Stonewall Inn
Storia scritta per la challenge di "Il Rubacuori" indetta da AfterRomanceIT e FanfictionIT, partecipante al concorso "Stonewall".
- Jack, sei pazzo? Hai scommesso tutto quello che abbiamo! - disse Fabrizio, fissando incredulo il compagno e strizzando gli occhi per ripararli dalla fastidiosa luce delle lampade a neon.
Jack si sfilò la sigaretta dalle labbra carnose e soffiò una lunga boccata di fumo. Si voltò verso Fabrizio e sospirò con fare di superiorità.
- Quando non hai niente, non hai niente da perdere - rispose con un mezzo sorriso, tornando a rivolgere lo sguardo al proprio mazzo di carte, tendendo intanto l'orecchio per captare la conversazione dei due stranieri che gli stavano di fronte.
L'orologio da taschino ticchettava insistentemente dal suo posto al centro del tavolo da poker, che si trovava piazzato proprio nel mezzo di quel polveroso bar newyorkese.
I due stranieri continuavano a discutere piuttosto animatamente in una lingua sconosciuta, fulminandosi a vicenda e strabuzzando gli occhi di tanto in tanto.
Jack osservò di sottecchi Fabrizio, facendo nel frattempo un'altro tiro dalla sigaretta.
Quest'ultimo era visibilmente nervoso, Jack lo constatò dal tremolio della mano che reggeva le carte e dal sudore che continuava a imperlargli la fonte, incorniciata da folti riccioli scuri appiccicati l'uno all'altro.
Era un bel ragazzo, moro e con grandi occhi color carbone, il fisico abbastanza muscoloso tipico di chi passava le giornate a trasportare sacchi di cemento, la pelle color caffelatte cotta dal sole.
Finalmente i due che gli stavano di fronte smisero di litigare, suggellando l'accordo pescando l'ultima mano di carte.
Fabrizio fece lo stesso, osservando poi Jack compiere il medesimo gesto.
Lo sguardo di tutti si puntò verso il centro del malconcio tavolo di legno, in direzione del denaro e degli oggetti messi lì in bella mostra. Un orologio da panciotto, un coltellino tascabile, diverse monete, un modesto mucchietto di bigliettoni di grosso taglio e la chiave di un monolocale a Manhattan.
Fabrizio fu il primo a distogliere lo sguardo, spostando gli occhi sulle proprie carte e sospirando affranto.
Se avessero perso, lui e Jack sarebbero rimasti senza un soldo, oltre che senza un tetto sotto il quale dormire.
Svariati istanti dopo, Jack prese un ultimo tiro dalla sigaretta, la spense schiacciandola con decisione sul legno del tavolo e si rivolse a tutti e tre.
- Va bene, è il momento della verità. La vita di qualcuno, qui, sta per cambiare. - Tutti lo fissarono e annuirono lentamente.
- Fabrizio - disse, invitandolo a scoprire le sue carte. - Niente - lo anticipò.
- Niente - confermò Fabrizio, serio come la morte.
- Ólaf? - chiese ancora Jack, scompigliandosi distrattamente i capelli color caramello. L'energumeno rimase zitto ma negò con un cenno del capo.
- Sven? - insistette il biondo, fissando i suoi occhi azzurro cielo sullo straniero con il basco. Sven ghignò e mostrò le sue carte, appoggiandole sul tavolo in bella vista.
- Una coppia. - Jack sospirò con fare sconfitto. - Scusa tanto, Fabrizio - mormorò in tono affranto.
- Che scusa, ma vaffanculo, hai scommesso tutto quello che abbiamo! - urlò il ragazzo fuori di sé, pensando alle notti a venire, durante le quali avrebbe dovuto condividere qualche sporca panchina con i senzatetto.
- Scusa tanto, Fabrizio, se non rivedrai Central Park per un po' - lo interruppe impaziente Jack. Fabrizio lo fissò infuriato, ringhiando insulti tra i denti.
- Perché... - continuò imperterrito il biondo - noi ce ne andiamo a Manhattan! - strillò euforico, balzando in piedi e scoprendo le proprie carte, rivelando così un full. - Full, ragazzi! - ribadì, battendo un pugno sulle carte scoperte sul tavolo.
L'espressione sul volto di Fabrizio mutò immediatamente, e un sorriso gioioso prese il sopravvento sulla rabbia. Jack intanto strillava e rideva come un bambino, saltellando attorno al tavolo, accompagnato dagli sguardi interdetti di Ólaf e Sven.
