Capitolo 7

CAPITOLO SETTE

Dire che non abbia fantasticato su di lui sarebbe stato falso, non potevo fermarmi ad aspettarlo, in montagna mi erano successe tante cose, il mondo andava avanti, ed io mi volevo divertire, non avevo ancora nemmeno vent'anni. D'altra parte perché lo conoscevo appena, era fidanzato con quell'arpia dalle tette grosse, insomma era tecnicamente non era troppo disponibile. Anche se questo non era certo un problema insormontabile.

Comunque lo rividi appena ricominciarono i corsi, come sempre lui era alle prime file ed io sul loggione a fare casino, non avemmo molte occasioni di parlare anche perché un altro elemento di turbamento venne a disturbare i miei propositi: Diego. Si, proprio il ragazzo che mi aveva soccorso sul corso di Roccaraso, dopo circa dieci giorni dal ritorno all'università me lo ritrovai davanti:

"E tu che ci fai qui?" gli chiesi, quasi già conoscendo la risposta.

"Te l'avevo detto no? Non mi piaceva la mia facoltà, cos' ho deciso di passare a giurisprudenza!" rispose lui, con un sorriso che voleva essere ammaliante. Io lanciai l'amo, così tanto per ridere, e per sentirmi lusingata, senza impegno, quasi a volerlo prendere in giro.

"Ah, pensavo che fossi passato per venirmi a trovare!" commentai, aggiungendo un broncio da cagnolina, lui ci cascò come un bambino su una buccia di banana e si affrettò ad aggiungere che certamente era venuto lì per me, per chi altri sennò. Avevo flirtato, me ne ero resa conto, ma che c'era di male? In fondo, proprio nulla.

Da allora Diego Iaccarino aveva cominciato un processo di accerchiamento come un esperto giocatore di Risiko che per conquistare la Kamchatka avendo la Siberia ed il Giappone, si appropria a colpi di dado della Mongolia, della Cita e della Jacuzia, per poi farla capitolare. Con mille piccole attenzioni, cercando di far notare la sua presenza in ogni occasione in cui poteva servirmi un aiuto, o anche semplicemente con un complimento, mi corteggiava. Questo mi lusingava, e certo, mi divertiva anche, ma piano piano l'immagine di lui, che non era oggettivamente bello, già un po' stempiato e con due canini aberranti che gli donavano un sorriso da vecchietto, nel mio inconscio si modificava, i sui difetti venivano lentamente coperti da un velo di gentile noncuranza, e cominciò a piacermi. Devo dire che dall'altra parte Lorenzo continuava a non accorgersi quasi di me, troppo impegnato ad intrattenersi con le gallinelle delle prime file che lo vedevano intelligente e speravano in un aiuto nello studio, ogni tanto sentivo qualcuna che lo invitava a casa sua per farsi spiegare le pagine di diritto, e lui non scontentava nessuna, diceva sempre si a tutte, chissà poi se alla fine ci andava.

