del paese a comprare la focaccia all'olio, calda e fragrante, che non riusciva quasi mai ad arrivare a casa intatta. In una di queste passeggiate, mi sembrò di vedere Lorenzo, ma forse mi sbagliai, anche perché non mi aveva detto che sarebbe venuto in montagna; ciò che mi aveva attirato era l'abbigliamento: stivali e giubbotto di pelle, come all'università, ma non poteva essere lui, si sarebbe congelato vestito in quella maniera, con quattro gradi sotto lo zero. Camminava da solo, eppure sembrava proprio lui, ma non lo chiamai, non gli andai incontro, lo lasciai allontanare camminando sul selciato con un'andatura ondeggiante che ricordava John Wayne. Lo vidi allontanarsi e non feci altro se non guardarlo, non perché non mi andasse di chiamarlo, ma perché avevo appuntamento con il mio fidanzato Gianni, davanti al cinema sul corso ed ero un po' in ritardo, e sapevo che lui, essendo una persona esageratamente puntuale, si sarebbe innervosito moltissimo se avessi perso ancora tempo. Mi affrettai, ma mentre camminavo con il mio solito passo da marcia su Roma, passai su quelle che sembrava una pozzanghera quasi asciutta ma che in realtà una lastra ghiacciata: il piede perse l'attrito all'improvviso, grazie alla forza che avevo impresso alla gamba, feci quasi una capriola nel vuoto, atterrai malamente sul sedere, peraltro ben foderato, quindi non mi feci tanto male, ma mentre ancora cercavo di rialzarmi, sentii una voce chiamarmi ed una mano che si poggiava sulla mia gamba: "Claudia, ti sei fatta male?", ricordavo quella voce ma non riuscivo ad inquadrarla, mi voltai e vidi Diego Iaccarino, un mio vecchio compagno di classe, che, col fumo che gli usciva dalla bocca era inginocchiato vicino a me per soccorrermi. Io restai ovviamente un po' sorpresa, non lo vedevo da diversi mesi, e non mi aspettavo di incontrarlo in quell'occasione, anche se non c'era niente di strano, il corso di Roccaraso durante le vacanze di Natale era più o meno come via Caracciolo, avrei rivisto un mucchio di altre persone in quei giorni. "Iaccarino, che ci fai qui?", gli chiesi, chiamandolo per cognome, come sempre accadeva tra liceali, mi stupì la sua solerzia e quell'espressione trasognata che aveva mentre mi soccorreva, come se avesse appena baciato la Bella Addormentata nel bosco, non me lo ricordavo così premuroso, non era stato fra i miei spasimanti dell'ultimo anno, però in lui c'era senza dubbio qualcosa di strano. In men che non si dica si era formato il solito capannello, con gente che chiedeva cosa fosse successo, se mi fossi fatta male o se avessi battuto la testa. Io stavo benissimo e mi ero già rialzata, ma con la caduta mi ero bagnata tutti i pantaloni, ed avevo un grossa chiazza scura proprio sul mio proverbiale sedere, che in quel momento tutti stavano fissando. Diego colse l'occasione per invitarmi a prendere un punch al mandarino ed a scaldarmi davanti al camino del bar di fronte, io accettai, poiché combinata in quella maniera non potevo certamente andare in giro, mi sarei congelata senza dubbio. Gianni mi avrebbe aspettato invano per una decina di minuti e poi se ne sarebbe andato a casa imbufalito, ma tanto non avevo alcuna possibilità di avvisarlo, un imprevisto può sempre accadere, poi in qualche modo gli avrei spiegato l'accaduto.

Diego era diverso, più adulto di come l'avevo lasciato alla fine dell'anno scolastico, era premuroso, mi offrì anche un dolcetto con la crema, l'atmosfera un po' retrò del bar sul corso faceva da perfetta cornice all'incontro, mi sentivo come in uno dei cinepanettoni che avevo visto a Natale al cinema che stava poco più avanti, e mi raccontò che si era iscritto a scienze politiche, ma non si trovava bene, perché le lezioni erano confuse ed affollate, non conosceva nessuno e non aveva incontrato persone simpatiche come me. Quando gli dissi che io invece stavo frequentando legge e che invece non mi potevo lamentare, lui si illuminò, infatti, disse, stava proprio pensando di cambiare facoltà e doveva scegliere qualcosa che gli piacesse. Continuò dicendo che l'idea di iscriversi a giurisprudenza non sarebbe stata male, anche perché c'ero io, mi chiese anche che cosa ne pensassi della sua scelta, ma io ovviamente non mi espressi perché non avevo elementi validi su cui basarmi, mi limitai a sorridergli mentre pensavo a Gianni fuori al cinema infreddolito ed arrabbiato. Alla fine dopo circa un quarto d'ora di pro e contro mi promise che si sarebbe trasferito il prima possibile, e mi estorse anche la promessa che avremmo studiato almeno qualche esame insieme.

Mai promessa fu più avventata.

Quella parola data innescò una serie di eventi a catena che cambiarono il corso della mia vita.

E mi allontanarono inesorabilmente dal mio obiettivo primario: Lorenzo.

CAPITOLO SEI

Lorenzo non aveva mai accettato veramente la facoltà di giurisprudenza, continuava a frequentare i corsi, ma in modo svogliato ed assonnato, perché la sera faceva spesso tardi con le prove al teatro. I genitori erano convinti di averla avuta vinta perché tutte le mattine usciva da bravo studente universitario ed andava a studiare i rudimenti del diritto, ma erano comunque contenti che il figlio avesse mantenuto un hobby che lo stimolasse a stare con la gente, a fronteggiare il pubblico, erano convinti che sarebbe stato utile per il carattere del ragazzo. Ed avevano ragione, almeno in questo, perché Lorenzo era indubbiamente introverso ed un po' ombroso, ma quando saliva sul palcoscenico del piccolo teatro parrocchiale e sentiva gli applausi del pubblico, si trasformava, il resto del mondo non esisteva più, lui non più era lui, qualcosa entrava nel profondo e lo stregava, i suoi personaggi si animavano, con modi e parole e gesti tutti loro, le quinte e la scenografia di cartone diventavano la sua casa e la compagnia, la sua famiglia, che lo amava e lo rispettava. Spariva la timidezza, spariva la paura di parlare o il timore di essere giudicato o non accettato dagli altri ragazzi, diventava sfrontato, aggressivo, pazzo, divertito, guappo oppure gentiluomo di inizio novecento, medico, musicista, sindaco, padre, figlio. Lorenzo era nato per il teatro, eppure ancora non lo sapeva, o meglio non se ne rendeva conto. Certo, non era agevolato dalla famiglia e dagli amici, che pensavano a tutt'altro, e nemmeno dalla fidanzata Daniela, che lo guardava con sospetto, giudicava degli sfigati i ragazzi della compagnia, che in effetti non erano certo delle cime di cultura, ma il teatro, almeno quello che facevano nella parrocchia, era democratico, una livella, metteva tutti sullo stesso piano, maschi e femmine, bianchi e neri, professionisti e disoccupati, famiglie buone e disgraziate. A lui questo piaceva, amava la commistione di lingue, di esperienze, e di intelligenze, capiva anche che lo scopo principe di quella compagnia non era formare attori professionisti, ma soprattutto fare integrare i ragazzi, soprattutto quelli che per un motivo o per un altro erano ai margini della società, o che avevano dei problemi. Napoli d'altra parte è così, anche nei quartieri residenziali, come Posillipo, convivono a pochi passi realtà diametralmente opposte, proprietari di attici con vista sul mare e occupanti di bassi nei vicoli del Casale, Mercedes e motorini rubati, Soci del Circolo Canottieri e aspiranti parcheggiatori abusivi o spacciatori: è una delle caratteristiche di quella città, il forte contrasto di colori, di umori e di suoni. O si ama o si odia.

Avrebbe dovuto capirlo subito che Daniela non era la ragazza per lui, dal momento che si erano messi insieme, non c'era stato alcun colpo di fulmine, nessun trasporto particolare da parte di lei, anzi era sembrata quasi una trattativa notarile, loro erano stati amici per un po', perché avevano cantato nel coro della scuola e poi avevano cominciato ad uscire insieme, in comitiva, o da soli, al cinema o restando a casa a provare qualche pezzo, comunque si erano visti abbastanza spesso, poi lui le aveva proposto di diventare qualcosa in più, lei lo aveva ascoltato, aveva appuntato mentalmente le sue ragioni e poi lo aveva rimandato ad una settimana dopo. Alla fine, dopo qualche giorno di valutazione, e dopo aver stilato una lista dei pro e dei contro, lei gli aveva comunicato l'esito positivo della transazione. A parte l'inizio sui generis, certamente non tipico di due giovani che avrebbero dovuto saltare tutti i convenevoli, e cercare ogni momento per esplorare la bocca ed il corpo dell'altro, senza pensare certo al domani, la loro storia si era dipanata più come un saggio sulle relazioni interpersonali che come un romanzo d'amore, era nata lentamente e placidamente, senza strappi di passione o eccessi, era quasi tutto calcolato e studiato: entrambi di buona famiglia, intelligenti, svegli, un'unione fattibile, ideale, peccato che mancasse qualcosa di fondamentale, il pathos. Comunque per un bel po' continuarono a stare insieme, ma lei non condivise mai i suoi fremiti per il teatro, anzi, abbandonò anche il canto, che era stato ciò che li aveva uniti inizialmente. Lui invece manteneva saldo il suo legame col palcoscenico, anzi, studiava di nascosto, non solo i copioni che gli erano assegnati, ma leggeva il brani antichi e contemporanei, locali ed internazionali, inoltre provava a scrivere, componeva pezzi musicali, si documentava consultando manuali di teatro e regia, guardava le commedie di Eduardo in videocassetta più e più volte, cercando di cogliere l'intensità delle espressioni, i tempi e le pause, gli alti e i bassi della voce, e studiava la scelta degli attori.

Di giorno si vestiva, prendeva la sua moto e andava a frequentare i corsi che lo annoiavano mortalmente, ingannava se e la famiglia e poi si dedicava a ciò per cui era nato.

Quel Natale accadde qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita, durante la cena che tradizionalmente i ragazzi della compagnia organizzavano per scambiarsi auguri e pensieri, il regista aveva chiamato da parte lui ed un altro e ed aveva detto loro che una compagnia teatrale semi professionistica stava cercando un attore per una particina. Avrebbero fatto un provino in piena regola e solo uno dei due sarebbe stato scelto per la parte, il brano sarebbe stata breve, ma chi avesse superato il provino, avrebbe vissuto un'esperienza molto interessante perché sarebbe entrato in un mondo diverso da quello piccolo e protetto del quartiere. I ragazzi avevano accettato di buon grado ed una settimana dopo si erano presentati in un appartamento antico, dalle parti di piazza Garibaldi, arredato con mobili di inizio secolo, come quelli che aveva visto nelle commedie di De Filippo. Appena entrati si sentirono stranamente in soggezione con tutto quel mobilio pesante e fuori moda e gli occhi dei ritratti antichi sulle pareti che li fissavano, ma poi li accolsero una decina di persone di mezza età con un forte accento napoletano popolare, che con piglio deciso ed allegro li misero immediatamente a loro agio. Lorenzo era molto emozionato, ascoltò molto attentamente le indicazioni della regista, una donna piuttosto giovane per l'età media che aveva intorno, guardò uno per uno gli attori che gli sorridevano cercando di trasmettergli tranquillità, e poi utilizzò al meglio i due minuti che gli erano stati assegnati. Forse fu il fato, oppure il suo amico non aveva intenzione di avere la parte, fatto sta che la sua performance fu senza dubbio la migliore e con un forte applauso fu scelto per la parte.

