Capitolo 5


CAPITOLO CINQUE

Passai le vacanze di Natale a Roccaraso, come la maggior parte dei Napoletani abbienti. Si, mio padre aveva acquistato una bella casa grande in un residence in costruzione diversi anni prima e finalmente era arrivato il tempo di passare un po' di giorni sulla neve. Mi piace sciare, mi viene naturale, non ho neanche bisogno dei bastoni, io scendo e basta, non ho mai fatto lezioni, sento la pendenza, le gobbe, ed il vento in faccia. Il mio corpo si muove spontaneo, premendo su uno o l'altro sci ed io magicamente faccio le curve, accelero o rallento. Neanche i miei genitori se lo sanno spiegare, ma ho imparato da sola, guardando gli altri, e quando, a tredici anni, mio cugino mi disse che non avrei avuto il coraggio di scendere la pista con lui, perché non avevo fatto lezione, io mentii senza riguardo dicendo che si sbagliava ed andai con lui. Avevo una strizza paurosa, non avevo mai nemmeno preso uno skilift, ma salii e senza batter ciglio mi lanciai sulla discesa, all'inizio chiusi gli occhi per la fifa, ma poi sentendo che invece di cadere acquistavo velocità, li aprii e vidi che il mondo mi sfrecciava ai lati, gli alberi, le persone, le bandiere, ed io andavo, non sapevo come, ma andavo, fu una sensazione stupenda, ma soprattutto fu la conferma per tutti quelli che mi conoscevano, di una mia caratteristica importante: io non avrei permesso a nessuno di dirmi che non sarei riuscita a raggiungere un obiettivo. Anzi, quando qualcuno sorridendo mi prende in giro con un banale "Non ce la farai mai..." , io reagisco, come Marty McFly in Ritorno al futuro, quando gli dicevano che era un fifone: divento un'altra, qualcosa di animalesco scatta in me, certo, per questo motivo qualche volta mi sono cacciata in brutti guai, altre, invece mi sono salvata per miracolo, ma per fortuna sono ancora qui a raccontarle.

Comunque io amo la montagna, sarà per la casa, che è bella, confortevole, con il camino e le lenzuola di flanella, sarà perché si mangia tanto e si mangia bene, o forse perché posso avere mio padre sempre con me, lui che normalmente lavora quattordici ore al giorno insieme a mia madre, chiusi in uno studio, e posso divertirmi con lui a pulire, fare giardinaggio, sistemare il garage, riparare le gomme delle biciclette. Insomma godermi tutto il tempo che non sto sulle piste, insieme a lui. Come tutte le figlie, probabilmente, avevo costantemente paura di perderlo, lo vedevo grande, la sicurezza che mi donava era enorme, ma forse anche per questo mi sembrava che il tempo passato insieme non fosse mai abbastanza. E' probabilmente è stato così. Quel Natale piantammo insieme degli alberelli nel giardino che dà sulla strada, erano delle tuie, ed erano piccole ed indifese, ma quando sarebbero cresciute avrebbero fatto una gran bella figura. Per il momento sembravano microscopiche rispetto al roseto che imperava davanti al balcone.