Una mattina alla fine delle lezioni ero scappata prima degli altri perché mio padre era libero e mi aveva chiesto di accompagnarlo per la città a risolvere alcune questioni, sapevo che era una scusa, mio padre era fatto così, mi voleva vicino, da sempre, addirittura, quando ero piccola, alle elementari, non mi mandava a scuola il giovedì perché così potevamo trascorrere una giornata insieme. Io aspettavo tutta la settimana quel giovedì, più della domenica, per passare del tempo sola con il mio papà, poi al liceo questo non fu più possibile, ma ogni tanto facevamo una sortita, così all'improvviso per ricordare i vecchi tempi. Quella mattina, era chiaramente un giovedì e come tutti i giovedì degli ultimi vent'anni, lui non lavorava e voleva compagnia, così poco prima dell'ultima ora di lezione io me ne ero andata, era una bella giornata invernale con un bel sole, presi la mia Vespa Special e salii al Vomero, per parcheggiarla in garage. Solo allora mi accorsi di aver indossato gli occhiali da sole e di aver perso i miei occhiali da vista, non ero molto miope, ma per seguire le lezioni alla luce artificiale mi servivano, probabilmente li avevo lasciati sulla sedia all'università. Poco male pensai, erano vecchi e mezzi rotti, avevano una stanghetta attaccata con lo scotch e strati di sporcizia che risalivano al Cretaceo. D'altra parte io odiavo gli occhiali, quindi per me era stata quasi una liberazione, anche se avrei dovuto comprarne di nuovi. Non ci pensai più quel giorno, mi godetti il tempo con mio padre, andammo alla banca a piazza Amedeo, poi ci fermammo a prendere una pizzetta ed un'aranciata ed alla fine ci facemmo una bella passeggiata a via Caracciolo. Mi piaceva passeggiare con mio padre, da quando ero piccola, non era soltanto un camminare per le strade, ma era come fare una continua visita di istruzione, non smetteva mai di spiegarmi cosa avessi intorno, dalle chiese ai palazzi, agli alberi, fino anche agli animali ed alle loro abitudini. Mio padre sapeva tutto, per lui non era accaduto ciò che accade agli altri padri, che quando sei piccola è quasi un dio e poi lentamente torna ad essere umano, fino a diventare un vecchio bisbetico brontolone, no, lui per me è sempre stato il modello cui tendere, amorevole ma austero, severo ma dolce nell'animo. Secondo me anche lui si rendeva conto di essere molto più grande degli altri papà e per questo voleva godersi ogni momento della sua vita con me.

Il lunedì dopo ritrovai, al posto dove avevo lasciato la borsa, un paio d'occhiali, li guardai, somigliavano ai miei, ma chiaramente non lo erano, mancava lo scotch e l'unto che li contraddistingueva, ma erano dello stesso colore e modello. Li indossai, tanto per provare, e ci vedevo perfettamente, anche meglio di prima, perché erano andati via diversi strati di sporcizia. Mentre mi guardavo intorno, cercando di identificare il collo di pelle del giubbotto di Lorenzo giù, vicino alla cattedra, mi si parò davanti l'immancabile Diego che mi guardò con il suo sorriso senza canini: "Allora? Ti piacciono?" mi chiese.

"Ma lo hai fatto tu?", capii tutto immediatamente, avevo dimenticato gli occhiali nella fretta e lui li aveva ritrovati, ne era rimasto inorridito ed aveva deciso di sistemarli. Era stato proprio un tesoro.

"Si, erano un po' male combinati, non credi?".

Mi intenerii, e gli stampai un bel bacio sulla guancia, se lo era meritato, se non altro per la costanza e per l'idea. Lui non perse tempo, e, vista la mia buona disposizione mi chiese di studiare insieme. Io avevo già una mia compagna di studi, Chiara, una ragazza che avevo conosciuto in facoltà, ma con la quale mi ero subito trovata benissimo, perché era esattamente opposta a me, praticamente era una specie di santa verginella, talmente brava e buona da sembrare finta, non diceva parolacce, non parlava mai male di nessuno, e soprattutto voleva restare vergine fino al matrimonio, cosa che, nella Napoli peccaminosa che si avvicinava al Duemila era quasi esilarante. Ma quando si toccava l'argomento lei era molto seria e determinata, non lo faceva per un credo religioso, o comunque non solo per quello, non era una bigotta ma perché, come una ragazza d'altri tempi voleva che il suo uomo l'aspettasse per coronare il suo sogno di scoprire il sesso solo dopo il matrimonio. Aveva la fortezza e la costanza di superare la tentazione della carne, era encomiabile, sarà per questo che mi piaceva, io non riuscivo, mi concedevo all'ira ed ai piaceri della vita, il sesso mi sembrava una cosa normale e non intendevo attendere l'ineluttabilità del matrimonio per capire se le cose funzionavano, insomma anche le auto e le moto si provano prima di comprarle per non avere delusioni, figuriamoci gli uomini.

Comunque, quando Diego mi chiese di studiare a casa sua ebbi un istante di esitazione, poi vidi con la coda dell'occhio che Lorenzo si abbracciava con Giovanna, un'altra delle tettone che gli sbavavano dietro ed allora, quasi con un moto di rabbia, quasi per punire l'ignaro ragazzo che si faceva lusingare così facilmente, accettai. Sono sempre stata un po' vendicativa.

E per vendetta mi feci fregare.

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