Da quel giorno passò tutte le feste di Natale a provare la sua parte, il pomeriggio chiuso nella sua stanza e la sera, ogni volta in una casa diversa, senza nemmeno sapere chi fosse il proprietario dell'appartamento, ma lui non aveva problemi, prendeva la moto ed andava. Ma c'era un posto che gli piaceva di più degli altri, e che per fortuna più spesso degli altri veniva usato come spazio per le prove: era un locale gestito da uno degli attori, l'Hard Rock, una rivisitazione napoletana della catena di ristoranti dedicati alla musica. Quello era il posto che aveva preferito, con un ingresso attraverso una porticina angusta su una via altrettanto stretta ma molto frequentata a causa del gran numero di locali che vi si affacciavano, ma appena all'interno si apriva uno spazio molto grande ed articolato con numerosi tavoli e panche ed un vero e proprio palco per le performance dal vivo. Anche il menu era particolare, panini dedicati ai più famosi musicisti napoletani, da James Senese a Pino Daniele, fino ad arrivare a Tullio de Piscopo. Una bella trovata. Ma ciò che lo aveva conquistato era il palco, che lo faceva sognare di essere un vero attore, ogni tanto ci saliva, sfiorava la batteria in un angolo, lasciava vibrare leggermente il piatto per creare un po' di atmosfera e così chiudeva gli occhi e fingeva di vedere il pubblico davanti a se applaudire e divertirsi.

Poi arrivò il giorno della prima. Stavolta in un teatro che non conosceva, con un pubblico che non aveva mai visto, in un posto di cui non sapeva l'esistenza. Era il cinque di Gennaio, i suoi genitori non sarebbero andati a vedere lo spettacolo, era troppo lontano, e poi comunque lui li aveva dissuasi dall'andare, non ne valeva la pena per una parte piccolissima come la sua. Non sapeva perché l'avesse fatto, ma aveva voluto che quel momento fosse tutto suo, non aveva cercato testimoni, nemmeno la sua ragazza Daniela, manco a dirlo, era solo, con la sua nuova compagnia teatrale. Ma stava bene così. Aveva lasciato la moto fuori all'Hard Rock alle due del pomeriggio, e poi era arrivato fino al teatro in macchina con la regista ed il protagonista, che erano marito e moglie. Non aveva idea di dove si trovasse, aveva perso i riferimenti dopo pochi chilometri, mentre si addentravano in quartieri che non aveva mai frequentato, poi alla fine vide un enorme capannone, un teatro tenda, di cui nemmeno sapeva il nome, li si fermò la loro corsa, ed entrarono. Lo spazio dentro era immenso, c'erano forse mille posti a sedere, Lorenzo stentava a credere che quella sera tutte quelle persone sarebbero state davanti a lui, poi arrivò al palco, che era ancora un po' spoglio, alcuni stavano già lavorando per montare le scene, che con esperienza venivano su con grazia e velocità. Nel giro di mezz'ora tutto era pronto per la prova generale, impianti, arredi, tutto, dovevano indossare solo i vestiti di scena per la ripresa, ma notò che non c'erano camerini, solo uno spazio comune dietro le quinte, quindi tutti si cambiavano contemporaneamente, uomini e donne in modo piuttosto promiscuo e naturale, senza particolare vergogna, situazione ben diversa da quella cui era abituato con le ragazze che pudicamente si nascondevano nelle stanze delle donne anche se dovevano cambiarsi una scarpa. Notò che alcune donne discretamente conservate, erano presenti anche li, per lui che aveva vent'anni a stento, una quarantenne era già una vecchia, e ne apprezzò i lineamenti tonici fasciati da collant scuri e calze velate.

Poi arrivò l'orario, era quasi tutto pronto, la prova finita, lo spuntino fatto. Cominciava ad alzarsi la tensione, calò il silenzio all'improvviso, gli attori si appartavano per concentrarsi, il brusio del pubblico si iniziava ad avvertire. Era il momento più magico del teatro, quello che regala a chi lo vive la sensazione inspiegabile e irripetibile dell'attesa di ciò che sarebbe accaduto di li a poco, lo aspettava il pubblico che non sapeva cosa avrebbe visto, lo aspettavano gli attori, che non sapevano se la loro fatica sarebbe stata premiata: era un momento unico di tensione emotiva ed artistica dal quale di li a poco sarebbe sbocciato il miracolo del teatro. Mentre rifletteva sulle possibili cose che avrebbero potuto andare storte si accorse che davanti a lui c'era un pianoforte a coda, e seduto sullo sgabello, in silenzio, c'era Pasquale, il protagonista, era truccato, e vestito da padre di famiglia squattrinato e svogliato, aveva tolto la giacca, sembrava riflettere. Quando ad un tratto mosse le sue dita sul piano e cominciò a cantare, non era un canto sommesso, no, anzi, una voce potente da tenore si alzava da quel piano e si spandeva con forza in tutto il teatro. Non riconobbe immediatamente la canzone, era una classica napoletana, parlava d'amore, poi senti un nome e capi: Carmela. Era estasiato dalla bravura e dalla naturalezza di quel canto che sembrava venire dalle viscere della terra, sembrava che la stessa Napoli cantasse un canzone ad una sua fanciulla. Lorenzo si guardò intorno, tutta la compagnia si era avvicinata come per un richiamo, si abbracciarono tutti, anche lui con loro, ed un piccolo coro seguì la voce principale che poi lentamente si spense, così come era nata. L'atmosfera rimase surreale per qualche secondo, il crocchio si disperse, Pasquale si alzò dal piano e si mise la giacca, vide che il ragazzo lo fissavo stranito e gli disse: "La canto sempre prima di andare in scena, mi rilassa, lo sanno tutti, non si inizia senza Carmela!". Lorenzo non capì cosa intendesse, se ci fosse stata una Carmela nella sua vita o no, ma la commedia iniziò inesorabilmente, con la sala gremita, ed il calore della gente che invadeva tutto il teatro. Cunzumamm' Natale, questo era il titolo, un testo dolce amaro, scritto da uno di loro, che analizzava il Natale vissuto in povertà da una famiglia del rione Sanità, strozzata dai debiti e dalle bollette, ma che comunque cercava di dare tutto il possibile ai figli senza che loro dovessero soffrire dei problemi degli adulti.

La gente rise, applaudì, si divertì, probabilmente un po' troppo per gli standard cui il ragazzo era abituato, ma quello era un pubblico diverso, saltava all'occhio anche a uno poco esperto come lui, era gente di strada, che viveva alla giornata, gente che soffriva, che aveva bisogno di distrazioni per superare la notte della loro vita. Dopo due ore e mezza di recitazione, applausi ed abbracci, il teatro tenda si svuotò e la compagnia si ritrovò a dover sistemare le scene fino a dopo la mezzanotte, Lorenzo era stanco morto, fuori casa da quasi dodici ore, ma sulla strada del ritorno fu costretto ad un'altra sosta. La regista, la moglie di Pasquale, gli chiese se per lui fosse un problema fermarsi a comprare delle cose pochi minuti, lui ovviamente accettò, ma le fece presente che era quasi l'una di notte, sarebbe stato difficile trovare qualcosa a quell'ora di notte. Non finì nemmeno la frase che l'auto svoltò in una piazza gremita di gente, letteralmente migliaia di persone si affannavano intorno a bancarelle di ogni genere, illuminate a giorno. Sembrava mezzogiorno al mercato di Fuorigrotta.

"Che roba è?", chiese stupito, loro risero vedendolo così ingenuo.

"Qui stanno aperti tutta la notte per la Befana, compri quello che vuoi e lo paghi la metà, cioccolate, giochi, libri, quello che vuoi, qua lo trovi a molto meno, e noi veniamo sempre qui per comprare i regali ai nostri figli, facciamo una calza esaggerata, troppo bella, mo' ti faccio vedere!". Pasquale parcheggiò la macchina in tripla fila, sapendo che nessuno sarebbe passato a chiedergli conto e ragione di quella scorrettezza e si incamminò a passo deciso del dedalo delle bancarelle, arrivando a colpo sicuro in uno slargo in cui Lucignolo nel paese della Cuccagna sarebbe impallidito. C'erano cascate di cioccolatini, baci, bon bon, caramelle colorate, mandorle tostate, blocchi di fondente, carbone bianco e nero, frutta martorana, dovunque si girasse vedeva dolci, Pasquale prese una busta e cominciò rapidamente a prendere qua e la quello che desiderava, non c'erano prezzi segnati da nessuna parte, manco a dirlo, ma apparentemente nessuno si era posto il problema. In meno di dieci minuti erano fuori dal mercato con due buste piene di dolciumi, un garage giocattolo, una bambola ed un grosso peluche, non chiese quanto aveva speso, ma dai loro occhi vide la soddisfazione di chi sapeva di aver risparmiato un bel po'. Sorrise rientrando in macchina, gli occhi ormai si erano fatti pesanti, in quella mezz'ora di strada prima di arrivare alla moto avrebbe cercato di recuperare le forze per arrivare a casa sano e salvo, tante emozioni in un solo giorno grazie al teatro ed ora anche quello, aveva appena toccato con mano ciò che la commedia da poco finita aveva raccontato, una Napoli in cui centinaia, forse migliaia o più, di persone disposte a uscire nel cuore della notte pur di portare ai loro familiari la testimonianza del proprio amore, anche quando per quell'amore dovevano spendere le uniche lire che erano rimaste.

La domenica successiva avrebbe replicato l'esperienza, sperando di evitare il mercato.

CAPITOLO SETTE

Dire che non abbia fantasticato su di lui sarebbe stato falso, non potevo fermarmi ad aspettarlo, in montagna mi erano successe tante cose, il mondo andava avanti, ed io mi volevo divertire, non avevo ancora nemmeno vent'anni. D'altra parte perché lo conoscevo appena, era fidanzato con quell'arpia dalle tette grosse, insomma era tecnicamente non era troppo disponibile. Anche se questo non era certo un problema insormontabile.

Comunque lo rividi appena ricominciarono i corsi, come sempre lui era alle prime file ed io sul loggione a fare casino, non avemmo molte occasioni di parlare anche perché un altro elemento di turbamento venne a disturbare i miei propositi: Diego. Si, proprio il ragazzo che mi aveva soccorso sul corso di Roccaraso, dopo circa dieci giorni dal ritorno all'università me lo ritrovai davanti:

"E tu che ci fai qui?" gli chiesi, quasi già conoscendo la risposta.

"Te l'avevo detto no? Non mi piaceva la mia facoltà, cos' ho deciso di passare a giurisprudenza!" rispose lui, con un sorriso che voleva essere ammaliante. Io lanciai l'amo, così tanto per ridere, e per sentirmi lusingata, senza impegno, quasi a volerlo prendere in giro.

"Ah, pensavo che fossi passato per venirmi a trovare!" commentai, aggiungendo un broncio da cagnolina, lui ci cascò come un bambino su una buccia di banana e si affrettò ad aggiungere che certamente era venuto lì per me, per chi altri sennò. Avevo flirtato, me ne ero resa conto, ma che c'era di male? In fondo, proprio nulla.