Passeggiavamo molto, anche con mia madre e con mio cugino Marco che aveva un appartamento nello stesso stabile, seguivamo il sentiero che da Rivisondoli portava a Pescocostanzo, era un sentiero magico, d'inverno era candido di neve, mentre d'estate dopo il tramonto era tutto illuminato da lucciole, grandi ed allegre, di quelle che si vedono solo nei cartoni animati. Qualche volta andavamo al bosco di Sant'Antonio per un'escursione insieme ad altri amici, oppure semplicemente nella piazza del paese a comprare la focaccia all'olio, calda e fragrante, che non riusciva quasi mai ad arrivare a casa intatta. In una di queste passeggiate, mi sembrò di vedere Lorenzo, ma forse mi sbagliai, anche perché non mi aveva detto che sarebbe venuto in montagna; ciò che mi aveva attirato era l'abbigliamento: stivali e giubbotto di pelle, come all'università, ma non poteva essere lui, si sarebbe congelato vestito in quella maniera, con quattro gradi sotto lo zero. Camminava da solo, eppure sembrava proprio lui, ma non lo chiamai, non gli andai incontro, lo lasciai allontanare camminando sul selciato con un'andatura ondeggiante che ricordava John Wayne. Lo vidi allontanarsi e non feci altro se non guardarlo, non perché non mi andasse di chiamarlo, ma perché avevo appuntamento con il mio fidanzato Gianni, davanti al cinema sul corso ed ero un po' in ritardo, e sapevo che lui, essendo una persona esageratamente puntuale, si sarebbe innervosito moltissimo se avessi perso ancora tempo. Mi affrettai, ma mentre camminavo con il mio solito passo da marcia su Roma, passai su quelle che sembrava una pozzanghera quasi asciutta ma che in realtà una lastra ghiacciata: il piede perse l'attrito all'improvviso, grazie alla forza che avevo impresso alla gamba, feci quasi una capriola nel vuoto, atterrai malamente sul sedere, peraltro ben foderato, quindi non mi feci tanto male, ma mentre ancora cercavo di rialzarmi, sentii una voce chiamarmi ed una mano che si poggiava sulla mia gamba: "Claudia, ti sei fatta male?", ricordavo quella voce ma non riuscivo ad inquadrarla, mi voltai e vidi Diego Iaccarino, un mio vecchio compagno di classe, che, col fumo che gli usciva dalla bocca era inginocchiato vicino a me per soccorrermi. Io restai ovviamente un po' sorpresa, non lo vedevo da diversi mesi, e non mi aspettavo di incontrarlo in quell'occasione, anche se non c'era niente di strano, il corso di Roccaraso durante le vacanze di Natale era più o meno come via Caracciolo, avrei rivisto un mucchio di altre persone in quei giorni. "Iaccarino, che ci fai qui?", gli chiesi, chiamandolo per cognome, come sempre accadeva tra liceali, mi stupì la sua solerzia e quell'espressione trasognata che aveva mentre mi soccorreva, come se avesse appena baciato la Bella Addormentata nel bosco, non me lo ricordavo così premuroso, non era stato fra i miei spasimanti dell'ultimo anno, però in lui c'era senza dubbio qualcosa di strano. In men che non si dica si era formato il solito capannello, con gente che chiedeva cosa fosse successo, se mi fossi fatta male o se avessi battuto la testa. Io stavo benissimo e mi ero già rialzata, ma con la caduta mi ero bagnata tutti i pantaloni, ed avevo un grossa chiazza scura proprio sul mio proverbiale sedere, che in quel momento tutti stavano fissando. Diego colse l'occasione per invitarmi a prendere un punch al mandarino ed a scaldarmi davanti al camino del bar di fronte, io accettai, poiché combinata in quella maniera non potevo certamente andare in giro, mi sarei congelata senza dubbio. Gianni mi avrebbe aspettato invano per una decina di minuti e poi se ne sarebbe andato a casa imbufalito, ma tanto non avevo alcuna possibilità di avvisarlo, un imprevisto può sempre accadere, poi in qualche modo gli avrei spiegato l'accaduto.

Diego era diverso, più adulto di come l'avevo lasciato alla fine dell'anno scolastico, era premuroso, mi offrì anche un dolcetto con la crema, l'atmosfera un po' retrò del bar sul corso faceva da perfetta cornice all'incontro, mi sentivo come in uno dei cinepanettoni che avevo visto a Natale al cinema che stava poco più avanti, e mi raccontò che si era iscritto a scienze politiche, ma non si trovava bene, perché le lezioni erano confuse ed affollate, non conosceva nessuno e non aveva incontrato persone simpatiche come me. Quando gli dissi che io invece stavo frequentando legge e che invece non mi potevo lamentare, lui si illuminò, infatti, disse, stava proprio pensando di cambiare facoltà e doveva scegliere qualcosa che gli piacesse. Continuò dicendo che l'idea di iscriversi a giurisprudenza non sarebbe stata male, anche perché c'ero io, mi chiese anche che cosa ne pensassi della sua scelta, ma io ovviamente non mi espressi perché non avevo elementi validi su cui basarmi, mi limitai a sorridergli mentre pensavo a Gianni fuori al cinema infreddolito ed arrabbiato. Alla fine dopo circa un quarto d'ora di pro e contro mi promise che si sarebbe trasferito il prima possibile, e mi estorse anche la promessa che avremmo studiato almeno qualche esame insieme.

Mai promessa fu più avventata.

Quella parola data innescò una serie di eventi a catena che cambiarono il corso della mia vita.

E mi allontanarono inesorabilmente dal mio obiettivo primario: Lorenzo.

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