Fabrizio allungò le mani sul tavolo, iniziando a buttare alla rinfusa tutti gli oggetti che si trovavano sul tavolo dentro un sacco di iuta. Jack lo seguì a ruota, ma uno dei due energumeni, Ólaf per la precisione, lo afferrò per il colletto e gli urlò con fare minaccioso qualcosa di incomprensibile.
Ólaf si preparò a sferrargli un pugno, Jack strizzò gli occhi e solo all'ultimo si spostò di lato per evitarlo; il pugno centrò Sven in pieno viso, che dal canto suo si accasciò a terra privo di sensi.
Fabrizio scoppiò a ridere e si affrettò a raggruppare gli effetti che ancora ingombravano il tavolo, dandosela poi a gambe insieme al compagno.
Una volta lontani, i due si fermarono per riprendere fiato. Si guardarono alla luce fioca dei lampioni e scoppiarono nuovamente a ridere come matti, mentre Fabrizio tirava fuori dalla tasca della giacca lisa una grossa chiave arrugginita.
- Ci credi Jack? Eh? Io, te e un appartamento a Manhattan! - esultò il ragazzo, facendo sfoggio della sua parlata svelta e del suo tipico accento italiano.
- No, non ci credo - sorrise l'altro di rimando, accendendosi una sigaretta.
- Ma... Non è che fumi troppo, caro il mio Jack Dawson? - borbottò Fabrizio perplesso, grattandosi il naso.
- Che noia che sei, lasciatelo dire! Non fai altro che ripetere sempre le stesse cose, sembri un disco rotto. Sai, dovresti avere un po' più di fiducia in me. Anche prima: lo sapevi benissimo che avevo tutto sotto controllo - rispose pacatamente.
- Tutto sotto controllo? Avevi scommesso tutto quello che avevamo, che dovevo fare, ringraziarti? Insomma, parliamoci chiaro: se avessimo perso ora saremmo finiti a dormire sotto il ponte di Brooklyn. -
- Quello è probabile - sentenziò tranquillo, cacciando fuori dalla bocca una nuvoletta di fumo.
- Sai, è quasi inquietante il modo in cui lo dici. Non ti importa nulla di niente, se si escludono quelle dannate sigarette - sbuffò frustrato Fabrizio.
Jack non rispose; finì in pace la sua sigaretta e si incantò piuttosto a lungo a osservare una coppia poco distante da loro, intenta a baciarsi appassionatamente.
Fabrizio seguì il suo sguardo, soffermandosi a guardare più del dovuto il fondo schiena della giovane ragazza mora. Mica male, pensò, immaginando che Jack si fosse interessato soprattutto a quello.
Ma si sbagliava.
L'attenzione di Jack era stata attirata da ben altro. Questa andava ben oltre al sedere tondo della bella ragazza, e giungeva fino al ragazzo che la stringeva tra le braccia.
Jack era rimasto ammaliato da lui, dai i suoi ricci castani, dal volto segnato da una corta barbetta ispida e dal temperamento passionale.
- Non trovi anche tu che quella abbia un culo niente male? - disse Fabrizio, riportando Jack alla realtà.
- Ehm... Sì, certo - si affrettò a rispondere, distogliendo lo sguardo dal soggetto delle sue fantasie.
Si immetterono nella la strada trafficata, camminando rasente al muro per non essere travolti dai passanti che percorrevano svelti i marciapiedi. Arrivati a un incrocio, Jack si fermò.
- Tu va' avanti. Io ti raggiungo tra due orette, ho bisogno di bere qualcosa al bar - mormorò, evitando di guardare negli occhi il compagno.
Fabrizio annuì. - D'accordo. Ci vediamo a casa! - disse, calcando la parola casa e incamminandosi lungo una stradina secondaria.
Rimasto solo, Jack svoltò dalla parte opposta rispetto alla via appena imboccata da Fabrizio e camminò abbastanza svelto lungo lo sconnesso vicolo, che lo portava sempre più lontano dal centro chiassoso.
Si fermò al numero cinquantatré di Christopher Street, davanti a un basso edificio di mattoni rossi. Un cartello al neon appeso alla vetrata recitava "The Stonewall Inn" in lettere rosse e sottili.