Da allora Diego Iaccarino aveva cominciato un processo di accerchiamento come un esperto giocatore di Risiko che per conquistare la Kamchatka avendo la Siberia ed il Giappone, si appropria a colpi di dado della Mongolia, della Cita e della Jacuzia, per poi farla capitolare. Con mille piccole attenzioni, cercando di far notare la sua presenza in ogni occasione in cui poteva servirmi un aiuto, o anche semplicemente con un complimento, mi corteggiava. Questo mi lusingava, e certo, mi divertiva anche, ma piano piano l'immagine di lui, che non era oggettivamente bello, già un po' stempiato e con due canini aberranti che gli donavano un sorriso da vecchietto, nel mio inconscio si modificava, i sui difetti venivano lentamente coperti da un velo di gentile noncuranza, e cominciò a piacermi. Devo dire che dall'altra parte Lorenzo continuava a non accorgersi quasi di me, troppo impegnato ad intrattenersi con le gallinelle delle prime file che lo vedevano intelligente e speravano in un aiuto nello studio, ogni tanto sentivo qualcuna che lo invitava a casa sua per farsi spiegare le pagine di diritto, e lui non scontentava nessuna, diceva sempre si a tutte, chissà poi se alla fine ci andava.

Una mattina alla fine delle lezioni ero scappata prima degli altri perché mio padre era libero e mi aveva chiesto di accompagnarlo per la città a risolvere alcune questioni, sapevo che era una scusa, mio padre era fatto così, mi voleva vicino, da sempre, addirittura, quando ero piccola, alle elementari, non mi mandava a scuola il giovedì perché così potevamo trascorrere una giornata insieme. Io aspettavo tutta la settimana quel giovedì, più della domenica, per passare del tempo sola con il mio papà, poi al liceo questo non fu più possibile, ma ogni tanto facevamo una sortita, così all'improvviso per ricordare i vecchi tempi. Quella mattina, era chiaramente un giovedì e come tutti i giovedì degli ultimi vent'anni, lui non lavorava e voleva compagnia, così poco prima dell'ultima ora di lezione io me ne ero andata, era una bella giornata invernale con un bel sole, presi la mia Vespa Special e salii al Vomero, per parcheggiarla in garage. Solo allora mi accorsi di aver indossato gli occhiali da sole e di aver perso i miei occhiali da vista, non ero molto miope, ma per seguire le lezioni alla luce artificiale mi servivano, probabilmente li avevo lasciati sulla sedia all'università. Poco male pensai, erano vecchi e mezzi rotti, avevano una stanghetta attaccata con lo scotch e strati di sporcizia che risalivano al Cretaceo. D'altra parte io odiavo gli occhiali, quindi per me era stata quasi una liberazione, anche se avrei dovuto comprarne di nuovi. Non ci pensai più quel giorno, mi godetti il tempo con mio padre, andammo alla banca a piazza Amedeo, poi ci fermammo a prendere una pizzetta ed un'aranciata ed alla fine ci facemmo una bella passeggiata a via Caracciolo. Mi piaceva passeggiare con mio padre, da quando ero piccola, non era soltanto un camminare per le strade, ma era come fare una continua visita di istruzione, non smetteva mai di spiegarmi cosa avessi intorno, dalle chiese ai palazzi, agli alberi, fino anche agli animali ed alle loro abitudini. Mio padre sapeva tutto, per lui non era accaduto ciò che accade agli altri padri, che quando sei piccola è quasi un dio e poi lentamente torna ad essere umano, fino a diventare un vecchio bisbetico brontolone, no, lui per me è sempre stato il modello cui tendere, amorevole ma austero, severo ma dolce nell'animo. Secondo me anche lui si rendeva conto di essere molto più grande degli altri papà e per questo voleva godersi ogni momento della sua vita con me.

Il lunedì dopo ritrovai, al posto dove avevo lasciato la borsa, un paio d'occhiali, li guardai, somigliavano ai miei, ma chiaramente non lo erano, mancava lo scotch e l'unto che li contraddistingueva, ma erano dello stesso colore e modello. Li indossai, tanto per provare, e ci vedevo perfettamente, anche meglio di prima, perché erano andati via diversi strati di sporcizia. Mentre mi guardavo intorno, cercando di identificare il collo di pelle del giubbotto di Lorenzo giù, vicino alla cattedra, mi si parò davanti l'immancabile Diego che mi guardò con il suo sorriso senza canini: "Allora? Ti piacciono?" mi chiese.

"Ma lo hai fatto tu?", capii tutto immediatamente, avevo dimenticato gli occhiali nella fretta e lui li aveva ritrovati, ne era rimasto inorridito ed aveva deciso di sistemarli. Era stato proprio un tesoro.

"Si, erano un po' male combinati, non credi?".

Mi intenerii, e gli stampai un bel bacio sulla guancia, se lo era meritato, se non altro per la costanza e per l'idea. Lui non perse tempo, e, vista la mia buona disposizione mi chiese di studiare insieme. Io avevo già una mia compagna di studi, Chiara, una ragazza che avevo conosciuto in facoltà, ma con la quale mi ero subito trovata benissimo, perché era esattamente opposta a me, praticamente era una specie di santa verginella, talmente brava e buona da sembrare finta, non diceva parolacce, non parlava mai male di nessuno, e soprattutto voleva restare vergine fino al matrimonio, cosa che, nella Napoli peccaminosa che si avvicinava al Duemila era quasi esilarante. Ma quando si toccava l'argomento lei era molto seria e determinata, non lo faceva per un credo religioso, o comunque non solo per quello, non era una bigotta ma perché, come una ragazza d'altri tempi voleva che il suo uomo l'aspettasse per coronare il suo sogno di scoprire il sesso solo dopo il matrimonio. Aveva la fortezza e la costanza di superare la tentazione della carne, era encomiabile, sarà per questo che mi piaceva, io non riuscivo, mi concedevo all'ira ed ai piaceri della vita, il sesso mi sembrava una cosa normale e non intendevo attendere l'ineluttabilità del matrimonio per capire se le cose funzionavano, insomma anche le auto e le moto si provano prima di comprarle per non avere delusioni, figuriamoci gli uomini.

Comunque, quando Diego mi chiese di studiare a casa sua ebbi un istante di esitazione, poi vidi con la coda dell'occhio che Lorenzo si abbracciava con Giovanna, un'altra delle tettone che gli sbavavano dietro ed allora, quasi con un moto di rabbia, quasi per punire l'ignaro ragazzo che si faceva lusingare così facilmente, accettai. Sono sempre stata un po' vendicativa.

E per vendetta mi feci fregare.

CAPITOLO OTTO

Quel lunedì Lorenzo arrivò in facoltà ancora mezzo dormendo, la sera prima c'era stata la replica della commedia ed era arrivato a casa dopo l'una di notte, non trovò posto nei soliti banchi quindi si accontentò di salire nel loggione, in mezzo a visi che non riconosceva quasi per niente, non che la cosa gli importasse particolarmente, lui non era un tipo molto loquace, anzi qualcuno che lo conosceva meglio lo definiva un antipatico saccente, con la lingua tagliente, ma in realtà era soprattutto la sua timidezza che gli dava quell'aspetto poco sorridente ed ombroso, che però svaniva quando una ragazza si interessava a lui. Era una caratteristica che stava imparando a conoscere piano piano, guardandosi dentro, forse anche grazie alla passione per il teatro, si, gli piacevano le donne, ma non solo per poterci andare a letto, cosa che tra l'altro non aveva ancora fatto, perché Daniela dopo un anno ancora resisteva, e lui si reputava piuttosto fedele, ma per poter carpirne l'indole, l'animo, aveva capito che tra donne e uomini c'è una differenza abissale, siderale, con i suoi coetanei non riusciva a legare minimamente, non sapeva proprio cosa condividere con loro, se non una birra ed un rutto, li considerava poco più evoluti delle scimmie. Invece le donne erano un mondo sconosciuto e variopinto, pieno di sorprese, sentimenti contrastanti e desideri animali, insomma un meravigliosa terra tutta da scoprire. Per un'oscura alchimia, anche le ragazze che conosceva poco o niente appena lo incontravano gli raccontavano i loro pensieri più intimi, i dubbi, i problemi con i loro ragazzi, forse perché in quel suo sguardo canzonatorio ed un po' freddo, vedevano qualcosa di diverso dagli altri, forse perché il suo commento iniziale era sempre gli uomini sono tutti un po' stronzi, un ottimo passepartout per aprire la porta delle confidenze. Comunque lui non era tra quelli istrionici che facevano di tutto per farsi notare dall'altro sesso, ma sapeva parlare un italiano corretto e si accorgeva di particolari che talvolta spiazzavano chi aveva davanti e soprattutto, sapeva ascoltare.

Mentre era perso nei suoi pensieri e nei ricordi della serata precedente, una voce lo scosse dal suo torpore: "Non ti sei accorto che ti guardano tutti?", non riconobbe il timbro, era piacevole e squillante, lo aveva già sentito giorni prima, ma prima che ne inquadrasse il viso, la sua espressione mutò in una smorfia di disprezzo, reazione non strana, poiché tra gli altri vari pregi di Lorenzo, c'era da aggiungere che era anche piuttosto permaloso, quindi non amava che gli si stigmatizzassero i suoi difetti.

"Che cosa avrebbero da guardarmi tutti?", ringhiò alzando lo sguardo su Claudia che si divertiva a punzecchiarlo, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di fargli capire che le piaceva. Appena la vide però i suoi occhi si addolcirono, ma solo per un attimo, e continuò: "Allora che c'è da guardare?"

"Beh, sembri una checca pronta per andare a lavoro!", rise lei tirando fuori uno specchietto. Lui non apprezzò l'allusione e replicò: "A parte il fatto che le checche non hanno una particolare predisposizione per un tipo di lavoro, ma perché dovrei sembrare una checca io?".

"Non lo sai, guarda tu stesso!", sempre sorridendo gli parò lo specchietto davanti agli occhi, lui fissò la sua immagine per un lungo istante, poi rilassò i lineamenti e si schernì commentando con movenze chiaramente effeminate: "Comunque non sono affatto male, vero?". La sua reazione prese in contropiede Claudia che ora temeva di aver fatto una brutta figura, anche se lui era fidanzato, aveva visto la sua ragazza, ma nella vita nulla era certo, magari era stata solo una copertura. Insomma, non sapeva se prenderlo sul serio o no, quindi rimase interdetta per qualche secondo sperando che lui la togliesse dall'imbarazzo. Quella situazione era favorevole per Lorenzo, e lui lo sapeva, si divertiva spesso a prendere in giro le persone dicendo cose con un'espressione ed un'intonazione che non permettevano ai suoi interlocutori di capire se stesse scherzando o parlasse seriamente, un gran vantaggio. Quel giorno si sentiva buono, ed anche un po' stanco, quindi, le venne in aiuto: "E' il trucco di ieri sera, non si toglie mai completamente anche se uso un sacco si latte detergente, devo aspettare due o tre giorni, sembra sempre che mi sono messo la matita sotto gli occhi, pazienza, mi da uno sguardo più intenso, non ti piace?"

"Insomma, a me i maschi piacciono maschi!" rispose, poi aggiunse; "Ma perché ti sei truccato ieri? Se si può chiedere".

"Sei curiosa vero, vuoi sapere se ieri sera facevo la Drag Queen in qualche locale della periferia? No, sono solo andato in scena con una commedia, e questo è il trucco di scena che è sempre molto marcato, per far vedere le espressioni dal palco." Aggiunse il particolare sul trucco, con una certa nonchalance, come se per lui fosse una cosa normale, anzi poco rilevante, quasi per vedere se lei cogliesse o lasciasse cadere l'argomento. Lei abboccò: "Cioè, tu fai l'attore?".

Bingo.

"L'attore, non esageriamo, faccio parte di una compagnia teatrale, recito con loro e ieri appunto c'è stata la rappresentazione.", teneva appositamente un profilo basso, non dando importanza a quello che faceva, perché odiava le persone che millantavano le proprie capacità, considerava quell'atteggiamento un indice di vacuità interiore, lui sapeva quanto valeva, non aveva necessità di sbandierarlo ai quattro venti.

"Figo, fare l'attore deve essere bellissimo! E da quanto tempo lo fai?", gli chiese entusiasta.

"Da quando avevo quattordici anni." Rispose lui.

"Wow, e che teatro fate? Shakespeare, tragedia greca?"

"No, no, facciamo teatro napoletano, da quello tradizionale a quello contemporaneo!"

"Bello, quindi fate anche le commedie divertenti, quelle di Eduardo?"

Lui non riuscì ad essere accondiscendente, e dovette correggerla per forza: "Insomma, il teatro di Eduardo è un'altra cosa, non è comico come le farse di Scarpetta, è molto più amaro, insomma, puoi sorridere, ma raramente ti sganasci dalle risate...", lei vide che quel commento su Eduardo gli aveva dato una punta di fastidio e si scusò con la leggerezza di cui era capace facendogli promettere che l'avrebbe invitata assolutamente alla prossima rappresentazione e chiedendogli se fosse possibile assistere alle prove. Lui ne fu molto contento, anche se non lo diede a vedere come era nel suo stile, con estrema gentilezza le disse mo'm''o segno alla maniera di Troisi, e poi la salutò, sempre lasciandole un messaggio subliminale nella mente: "Allora ci vediamo, begli occhiali, sono nuovi?". Non aspettò la risposta e si voltò lasciando a Claudia il compito di tormentarsi tra il piacere della conversazione appena finita e l'appuntamento che aveva preso con il suo corteggiatore Diego.

CAPITOLO NOVE

Alla fine andai a casa di Diego, per studiare, aveva insistito così tanto che dovetti accettare, soprattutto dopo la gentilezza degli occhiali nuovi. Certo, doveva essere un ragazzo piuttosto preciso, ordinato e organizzato, era la prima volta che vedevo casa sua e soprattutto la sua stanza. Non la potrò mai dimenticare. Sembrava più uno studio medico che una camera di un ragazzo, pulita, funzionale, con un tavolo di vetro satinato, sgombro da carte o libri, un cestino, vuoto, un letto perfettamente rifatto, una mensola sopra al letto con una sveglia, uno stereo ed una piccola enciclopedia medica. Ma il pezzo forte era l'armadio, che casualmente aveva aperto per rimettere a posto il maglione che aveva addosso, all'improvviso mi era sembrato di essere appena entrata da Harmont & Blaine: una successione di pullover monomarca, imbustati singolarmente nella confezione originale, giaceva minacciosa sulle mensole, i maglioni erano divisi per colore, tinta unita o fantasia. Dovevano essere trenta, forse quaranta della stessa identica fattura che si distinguevano solo per una minima gradazione di colore. Mi ricordava le scatole di pastelli che mi comprava mio padre da piccola, ogni volta io le aprivo e vedevo tutti i colori in perfetto ordine passare dal bianco, al giallo, poi all'arancio ed al rosso, fino a diventare blu e poi verdi chiudendo col marrone e poi il nero, io li accarezzavo, li facevo rotolare sul loro asse e poi all'improvviso la mia mano si abbatteva su di loro facendoli cadere e terra e rovinando irrimediabilmente quel bell'arcobaleno. Ecco, in quel momento davanti a quell'armadio, mi venne l'irrefrenabile desiderio di tirare tutti i maglioni fuori dalle buste, e lanciarli per quella stanza perfetta e gelida. Ma commentai semplicemente: "Sei un tipo ordinato..". Lui che sapeva di vivere una situazione un po' anomala mi confessò: "Si...Abbastanza, ma questa non è opera mia, è di mia sorella!". Non ci potevo credere, non aveva mica otto anni, perché la sorella doveva mettere in ordine la sua stanza? Perciò gli chiesi: " Scusa, ma se non ti va, perché glielo fai fare?", nel momento che lui terminò la frase, la porta della sua stanza si aprì all'improvviso, e si parò davanti a noi una figura magrolina, con un viso spigoloso e pallido, ma con un'espressione feroce, un lampo di sorpresa arrestò per un'istante la sua furia, probabilmente non si aspettava una sconosciuta in casa, ma poi, con sguardo sprezzante, mi squadrò da capo a piedi e chiese guardando alla mia destra: "Chi ha camminato per casa con le scarpe sporche?". La domanda era ovviamente retorica, perché Diego all'ingresso si era già prontamente cambiato ed aveva indossato una sorta di babbucce casalinghe, io invece avevo due begli stivali neri di cui andavo oltremodo fiera. Senza aspettare risposta, la porta si richiuse con la stessa violenza con cui si era aperta e l'immagine di quella strana ragazza sparì lasciando dietro di se un'aura di odore di candeggina. Noi ci guardammo, lui alzò le spalle come ad indicarmi che era abituato a quelle scenate, io però non ero il tipo da lasciarmi passare certe cose sotto al naso e gli dissi: "Ma stava scherzando?", lui scosse la testa con espressione rassegnata e mi rispose sospirando: "Quella è mia sorella, come avrai capito è un'ossessiva della pulizia e dell'ordine.."

"Ho capito, manco fossimo entrati con gli stivali pieni di fango..."

"No, non ti preoccupare, lei avrà visto una pietruzza microscopica, quando è andata a controlla..."

"A controllare? Cioè fammi capire, lei entra in casa e controlla se qualcuno ha camminato con le scarpe da fuori?". Lui assentì con una certa amarezza.

"E come fa?", ripresi io.

"Semplice, si mette un paio di calzini bianchi e cammina strisciando per la stanza, se restano bianchi è contenta, se no...sono guai!". E' completamente pazza, pensai, ma ovviamente cercai di apparire gentile e non dissi nulla al riguardo, mi tolsi in silenzio i miei stivali, glieli consegnai e dissi: "Bene, immagino che avrai delle ciabatte per gli ospiti, data la situazione!". Lui si illuminò, contento di aver superato l'imbarazzo: "Certo, come le vuoi, blu, blu chiaro, verde o marroni?". Quella scena avrebbe dovuto farmi riflettere, ma ci passai sopra, e non me ne andai come avrei dovuto, gli dissi semplicemente: "Scegli tu, per me una vale l'altra!". Tanto in fondo non era mia sorella, io avrei studiato lì qualche ora e poi sarei tornata a casa mia. L'immagine che ebbi subito di quel ragazzo in casa sua era di un individuo privo di libertà, costretto a rituali strani a causa di una sorella ossessionata dalla pulizia, certo, c'era anche un lato positivo, la stragrande maggioranza delle camerette dei miei amici era un agglomerato informe di cianfrusaglie, cibi e vestiti abbandonati a marcire, e tipicamente il profumo che veniva fuori da quei tuguri era un misto di sudore umano e puzza di cane bagnato, invece in quella stanza, si spandeva un aroma di fiori che sembrava provenire da un angolo sopra all'armadio. Almeno in quella camera non avrei rischiato di prendermi il tetano. Comunque gli incontri della giornata non erano finiti, dopo cinque minuti che avevamo aperto i libri, la porta si aprì di nuovo, senza una preventiva bussata e stavolta vidi una matrona, alta e ben piazzata che con le braccia ai fianchi ci apostrofò: "Bene, viene una tua amica e non ce la presenti nemmeno?", non gli dette il tempo di rispondere che continuò rivolgendosi a me: "Non fa niente, io sono la madre di Diego, tanto piacere, mi scuso se mio figlio è stato così scostumato, in casa nostra l'educazione è molto importante...tu dici parolacce?". Io ero interdetta ed ebbi il tempo di rispondere soltanto: "Come scusi?", per fortuna Diego mi venne in soccorso intervenendo rapidamente: "Non mamma non ne dice, comunque non te l'ho presentata perché non c'eri, sei arrivata adesso!". Lei gli voltò le spalle, e concluse: "Irrilevante, avresti dovuto venire a salutarmi immediatamente, ma pazienza ormai la madre non esiste più esistono solo le ragazze.... e quante ragazze!". Poi si girò di nuovo verso di me ed annunciò: "Tra dieci minuti c'è la merenda, andatevi a lavare le mani!". E la porta sbattette di nuovo. Il silenzio calò fra di noi.

"In che senso tra dieci minuti c'è la merenda? E' un appuntamento fisso?" timidamente chiesi.

"Si, mia madre dice che alle cinque si deve fare uno spuntino perché gli zuccheri al cervello aiutano a concentrarmi nello studio."

"Giusto!", conclusi io alzandomi dalla sedia con un certo disappunto e richiudendo il libro che avevo appena aperto, "Allora, andiamoci a lavare le mani, non vorremo certo fare tardi...dov'è il bagno?"

"Appena esci sulla sinistra, è la prima porta."

"Devo seguire una regola particolare per usare il bagno o posso fare come mi pare?", gli chiesi uscendo quasi per prenderlo in giro, ma lui mi rispose seriamente: "No, tu sei femmina, non ci sono problemi.", mi fermai all'istante e lo fissai come si guarda un alieno, e dopo alcuni secondi di silenzio, mimando una voce metallica gli dissi: "Dimmi, cosa succede ad un maschio? Lo costringono a stare seduto sul gabinetto per fare pipì, per non sporcare la tavoletta?". Lui restò di stucco, come colpito nel vivo, non sapeva se credere alle sue orecchie. Cominciò a balbettare ed a guardarsi intorno cercando una via di uscita.

Alla fine ebbe il coraggio di parlare: "Chi te lo ha detto?".

"Che cosa?"

"Questo!"

"Questo cosa?"

"Dai, non fare finta di non avere capito...il fatto del gabinetto...". Lui si vergognava infinitamente, solo allora mi resi conto che la mia battuta era la triste realtà, in quella casa vigeva un regime vero e proprio, nel quale le regole erano fissate dalle donne, e gli uomini si attenevano senza fiatare. Già mi vedevo il povero Diego costretto ad abbassarsi i pantaloni e sedersi come una femminuccia. Non volevo ferirlo deridendo la sua condizione, ma la situazione era quasi comica allora cercai, mentre soffocavo un sorriso di trovare le parole adatte per uscire dall'imbarazzo: "Ah...no, scusa, l'avevo buttata lì, così per dire...ma vabbè, non è poi una tragedia, alla fine, noi lo facciamo da sempre.", poi mi avvicinai e sottovoce aggiunsi: "Ma poi, chi ti controlla nel bagno, tu fai come ti pare e poi dici che sei stato seduto, o no?". Lui alzò lo sguardo verso di me, e con un'amarezza profonda nel tono mi mostrò l'inconsistenza della mia strategia: "Non si può fare, mia sorella controlla la temperatura della tavoletta dopo che uso il bagno...!". Era chiaro, dovevo scappare da quella casa, ma non lo feci, forse perché quel ragazzo gentile e soggiogato dalle donne mi faceva un po' di tenerezza, e forse perché pensai che magari sarebbe stato obbediente anche con me, non so. Comunque interruppi quella imbarazzante conversazione battendo le mani e suggerendogli di mostrarmi quello che doveva essere un vero esempio di pulizia e disinfezione.

Non mi sbagliavo, se la camera di Diego era uno studio medico, il bagno era una sala operatoria. Praticamente ero entrata in un ospedale, o forse per essere più precisa in una clinica psichiatrica. 