Com'era sua abitudine, il ragazzo spinse la porta ed entrò. Immediatamente venne accolto dai campanelli che segnalarono la sua entrata.
Si sentì subito bene, quel posto aveva uno strano effetto su di lui. Lì si sentiva finalmente libero di esprimere se stesso e la sua vera natura.
Osservò quell'ambiente così diverso, così fuori dal comune, gremito di persone che, come lui, venivano lì per sentirsi a casa. Un luogo dove non erano costretti a mentire, un luogo dove erano liberi. Quel bar era da oltre un anno il rifugio di Jack.
Si avviò al bancone con passo deciso, mentre diverse persone si giravano nella sua direzione, chi per salutarlo e chi per battergli il cinque.
Prese posto su un alto sgabello in legno e osservò l'intero locale da quella posizione. Le lampade a gas inondavano l'ambiente di una luce calda e accogliente, che si specchiava sui piani lucidi dei tavolini. Al centro, attorniato da coppie di ballerini, si trovava il banco dove il barista, fiero proprietario di una notevole pelata, serviva alcolici.
Lo Stonewall Inn era sì un luogo confusionario, ma era caratterizzato anche da una qualità rara in quel periodo: l'accettazione. Lì giovani donne erano libere di baciarsi ed esprimere i propri sentimenti l'una verso l'altra, i ragazzi potevano vestire le gonne e truccarsi, le ragazze indossavano i pantaloni e scuotevano a ritmo di musica le chiome tagliate corte, mentre coppie di uomini ballavano avvinghiati.
Simili cose erano possibili solo allo Stonewall, dove scene come quelle non venivano discriminate.
Jack si rivolse al barista, intento a servire la persona seduta accanto a lui. Una volta avuto il suo shottino, la ragazza si voltò e Jack la riconobbe: era Sylvia, una giovane transessuale ispanica che aveva conosciuto qualche mese prima proprio in quello stesso luogo.
- Guarda chi si rivede! - esclamò Sylvia sorridente, abbracciando Jack.
- Sylvia! - sorrise lui di rimando, ricambiando la stretta.
Dopo una manciata di secondi, Sylvia si allontanò un poco per vedere Jack in faccia. - E allora, come sta il mio biondino preferito? - gli chiese, arruffandogli i capelli e facendo sfoggio della propria voce squillante che era un po' il suo marchio di fabbrica.
- Tutto a posto, e con te? - rispose Jack euforico; un'altra delle innumerevoli qualità di Sylvia era la sua allegria contagiosa.
- Bene dai... Piuttosto, è da un po' di tempo che non ti fai vedere in giro. Si può sapere dov'eri finito? - domandò ridendo, accarezzandogli con grazia una spalla.
- Devo confessarti che nelle ultime settimane sono stato molto impegnato con un certo... affare, sì - sentenziò Jack con fare misterioso.
- Jack caro, che tipo di affare? Non ti sarai mica messo nei guai, vero? - disse preoccupata, inarcando le sopracciglia chiare.
- No, alla fin fine no. Diciamo che me la sono cavata alla grande, ho persino vinto un appartamento qui vicino! - le annunciò il ragazzo, strizzandole l'occhio.
- Qui? A Manhattan? Veramente? - sussurrò stupita, coprendosi la bocca con una mano.
- Sì, non è fantastico? Verrò a trovarti molto più spesso - sorrise Jack, osservando l'espressione felice ma esitante dell'amica.
- Sì, è fantastico, ma... Jack, dovresti smetterla di giocare a poker, dico sul serio. Un giorno o l'altro finirai col perdere, e allora saranno guai... - lo avvertì Sylvia, incatenando gli occhi azzurri del ragazzo con i propri.
- Non preoccuparti, so quel che faccio. E poi il tavolo da poker è l'unica cosa che mi permette di guadagnare qualcosa - borbottò nervosamente, distogliendo lo sguardo.
- Jack... ma se invece di scommettere, con il rischio di perderci ogni volta, ti trovassi un lavoro decente? Sai, mi pare di aver sentito che in un bar qui vicino cercano un barista... - propose con voce incerta, sistemandosi i capelli corti con una mano.
- Sylvia, il barista non è il mestiere per me. Nessun lavoro, a dire tutta la verità, fa al caso mio. Sono contento così, vedi? - sbuffò, portandosi alle labbra il contenuto del bicchiere che gli era stato precedentemente servito.