CAPITOLO DIECI

Lorenzo si svegliava ogni mattina con un peso sullo stomaco, non avendo il coraggio di confessare che non aveva alcuna intenzione di diventare un avvocato e che quei corsi, che suo malgrado frequentava, erano per lui una frustata, una violenza, una sofferenza continua. Sapeva anche che se avesse abbandonato l'università i suoi genitori gli avrebbero tagliato i viveri, su questo erano inflessibili, i loro figli dovevano studiare, almeno fino alla laurea, e poi avrebbero trovato la loro strada. Ma una cosa era certa, la sua strada non era certamente la legge, ma così andava, avrebbe terminato gli studi, doveva solo far passare quei quattro o cinque anni e poi sarebbe andato via di casa. Non poteva ancora farlo, anche se ci aveva pensato più volte nelle sue notti insonni, eccome, ma non ne aveva mai avuto il fegato, un po' perché sapeva che avrebbe dato un dolore troppo grande a sua madre, ed avrebbe deluso profondamente suo padre che nonostante tutto credeva in lui, un po' perché sapeva perfettamente che non era ancora in grado di mantenersi autonomamente. Quello era un altro degli altri strani veti che gli erano stati posti, non poteva lavorare come facevano tanti ragazzi della sua età, per guadagnarsi qualche soldo, no, i suoi vecchi lo trovavano sconveniente, un figlio lavoratore era un fatto d'altri tempi, implicava povertà, ignoranza, provincia. I suoi genitori non erano ricchi, anzi, vivevano dello stipendio, mese per mese, non avevano rendite, venivano da famiglie di provincia che poi si erano trasferirsi nella città, il padre soprattutto sapeva bene cosa fosse il lavoro da ragazzi, perché i suoi due fratelli avevano interrotto gli studi a quindici anni ed erano finiti in una impresa edile, lui solo aveva deciso di proseguire gli studi, e per questo si era dovuto trasferire lontano da casa. Non avrebbe permesso che i suoi figli fossero tornati indietro dopo i suoi sacrifici, aveva cercato di farli crescere protetti dallo sporco che si vedeva in strada tutti i giorni, aveva dato loro tutti gli agi possibili compatibilmente con le possibilità economiche della famiglia, ma non aveva mai fatto il passo più lungo della gamba, non aveva mai ceduto alla lusinga delle cambiali e degli acquisti a rate, se aveva i soldi comprava, se no, pazienza, avrebbe aspettato tempi migliori. D'altra parte lui non era certo cresciuto nella bambagia, essendo il terzo di quattro figli, nati durante la guerra. Lui aveva conosciuto la vera povertà, l'ignoranza e la fame, sapeva che grazie a quelle poteva apprezzare la vita che aveva, ma non aveva intenzione di lasciare che nessuno, nella sua famiglia le provasse di nuovo. Lorenzo era grato a suo padre per tutto quello che gli aveva dato, nonostante il suo modo di fare burbero, impulsivo, dallo schiaffo facile accompagnato da un turpiloquio non comune; sapeva che sotto sotto c'era del tenero, semplicemente non era in grado di esprimerlo, ma non tollerava quella ostinazione nei confronti delle sue passioni, lo costringeva a mentire, a studiare controvoglia ed a perdere tempo.

Quella mattina arrivò in leggero ritardo in facoltà, erano già quasi tutti dentro, alcuni si trattenevano a chiacchierare, altri a fumare nel cortile interno, ma il suo occhio si fermò su due che, appoggiati ad un muro in un angolo si baciavano, non si stupì del fatto in se quanto del luogo scelto per le effusioni, e perché gli sembrava di ricordare quei capelli biondi che spuntavano dal cappellino granata, si avvicinò alla coppia per raggiungere l'aula, e la ragazza si staccò dalle braccia del compagno per salutarlo, era lei, Claudia, la tipa che lo aveva invitato a casa per la festa di Natale, e l'altro forse era un loro collega, non sembrò affatto imbarazzata di staccare le labbra da quelle di un maschio e di appoggiarle subito dopo sulla guancia di Lorenzo, lui d'altra parte non le dette la soddisfazione di apparire colpito dall'aver appena capito della nascita di quella nuova relazione.

"Ciao, ti ricordi, lui è Diego!" esordì lei, lui finse una certa noncuranza ed educatamente si rivolse al baciatore appassionato: "Ciao, piacere, tu anche frequenti....", non riuscì a finire la frase che Claudia lo interruppe per far partecipare il suo fidanzato: "Era con noi alla festa di Natale, si chiama Lorenzo, non te lo ricordi?", quello dissentì con poco entusiasmo con un semplice "Io non c'ero alla tua festa di Natale! Comunque piacere, io sono Diego!" , e le battute finirono lì, i due si scambiarono una stretta di mano veloce ed alla fine Lorenzo si avviò a passi veloci verso l'ingresso dell'aula. Rapidamente assimilò l'informazione che la ragazza non fosse libera, non aveva avuto il tempo di chiederle da quanto tempo si frequentasse con quel Diego, ma non doveva essere da molto se ancora avevano l'impulso di baciarsi davanti a tutti. Comunque la cosa non lo aveva turbato più di tanto, anche se per un attimo si era domandato perché mai quella sconosciuta lo avesse invitato a casa sua, senza avere mai scambiato con lui una parola; mentre rifletteva distrattamente, un grido echeggiò dall'interno, seguito da rumori secchi di legno e passi veloci, era il segnale che il professore era stato avvistato nel corridoio, perciò si affrettò a varcare la soglia dell'aula ed a trovare un posto, giusto in tempo per veder entrare il professore di Diritto Costituzionale.

La questione rimase in sospeso nella sua mente per diversi giorni, non ebbe l'occasione di parlare con Claudia o tantomeno con Diego, il suo ragazzo, d'altronde Lorenzo era un po' così, aveva bisogno di attenzione per risvegliare la propria attenzione, difficilmente si avventurava su terreni poco conosciuti, o impervi, a suo giudizio, aveva sempre avuto paura di ricevere un rifiuto o di non essere considerato interessante, per cui evitava di lusingare le ragazze più belle, o le più desiderate, a meno che non fossero state loro a fare un primo passo. Cosa che fino ad allora non era mai accaduto. Ma la sua vita stava cambiando, il liceo era finito, l'acne giovanile aveva lasciato il posto ad un volto leggermente segnato da qualche cicatrice che donava una certa espressività, aveva messo su, con molta fatica a dire il vero, qualche muscolo, ed aveva buttato giù un bel po' di pancia, soprattutto dopo l'ultima vacanza in college in Inghilterra, durante la quale aveva veramente patito la fame. Insomma, se il liceo era stato il vero purgatorio della sua adolescenza, finalmente all'università avrebbe acquisito una sua identità, e le persone cominciavano a notarlo. Lui ancora no.

CAPITOLO UNDICI

Alla fine le lusinghe di Diego mi avevano convinto a dargli una possibilità, quel ragazzo era così premuroso, e così affettuoso che, nonostante fosse incatenato in una routine familiare per lo meno sui generis, chiusi un occhio, anzi tutti e due, e mi lasciai trasportare dal suo entusiasmo. Pensai che non ci fosse niente di male, era un collega di facoltà, quindi sarebbe stata la perfetta unione tra l'utile ed il dilettevole, avremmo avuto più tempo per stare insieme, studiando e chiacchierando, senza dovere aspettare il sabato sera o la fine degli esami per incontrarci.

Grosso errore.

Eh già, fu un vero errore, perché Diego si rivelò maledettamente competitivo, quello che avrebbe dovuto essere un momento gradevole di confronto, cioè lo studio, divenne in poco tempo un terreno di lotta, quasi di battaglia. Un continuo confronto tra le sue conoscenze e le mie, e lui ne doveva uscire per forza vincitore; questo significava che lo studio insieme finiva per essere una continua pantomima, in cui lui si incaponiva a ripetere e ripetere paragrafi e capitoli, citazioni e concetti, ed io restavo li ad ascoltare e qualche volta mi era permesso di fare una domanda. Non era possibile invertire i ruoli, Diego era rigido di famiglia, perciò io sviluppai una grandissima capacità di apprendere semplicemente leggendo e ascoltando, senza nemmeno tentare di mimare l'esame orale. In fondo a me non creava troppi problemi, anche perché poco mi importava di prendere trenta, la lode oppure venticinque. Sapevo il fatto mio, non mi interessava primeggiare, soprattutto col mio ragazzo, per cui lo lasciavo fare, anche se sapevo perfettamente di essere più intuitiva e più veloce ad imparare, ma per quieto vivere tacevo, e non glielo facevo notare. Così lui parlava, ripeteva leggi, commi e paragrafi, ed io fingevo di esserne interessata.

Giorno dopo giorno l'inverno passò, e ci trovammo in primavera, Lorenzo non mi guardava ormai, nemmeno per caso, d'altra parte avevo sempre la mia guardia del corpo piazzata di fianco che pensava per me, veniva prima a lezione, mi teneva il posto, prendeva gli appunti, non avevo molte possibilità di movimento autonomo. Però nonostante tutto, le rare volte che ci incrociavamo a chiacchierare con i colleghi, mi rendevo conto che qualcosa di lui mi attraeva, non era l'aspetto fisico, non solo comunque, quello che mi aveva colpito era la sensazione, di essere perfettamente compatibili, come se ci capissimo al volo, quasi senza parlare, io facevo una battuta e lui la terminava, lui iniziava un discorso ed io concludevo, come un copione non scritto, ma ben rodato. Peccato che dopo quegli scambi tutto finisse lì ed ognuno andasse via per la sua strada. Poi un giorno lui mi portò il biglietto di una commedia che avrebbe messo in scena di lì ad una settimana, lo vidi arrivare diretto, senza tergiversare, con un sorriso che non ero abituata a vedergli addosso, mi invitò alla prima, anzi ci invitò, visto che come sempre Diego era al mio fianco. Si era ricordato della nostra breve conversazione, questo mi lusingò, non lo posso negare, ed ovviamente accettai di buon grado, anche quando il mio guardiano mi ricordò che avevamo un altro impegno quel giorno. Io non ebbi alcun dubbio e rimandai l'impegno, che consisteva tra l'altro in un'uscita con la sorella ed il suo nuovo fidanzato che avrei dovuto conoscere proprio quella sera. Si anche lei aveva un fidanzato, era proprio vero che l'amore è cieco, ma non solo, anche sordo e spesso un po' pazzo.

Non posso negare che aspettai quel sabato come se dovessi vedere un concerto di Bon Jovi, ero stata agitata dalla mattina, come se fossi dovuta andare io in scena, avvertivo la tensione della performance e non capivo perché. Era molto strano, continuavo a pensare e a ripensare a cosa dovessi mettermi, non perché mi interessasse essere elegante o provocante, anche perché sapevo che lo spettacolo sarebbe stato ospitato nel teatro dei Fatebenefratelli, che certamente non era il San Carlo. Era un piccolo teatro, di pertinenza di un ospedale, niente di mondano o luccicante, anzi, sarebbe stato pieno di bambini, preti e familiari degli attori. Ma non era quello l'importante, di nuovo avevo avuto la percezione che qualcosa mi legasse a quel ragazzo, sentivo la sua tensione e la facevo mia, anche a distanza, quella sera lo avrei visto sul palco travestito da...da cosa? Non lo ricordavo, anzi in realtà non lo sapevo, perché non avevo nemmeno guardato il biglietto, avevo accettato l'invito e messo tutto al sicuro in borsa. Qual era il titolo della commedia? Doveva essere qualcosa che aveva a che fare con gli animali, così almeno mi era sembrato che avesse detto, ma tanto che importava, io ci sarei andata lo stesso.

Poi finalmente venne l'ora di uscire, feci la strada in macchina col cuore che mi batteva in petto all'impazzata, cominciai quasi a pensare che fossi matta, ma immaginavo Lorenzo dietro le quinte che camminava avanti e indietro concentrandosi per entrare nel personaggio, vedevo le facce tese degli attori e delle attrici, immaginavo che si scambiassero abbracci e strette di mano per incoraggiarsi, vedevo anche che quell'intimità, quel vivere da vicino delle emozioni così forti, potesse far nascere passioni e amori molto facilmente. Una punta di gelosia mi strinse il petto, subito cercai di scacciar via quel pensiero, per godermi la serata, ma non fui abbastanza veloce, perché Diego che, era alla guida, si accorse del mio silenzio e forse anche della mia espressione corrucciata e mi chiese cosa avessi. Fui costretta ad inventare una scusa, e sorridere forzatamente. Alla porta mi chiesero il biglietto, così finalmente potetti leggere il titolo della commedia che ci apprestavamo a seguire: Tre pecore viziose, di Eduardo Scarpetta, era un classico del teatro napoletano, una farsa comica ed esuberante, così ci disse la tipa all'ingresso, una incursione nelle debolezze umane.

Quella era una finzione, ma la realtà a volte è molto più fantasiosa.

CAPITOLO DODICI

"Fin dall'età di tredici anni mi è produta sempre la capa e, sempre che ho visto una guagliona bbona, me songo allummato e me ne sono andato de capa. Tutti gli uomini hanno un vizio: chi bevitore di vino, chi giocatore accanito, chi celebre fumatore... Il mio vizio è stato chillo de correre appriesso a li femmene! Il bevitore di vino beve, si ubriaca, cade e si sciacca. Il giorno dopo fà giuramento di non bere più... Dopo un paio di giorni passa per una cantina, la guarda, la torna a guardare, vorrebbe fuggire, ma non lo può! Quell'odore di vino, quella freschezza lo attrae, lo magnetizza, e quel pover'uomo, senza nemmeno saperlo, se trova assettato a nu scanno, cu nu litro mmano... Questo successe a me; per correre appriesso alle donne, trovai mia moglie, la presente, mi ubriacai di amore, la volli sposare, e così caddi e mi sciaccai. Dopo sposato, feci giuramento di non guardare nfaccia a nessuna donna, e stette cujeto per molto tempo. Ma che volete, un giorno vidi una modista. Era bbona, bbona dinto a l'arma de la mamma! Quella sua camminatura, quella sua corporatura, facevano incantare! La guardai, la tornai a guardare, e, al pari della cantina, quegli occhi, quella freschezza, quell'odore de carne fresca mi magnetizzarono, mi affascinarono, me zucaieno, e macchinalmente le jette appriesso... Il giorno dopo, senza nemmeno saperlo, me trovaje assettato dinto a la casa soja!... Ieri questa tale mi invitò a cenare con lei... Sì, è vero, io andai in quella casa, ma quale fu la mia sorpresa? Quella di trovare questi due vecchi peccatori nella stessa abitazione: uno amante di una certa Mariuccia e l'altro di una certa Rosina. Si venne a un accordo, si fece alleanza e, mentre tutto era pronto per la cena, vuje venisteve e nce rumpisteve ll'ova mmano! Ciò che loro hanno asserito sono calunnie e bricconate! Quello che ho detto io, è la pura verità, ve lo giuro sul mio onore! Verba ligant homines, tautorum cornua funes!" . Un lungo applauso accompagnò la conclusione del monologo di Lorenzo, che impersonava Felice Sciosciammocca, un giovane marito fedifrago, colto sul fatto mentre si intratteneva con un'altra donna, che confessava la propria debole umanità. Fu in quel momento che lui la vide, solo all'inizio del terzo atto, quando abbassò gli occhi verso il pubblico, per un istante, nonostante le luci sparate contro di lui, i sui occhi incrociarono quelli di Claudia e notò un lampo nel suo viso, nulla di più, ma quello bastò a mettere in connessione le loro due anime. Lei, dalla sua, sentì un brivido dietro la schiena, come una premonizione, era come se Lorenzo avesse parlato direttamente al suo cuore, la cosa non aveva alcuna motivazione razionale, era una stupida farsa, quel Felice era solo un pusillanime che andava dietro alle gonnelle delle ragazze, e lui aveva solo recitato la parte di un copione scritto un secolo prima, eppure lei in quel momento avrebbe voluto essere come la modista, capace di fargli perdere la testa.

Alla fine dello spettacolo, Lorenzo usci in platea, come gli altri attori, una carineria nei confronti del pubblico che aveva avuto la pazienza di ascoltare, ed un modo per sentire davvero le prime impressioni di amici e parenti. Non cercava volti in particolare, eppure sentiva di dover guardare dove quel lampo lo aveva sorpreso, i posti erano vuoti, ovviamente, ormai gli spettatori erano in piedi, la maggioranza era uscita, solo alcuni facevano capannello intorno ai propri beniamini. Mentre camminava nel corridoio centrale della platea, per raggiungere l'ultima fila, e sedersi, come sempre faceva, per godersi quella che per lui era la vera ultima scena di una commedia, sentì una mano battergli la spalla, ed una voce allegra che lo apostrofava: "Allora, non mi saluti nemmeno, sei già diventato famoso?", lui si voltò all'indietro, la sua mente era da tutt'altra parte, ma quando il suo sguardo si mise a fuoco sul volto sorridente di Claudia, s'illuminò, ed istintivamente l'abbracciò per salutarla, lei rispose di buon grado ed anzi, indugiò un istante di troppo prima di allontanarsi, e gli sussurrò nell'orecchio: "Sei stato fantastico, mi hai fatto emozionare!". Diego, che l'accompagnava, non si accorse di niente, non potette vedere le labbra della sua ragazza muoversi sfiorando l'orecchio di Lorenzo, perché la sua testa gli copriva la visuale. Probabilmente era stato tutto ben studiato. L'alito caldo che tradiva l'intima vicinanza delle labbra e le parole appena udite, fecero vacillare il povero Lorenzo, che riuscì a malapena a celare l'imbarazzo distogliendo dolorosamente lo sguardo da lei e chiedendo ad entrambi cosa pensassero dello spettacolo appena terminato. Incassò i complimenti sinceri di entrambi, e rispose alle solite domande di rito, circa le prove, le repliche, e gli altri attori. Poi prima di salutarsi, lei, con una naturalezza straordinaria, lo invitò a passare il prossimo fine settimana nella sua casa in montagna, era inteso che l'invito fosse esteso anche alla sua ragazza, visto che ci sarebbe stato anche Diego. Dall'espressione di disappunto del ragazzo, Lorenzo capì immediatamente che l'iniziativa non fosse stata precedentemente condivisa, ma entrambi ne stavano venendo a conoscenza nello stesso momento. Non trovò niente di male in quell'invito, per cui accettò con entusiasmo, con buona pace di Diego che già probabilmente pregustava una tre giorni romantica chiuso in casa tra letto e cucina.

Alla fine arrivarono i saluti, tra una cosa e l'altra erano passati più di dieci minuti, ormai tutti gli spettatori erano andati via, la sala era vuota, lei lo riabbracciò stavolta senza parlare, semplicemente sfiorandogli il collo con le labbra, lui approfittò di quel contatto per inalare la sua essenza, muschio bianco, se ne lasciò inebriare per qualche secondo ancora, anche quando scomparve dalla sua vista. Poi soddisfatto, fece quello che faceva tutte le volte dopo uno spettacolo. Scelse la sedia centrale dell'ultima fila, e si sedette, nel silenzio assoluto della sala, fissando il palcoscenico ed il sipario ormai chiuso, come per assorbirne le sensazioni, dolcemente dolorose, per sentire l'anima vera del teatro, che in quel momento, senza pubblico e senza attori, tornava a dormire, tornava ad essere soltanto un edificio anonimo con venti file di sedie ed una tenda bordeaux. Chiuse gli occhi e viaggiò in mondi lontani, Broadway, Londra, Parigi, poi con un sospiro li riaprì, si alzò, spense le luci della sala ed uscì. Si fermò, certo di avvertire ancora quell'essenza su di lui, si voltò istintivamente come per cercarne l'origine, anche se sapeva che lei era andata via ormai da un po', scosse la testa, sorrise e si avviò a casa con una certezza, non avrebbe mai più dimenticato quel profumo. E quella donna.

CAPITOLO TREDICI

Avevo organizzato tutto, doveva essere un fine settimana perfetto. Ero arrivata in montagna il pomeriggio del venerdì, per fare la spesa, accendere il camino e preparare la casa. Ovviamente anche Diego era venuto con me per darmi una mano, ed era utile, perché con la sua precisione metteva perfettamente in ordine tutti gli acquisti, le conserve, la pasta, il vino, molto meglio di come avrei fatto io. La mia parte era invece la pulizia generale ed il camino, prendere la legna in garage e controllare l'attrezzatura da sci. La casa era ancora fredda, nonostante la primavera le temperature erano ancora piuttosto basse, si sarebbe scaldata in un paio d'ore, ma io non avvertivo il gelo, tra il movimento e l'eccitazione, ero distratta, pensavo e ripensavo a come sarebbe andata, a come ci saremmo divertiti. Lorenzo e Daniela probabilmente erano appena partiti, e sarebbero arrivati in serata, ma non vedevo l'ora di incontrarli, non sapevo perché, non avevamo mai fatto una vacanza per quanto breve insieme, ed ovviamente con conoscevo le loro abitudini, ma l'istinto mi diceva che sarebbe stato tutto fantastico, forse solo la fidanzata, avrebbe potuto creare qualche problema, ma in fondo che importava, avevamo due giorni pieni per tentare di sciare, mangiare arrosticini e carne alla brace, e goderci la natura alla grande. Anche il paese poi era bellissimo, un pugno di case arroccate sul ciglio dell'Appennino unite da un groviglio di stradine medioevali, una piccola piazza con un bar, un ristorante, il municipio, la chiesa e la fontana di rito che d'inverno gelava. Era piccolo, ma io ci ero molto affezionata, perché per me era il paese delle feste di Natale e del capodanno: appena chiudeva la scuola, mio padre terminava anche lo studio e la sera stessa si partiva per la montagna. Nonostante il viaggio fosse spesso un po' fastidioso, per il traffico, le curve e per il cattivo tempo, appena vedevo il campanile della chiesa da lontano, tutti i malumori passavano e mi veniva voglia di scendere dalla macchina per correre nella neve. Mio padre, invece, pensava immediatamente ad accendere il camino ed i termosifoni, era molto affezionato alla nostra casa in montagna, l'aveva fortemente voluta, e negli anni, anche col mio aiuto, l'aveva sistemata proprio bene, aveva tutti i confort, oltre al camino ed ai riscaldamenti; c'era una discreta cucina con un bancone in stile bar, una sala da pranzo, due camere da letto ed il salotto, in più c'era anche una bella terrazza utile per arrostire qualunque cosa e che d'estate veniva occupata dalla piscina gonfiabile, bella a vedersi ma inutilizzabile perché l'acqua non superava mai i dieci gradi anche dopo una settimana.

Il fine settimana andò meglio di come pensavo, intanto gli invitati arrivarono prima del previsto perché Lorenzo aveva deciso di partire con un certo anticipo, con buna pace della fidanzata che si lamentava di non aver avuto il tempo di preparare la valigia. Si presentarono, lui con uno zaino tipo militare, lei con una Samsonite rigida degna di un viaggio di quindici giorni. Lui con il suo solito giubbotto di pelle, jeans e stivali, lei con un Fay a quattro ganci, stivaletti Timberland e sciarpa Burberry. Non che fossi un'appassionata di marche, ma la ragazza sembrava uscita da una rivista di moda con tutte le targhette in bella mostra tanto per non farsi notare, come se fosse pronta per un ricevimento. Io dalla mia ero già in tuta pesante, calzettoni da casa e guanti da lavoro, sporca di fuliggine e segatura, ma non mi creai problemi, non ero certo io quella fuori luogo. Non battei ciglio, li accolsi con entusiasmo, e subito mostrai loro dove lasciare le scarpe da esterno infangate e dove trovare delle meravigliose ciabatte imbottite con disegni di renne e Babbo Natale. Lorenzo non esitò, scelse Babbo Natale e lasciò le corna alla fidanzata che però le guardò con una certa diffidenza e le mise da parte con decisione dicendo che non era abituata ad usare pantofole in casa, così decise di restare a piedi nudi, letteralmente, in una casa gelata in montagna. Probabilmente le ciabatte che avevo proposto non erano abbastanza di moda, pazienza prima o poi si sarebbe convinta, quando probabilmente i piedi sarebbero diventati blu.

Sapevo che sarebbe stato fantastico, e non mi ero sbagliata, infatti, immediatamente e senza dover parlare si stabilirono i ruoli: Lorenzo con un perentorio "Che si mangia?" si impossessò della cucina, io mi misi al suo fianco per supportarlo e pulire quello che sporcava, Diego divenne l'addetto ai fuochi e Daniela a piedi nudi, sul divano che osservava e cercava di telefonare con uno dei primi cellulari, peccato che in casa mia non arrivasse il segnale. La sensazione che con Lorenzo mi conoscessi da una vita mi pervase nuovamente, era come se fossimo sempre stati nella stessa cucina, lui mi chiedeva le cose perché non conosceva i posti, ed io ero già lì, pronta con ciò che gli serviva. Lui non cucinava, quasi danzava, tra i fornelli, mentre tagliava le verdure e poi controllava l'acqua, poi apriva il frigo e cercava qualcosa per inventarsi un piatto nuovo. C'era una luce nei suoi occhi, fredda ed inarrivabile, qualcosa che nascondeva sotto quella apparente allegria, una sofferenza, un segreto, o una debolezza, non lo sapevo, mi giurai che ci sarei arrivata, col tempo, magari, ma sarei entrata nel suo cuore, per scoprirlo, ma non quella sera, no, non avevo tempo di pensare a cose tristi, lui era lì con me, poco importava se entrambi in quel momento avevamo un partner, stavamo bene insieme e questo lo vedevano tutti, specialmente la sua ragazza, che con i piedi congelati, ancora si ostinava a non mettersi almeno un paio di calze pesanti, si, lei mi guardava strano, mi studiava, ma io non avevo paura, me la sarei fatta amica e magari anche lui, nonostante io fossi certa già da allora che lui fosse la mia anima gemella. Lui invece, non se ne era ancora accorto.

La cena volò, cazzarielli coi fagioli per scaldarci, salsicce, arrosticini e spiedini alla brace, vino rosso del pecoraio - guardiano del palazzo ed alla fine, esplorazione approfondita dell'armadietto dei liquori di mio padre mentre Lorenzo prendeva la chitarra e ci accompagnava. Cantare mi piace, da morire, peccato che mi vergogni un po' di far sentire la mia voce, qualcuno che mi ha ascoltato in qualche karaoke dice che io sono un soprano, ma non lo so, so soltanto che quando chiamavo la mia amica dal mio palazzo a quello suo, dall'altro lato della strada, mi sentiva tutto il quartiere, e rischiavo di far rompere i vetri alle finestre. L'unico posto dove ho sempre avuto il coraggio di tirare fuori tutta la mia voce è allo stadio, anzi, veramente allo stadio tiro fuori ben altro, non solo la voce, diciamo che mi trasformo in un ultrà senza pietà, ma questa è un'altra storia. Comunque, mentre io mi imbarazzavo Daniela tirò fuori una voce da professionista, impostata e severa, e, chiedendo canzoni di Mina e Caterina Caselli, tutta roba recente, fece il suo piccolo concerto intermezzando il canto con simpatici epiteti rivolti al fidanzato che, secondo la sua personale opinione, sbagliava accordi con la chitarra e la disturbava. Lorenzo, che non è il tipo da passare per cretino, dopo la terza o quarta interruzione perché quella non si trovava con la musica decise prima di farla cantare da sola, e poi di tagliare la testa al toro ed attaccare con le canzoni di Tony Tammaro e dei cartoni animati. Così i virtuosismi della solista si persero nella frittata di maccheroni di Patrizia e nel fioretto di Lady Oscar. Quel finale di serata, prima di andare tutti a coricarci nelle lenzuola di flanella, fu anche molto istruttivo, perché realizzai finalmente che il fioretto che il papà metteva nel letto di lady Oscar non era un piccolo fiore, ma una spada. Non si finisce mai di imparare.

La mattina dopo al risveglio, ebbi un'altra bella sorpresa, che in parte mi aspettavo: io mi alzo presto, soprattutto in montagna, anche quando non devo andare a sciare, così quel sabato alle sette, come sempre, ero in piedi, pronta a tirare tutti giù da letto, ma arrivata in cucina per fare il caffè trovai Lorenzo che era già alle prese con la macchinetta, aveva i capelli arruffati, spettinati, ed addosso aveva il pezzo di sotto di una tuta grigia e sopra una maglietta bianca a maniche lunghe. Avrei voluto stampargli un bel bacio per salutarlo, ma mentre pensavo cosa fare lui si girò, mi salutò con un sorpreso Ah buongiorno, e distrattamente mi stampò le sue labbra sulla mia guancia, come se fosse la cosa più normale del mondo. Io rimasi un po' interdetta ed avvampai leggermente, per fortuna lui si era già voltato per riempire la macchinetta col caffè e non mi vide, allora per rompere il ghiaccio gli chiesi: "Avevi dimenticato il pigiama? Te ne potevo dare uno in pile di mio padre.", lui terminò di girare la ghiera, accese il fuoco con tutta calma, posò la macchinetta e mi guardò direttamente negli occhi come se mi stesse confidando il più grande segreto del mondo e disse: "Io odio il pigiama!", poi con un sorriso tagliente e cattivo che avrei imparato a conoscere bene aggiunse: "Tu invece no, vedo...". Io avevo un pigiamone foderato, con la testa di Paperon de' Paperoni sul davanti, faceva parte della mia collezione invernale risalente all'adolescenza, che non avevo mai avuto il coraggio di buttare, era caldo e comodo. "Mi trovi sexy?" gli dissi in modo civettuolo, facendo una piroetta su un piede, probabilmente lui avrebbe trovato più seducente un sacco di iuta, ma non si scompose minimamente, si morse il labbro con desiderio ed una assoluta serietà mi disse: "Potrei quasi rinunciare al caffè, peccato che c'è gente dall'altro lato della stanza...", io non capii se diceva sul serio o mi prendeva in giro, e perciò passarono circa cinque secondi di silenzioso imbarazzo, poi lui non ce la fece più ed esplose in una risata. Risi anche io di gusto, ma forse, sotto sotto, mentre gli altri ancora dormivano, un pizzico avrei voluto che quelle parole fossero state vere. 

La giornata sulle piste non ci riservò particolari sorprese, c'era ancora abbastanza neve nonostante l'inverno fosse ormai andato, Lorenzo affittò sci e scarponi e ci seguì nelle discese, mentre Daniela preferì fermarsi fuori allo chalet a prendere il sole con alcune amiche che aveva incontrato casualmente. Probabilmente si sarebbe sciupata l'acconciatura. Per fortuna Lorenzo non si creò problemi e salì con noi, era un po' preoccupato, perché, disse, non sciava da più di dieci anni, era la prima volta che lo vedevo insicuro di fare una cosa, in genere era sempre così spavaldo, guardava tutti un po' dall'alto in basso, mentre lì, appena sceso dallo skilift si guardava intorno, quasi sperduto, avevo scelto una pista azzurra per iniziare, la discesa sarebbe stata dolce e piuttosto facile, ma era comunque una pista. Lui mi confessò che prima di allora, quando da bambino aveva fatto le solite lezioni per principianti non si era spinto oltre un piccolo promontorio dove c'erano le scuole di sci. Quella era un'altra cosa, c'era gente dappertutto, con tute sgargianti e attrezzatura costosa, chi si lanciava ad uovo, chi sportivamente senza bastoni come me, chi con i primi snowboard. Non si decideva a scendere, sembrava terrorizzato, guardava la pendenza per calcolarne la velocità, ma ovviamente non avendo esperienza non poteva prevedere granché. Poi mi guardò e mi disse: "Sono pronto, dimmi solo come si fa a girare!", andiamo bene, pensai io, poi cominciammo la discesa, io guardavo con un occhio Diego che si pavoneggiava davanti mimando uno slalom ed alla mia destra il povero Lorenzo che si cimentava con i suoi ricordi d'infanzia e la realtà della pista. Non andava male, aveva iniziato come tutti i principianti con uno spazzaneve un po' scorretto, rigido sulle gambe e con la schiena inarcata all'indietro, poi, casualmente, mentre gli sembrava di perdere l'equilibrio piantò la gamba destra nella neve e curvò dolcemente a sinistra. Vidi un immediato cambiamento nell'espressione degli occhi, riprovò la stessa manovra con l'altra gamba, e curvò a destra, allora la ripeté ancora una volta ed esultando mi gridò: "Ho capito!!". La paura lasciò il posto al divertimento, anche perché la pista non era certo veloce, era quasi per bambini, ma Lorenzo cominciava a muoversi con maggiore fluidità, sempre un po' rigido, ma acquistava velocità, poi rallentava, studiava la risposta degli sci. Arrivati a valle, dopo la prima discesa Diego era annoiato, Lorenzo era raggiante per aver superato il suo primo ostacolo, ed io ero felice di essere stata l'artefice di della sua rinascita sciistica. Dopo dieci minuti ci separammo, Diego decise di provare un'altra pista più difficile per divertirsi un po', Daniela rimase sdraiata al sole, esattamente dove l'avevamo lasciata, e, quando le passammo davanti, senza nemmeno degnarci di uno sguardo ci indicò la strada delle piste come a dire: "Andate!". Eravamo rimasti di nuovo io e lui, soli in mezzo a tutta quella gente. "Che vuoi fare?" gli chiesi. "Ovvio!" mi rispose, "Risaliamo!".

Ripetemmo la pista azzurra per almeno tre o quattro volte, e Lorenzo scendeva sempre più sicuro e tranquillo, poi verso mezzogiorno, gli chiesi se volesse provare a scendere sulla rossa. Una punta di timore tornò nel suo sguardo, ma accettò la sfida, probabilmente per non fare brutta figura, mi chiese le caratteristiche della pista, quanto veloce fosse, se ci fossero dei pericoli rispetto all'altra. Io lo rassicurai, dal mio punto di vista era comunque facile, ma io non avevo mai analizzato la discesa dal suo punto di vista, io scendevo d'istinto, sentivo il vento in faccia ed andavo. Forse infatti avevo un po' esagerato, iniziammo bene, con una pendenza piuttosto regolare, un po' maggiore rispetto alla pista azzurra, ma ben controllabile, poi però mi accorsi che c'era una curva che non avevo considerato con un muro cieco all'ombra, praticamente un cambio di pendenza in una zona ghiacciata, lì facevo sempre un piccolo salto, acquistando velocità e lanciandomi fino alla fine della pista come un proiettile. Non ebbi il tempo di avvertire Lorenzo che era davanti a me, così si trovò sul muro, senza terreno sotto gli sci, ed accelerò improvvisamente, mi sparì dalla visuale per diversi secondi, e poi lo ritrovai in una nube di neve per terra. Mi fermai, per vedere come stava, mi batteva forte il cuore non per lo sforzo, ma per la paura che per colpa mia si fosse fatto male. In fondo era il primo giorno che sciava e lo avevo portato su una rossa per puro mio narcisismo, per dimostrarmi che ero capace di insegnare velocemente ad un principiante. Lui mi guardò alzandosi gli occhiali da neve che gli avevo prestato e mi disse: "Tu sei pazza, mi volevi fare ammazzare?". Io mi sentii terribilmente in colpa e mi chinai su di lui, toccandogli prima una gamba, poi un braccio, "Ti sei fatto male?" gli chiesi, ma lui mi prese la mano e me la strinse attraverso i guanti spessi, mi guardò con intensità per un secondo come se volesse dirmi qualcosa di importantissimo, poi cambiò espressione, sorrise, si rimise in piedi e con uno sguardo di sfida mi confessò che si era lasciato cadere per non andare troppo forte, e concluse: "Forse per oggi può bastare!".

Chissà cosa stava per dire...

CAPITOLO QUATTORDICI

La montagna in fondo non piaceva a Lorenzo, anche in primavera, c'era troppo freddo, troppi vestiti, troppi movimenti goffi, e troppo cibo grasso. Non che non amasse mangiare, ma l'eccesso di formaggi fusi e fondute gli dava la nausea. Per fortuna, quella sera, dopo l'avventura sulle piste, nella quale comunque si era comportato più che dignitosamente per essere uno che non aveva mai preso una seggiovia e fatto una discesa nel vero senso della parola, avevano prenotato in un ristorante tipico dal nome che prometteva calore e spazi angusti: la Trappola. Il menù offriva una bella varietà di primi con ragù di cinghiale, funghi o legumi, anche se la carne alla brace era il pezzo forte. Mangiò di gusto e bevve più del necessario, senza grossi effetti collaterali, se non una certa allegria espansiva che gli rendeva più amabile il mondo che lo circondava. Anche la sua ragazza, Daniela, gli sembrava più gentile, pareva che avesse perso quell'aura austera e giudicatrice, e fosse tornata la ragazza fresca di cui si era innamorato qualche anno prima, gli venne voglia di fare l'amore con lei quella sera. Certo, sarebbe stato difficile, perché loro dormivano in un letto a castello, piuttosto scomodo, e Daniela non era certo il tipo che si lasciasse andare a venti di passione incontrollata nel primo posto che capitava, anzi, era piuttosto il contrario. Lei aveva indugiato più di qualche tempo prima di decidersi ad andare a letto con lui la prima volta, perché non era convita del loro rapporto e voleva scegliere il momento ed il posto migliore per l'occasione. Condivisibile, ma certo, poco consona ad una giovane nel pieno della sua attività ormonale. Quel pensiero raffreddò immediatamente i bollori di Lorenzo, che si voltò dall'altra parte e subì lo sguardo penetrante di Claudia che, casualmente era seduta alla sua sinistra; proprio in quel momento aggiustandosi i capelli incrociò i suoi occhi, e contemporaneamente il ginocchio di lei sfiorò la sua gamba, non capì se lo avesse fatto apposta, ma all'improvviso un calore strano lo pervase, un senso di claustrofobia unito alla sensazione di un terremoto imminente lo indussero ad alzarsi, quel posto gli sembrò minuscolo ed angusto, doveva alzarsi e prendere un po' d'aria, riordinare le idee e fare evaporare l'alcol. Prese una sigaretta di Daniela e usci al freddo per fumare e stare un po' da solo.

Non passarono cinque minuti che Claudia era fuori con lui, sorrideva, come se nulla fosse accaduto, e forse era davvero così, ma intanto lei era li con lui a parlare. Gli prese la sigaretta dalle mani, e ne aspirò una boccata.

"Ma tu fumi?" le chiese lui.

"No!" rispose ridacchiando lei.

"Ah bene neanche io!"

"Infatti, lo vedo, questa è una sigaretta di cioccolato vero?"

Lui sorrise alla battuta ed aggiunse: "No, davvero io non fumo, queste sono di Daniela, per me fumare una sigaretta è come farmi una canna, mi gira tutto per qualche minuto, lo faccio ogni tanto quando ho bevuto troppo, ed è un'ottima scusa per stare un po' fuori!"

"Infatti, questo è vero!" disse lei prendendogli la sigaretta dalla mano e passandogli il suo bicchiere di vino indicandogli di bere, lui lo prese e impercettibilmente sfiorò la sua mano nel passaggio, lei se ne accorse ed indugiò un istante di troppo, poi guardò in trasparenza il bordo del calice e notò il l'ombra del profilo della labbra di lei, lo trovò stranamente irresistibile e stava per appoggiare le sue labbra su quell'impronta quando la porta del locale si riaprì ed uscì la sua ragazza, che stridendo come le unghie sulla lavagna, li richiamò perché era arrivato il dessert. Che nessuno dei due avrebbe mangiato. Daniela volse le spalle ad entrambi e filò all'interno del locale, perché, disse era troppo freddo, a Lorenzo e Claudia non restò che un ultimo sguardo ed un sospiro che di rassegnazione. Entrambi si chiesero cosa stessero pensando gli occhi che avevano d'avanti.

La serata si affievolì lentamente, tornarono a casa, accaldati dal vino e dal cibo, ma stanchi per la lunga giornata, la fatica nelle gambe si faceva sentire, parlarono poco, sorseggiarono una grappa più per educazione che per voglia, e poi si salutarono velocemente sapendo che quella sarebbe stata l'ultima notte insieme. Daniela mise su un meraviglioso pigiamone antistupro e si infilò quasi senza passare per il bagno nel letto di sotto, evidentemente non aveva alcun desiderio di sensualità. Lorenzo non aveva voglia di dormire immediatamente ed accese la televisione con la scusa di aspettare che gli altri si lavassero i denti e si cambiassero. Claudia e Diego, mano nella mano, uscirono dal bagno con i loro pigiamini coordinati, lui con un sorriso largo e pieno di attese, lei con uno sguardo che tradiva timidezza e quasi senso di colpa.

Beh, almeno loro fanno la loro parte pensò Lorenzo con una certa amarezza, lui era costretto a stare da solo con un vecchio telecomando su un divano scomodo a guardare programmi notturni. "Cercate almeno di non fare rumore..." li apostrofò mentre si congedavano, lo disse quasi ridendo, ma stranamente sentì una punta di amarezza tra le labbra, lo avvertì ed abbassò il volume del televisore per non lasciarsi distrarre e per capire le sue sensazioni, e così ne ebbe la certezza, era gelosia. Si, era geloso che Claudia facesse l'amore col suo ragazzo, una cosa stupida e oltremodo insensata, che non avrebbe ammesso nemmeno a se stesso nel silenzio della notte. Scacciò il pensiero con decisione e ascrisse la sensazione piuttosto alla delusione di non aver potuto fare la stessa cosa con Daniela. Rialzò il volume per seguire un telegiornale della notte, non che gli interessasse quello che stava accadendo nel mondo, lui aveva quasi vent'anni, e come molti suoi coetanei, il mondo era il suo quartiere e poco altro, ciò che accadeva lontano da lui lo coinvolgeva marginalmente, infatti ancora non capiva perché i suoi genitori fossero così interessati alle notizie del giorno, cosa cambiava della loro vita se israeliani e palestinesi non trovavano un accordo o se gli americani decidevano di invadere un giorno l'Iraq ed un altro la Libia. Bella età nella quale politica internazionale ed economia sono solo materia d'esame. Nella sua mente faceva il breve resoconto degli eventi che maggiormente erano stati trasmessi dai telegiornali nazionali negli ultimi anni, e tra se e se scrollava le spalle, in fondo la guerra del Golfo per lui era stata solo l'occasione di alcuni scioperi durante il primo quadrimestre, la questione mediorientale era un casino cronico, che si trascinava da decenni, Gheddafi forse lo aveva preoccupato un po' di più, visto che la Libia in fondo non era così lontana da casa sua, e soprattutto Napoli ospitava la sede della Nato che poteva sempre essere bersaglio di qualche attentato. In fondo sapeva di essere un po' qualunquista, non era come il suo amico Massimo che dall'età di quindici anni aveva abbracciato il comunismo con convinzione, parlava con decisione della fame in africa, delle industrie che sfruttavano gli operai, del profitto incontrollato di pochi sulla pelle della gente, della scuola che non insegnava ciò che era necessario al futuro degli studenti, in pratica era un politico in erba con una coscienza civica che a Lorenzo mancava. Non che fosse tutta colpa sua, in effetti, i ragazzi assorbono l'atmosfera che si vive in famiglia, e i suoi genitori non gli avevano certo trasmesso quel genere di visione della vita, erano brave persone, lavoratori indefessi che usavano tutte le ore possibili della giornata per poter guadagnare il denaro per i propri figli, ma non capivano granché di politica, votavano alternativamente a destra o a sinistra a seconda delle circostanze del momento, e comunque non vedevano molto oltre il loro naso. Mentre lasciava passare il tempo con questi pensieri, la sua attenzione venne catturata da un titoletto che si riferiva ad una tragedia a Secondigliano. Beh, quella era davvero vicina a casa sua, focalizzò lo sguardo sulle immagini e vide una voragine in mezzo a dei palazzi sventrati. Capì dalle parole dell'inviato che qualche giorno prima c'era stata un'esplosione in una galleria in costruzione per una fuga di gas, in quell'occasione erano morte circa undici persone ed erano andati distrutti tutti gli edifici del circondario, e la cosa tragica era che la voragine creatasi in seguito al botto, aveva reso impossibili i soccorsi bloccando l'accesso al quartiere. Una tragedia pensò, guardando le macerie, i vigili del fuoco che cercavano i superstiti e la gente che commentava la scena raccapricciante. Dopo quell'ultima notizia che lo aveva coinvolto alquanto, poiché diversi suoi conoscenti abitavano in quella zona, decise di aver atteso abbastanza e si infilò il non-pigiama nel soggiorno, tanto nessuno lo avrebbe visto, lì da solo al buio, e dopo le normali procedure da bagno si infilò nel letto superiore del castello e chiuse gli occhi. Si sentiva come in una cuccetta in un treno, come quando era andato a Parigi per il viaggio di quinta, una sola tirata da Napoli alla Gare de Lyon, che spettacolo, gli sembrava quasi di sentire il rumore delle ruote del treno, quel tata-tata ritmico che cambiava quando il veicolo passava attraverso le gallerie o sui ponti, era così reale, troppo reale. Riaprì gli occhi, e capì, il suono veniva dalla camera da letto, altro che treno in corsa, quella era una cavalcata bella e buona pensò, si girò su un fianco per cercare di dormire, ma non ci riuscì, contò pecore e montoni, recitò preghiere noiose, ma niente, appena smetteva gli compariva davanti l'immagine di Claudia sdraiata sul letto, seminuda, con un cappellino da Babbo Natale e due mani che l'accarezzavano, non riusciva a vedere la faccia dell'amante, ma vedeva benissimo il corpo di lei e la biancheria di pizzo che cercava di sfilarle. Si rigirò nel letto più e più volte pur di allontanare dalla sua mente quell'immagine, ma riuscì soltanto a ricevere un richiamo dall'inquilina del piano di sotto che voleva dormire e non aveva intenzione di essere disturbata da tutti quei movimenti. Allora smise di combattere, si mise supino, chiuse gli occhi e cedette alla fantasia ed un'erezione che contemporaneamente gli si palesava, dolcemente e silenziosamente si cominciò ad accarezzare e finalmente il suo desiderio di amore si raggrumò in un fazzoletto di carta e lui svenne in un sonno senza sogni.

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