La discussione venne interrotta dal tintinnio delle campanelle appese sopra la porta d'ingresso. Entrambi voltarono la testa in direzione dell'entrata, rimanendo piuttosto sbalorditi a quella vista.
Jack spalancò la bocca, incapace di mettersi un freno. Erano settimane che lo osservava, che lo ammirava da lontano.
Il ragazzo che stava facendo il suo ingresso nel locale proprio in quell'istante sembrava tutto, fuorché uno di loro, desideroso di esprimersi senza pregiudizi.
Con quei lucidi capelli d'ebano, i luminosi occhi verde menta e i vestiti sfarzosi, pareva più uno dei pargoli di qualche ricca famiglia newyorchese che aveva sbagliato indirizzo.
Eppure Jack ne era rimasto affascinato affascinato. Infatti, non appena lo sguardo del giovane si spostò nella sua direzione facendo incontrare i loro occhi, sentì lo stomaco annodarsi e stringersi.
Quando poi accennò a muoversi nella sua direzione, Jack sentì il battito cardiaco accelerare mentre le mani prendevano a sudare copiosamente.
Non era riuscito a scoprire molto su di lui, nonostante avesse interrogato praticamente ogni singolo frequentatore abituale dello Stonewall. Era sfuggente e non intratteneva conversazioni con nessuno, si presentava puntualmente ogni venerdì alle undici e mezza precise e richiedeva al barista sempre la stessa bevanda: uno shot di whisky con poco ghiaccio.
In quel momento, Jack decise di scoprire qualcosa di più su quel misterioso personaggio e di darsi un contegno: chiuse gli occhi, contò mentalmente fino a dieci e fece un respiro profondo.
Quando li riaprì, il misterioso ragazzo gli stava davanti. Jack sfoderò il suo tipico sorriso sfrontato, si leccò le labbra e gli fece cenno di sedersi sullo sgabello vuoto lì accanto.
- Ehi, splendore. Si può sapere chi sei? - domandò Jack, una volta che il ragazzo si fu seduto.
- Matthew Whyrill - mormorò con voce profonda.
- Piacere, Jack Dawson. Sei nuovo? Ti vedo qui da poco tempo. - Sorrise compiaciuto, porgendogli la mano.
- Ehm, sì. Si nota tanto? - ridacchiò nervosamente, scompigliandosi i capelli scuri.
Anche Jack era nervoso, almeno quanto lo era Matthew; si sentiva teso come una corda di violino e non aveva idea di come comportarsi.
- No, assolutamente... È solo che qui ci conosciamo tutti. Sai, in questo posto ci si sostiene e ci si aiuta a vicenda, mentre tu... - iniziò, lasciando la frase in sospeso.
- Si nota che non sono mai stato qui perché non faccio confidenze a nessuno - ribadì mestamente, limitandosi a un sorriso tirato.
- Be', sì. Com'è che sei capitato allo Stonewall? - domandò Jack, mentre la sua curiosità verso quel ragazzo così affascinante cresceva a dismisura.
- Sono gay, ma la mia famiglia non lo vuole accettare - disse semplicemente, tirando schifato un lembo della camicia di seta pregiata.
- Davvero? Se ti può far stare meglio qui è pieno di gente così. Famiglie ricche che ripudiano i figli a causa della scoperta del loro orientamento sessuale - lo consolò, azzardandosi a toccargli un braccio con cautela.
- Grazie, è già una consolazione. Ma dimmi qualcosa di te, Jack - disse Matthew curioso, prendendo finalmente coraggio e avvicinandosi pericolosamente al ragazzo, che deglutì in modo evidente.
- Sono capitato qui circa un anno fa per puro caso. Avevo sentito parlare di questo posto, ma non credevo esistesse un bar del genere. Insomma, guardami. Senza le persone che ho incontrato qui, probabilmente ora sarei chissà dove, magari a dormire sotto a un ponte o a prostituirmi. È solo grazie a tutti gli amici che mi sono fatto qui se sono quello che vedi ora - concluse Jack con una smorfia, estraendo dalla tasca della propria giacca sgualcita una sigaretta. La accese servendosi dell'accendino e inspirò una boccata di fumo.
- Fumi molto? - chiese Matthew, osservandolo attentamente.
- Dipende qual è il tuo concetto di molto - rispose retorico l'altro, lasciando penzolare la sigaretta dalle labbra.
- Sei un tipo interessante, devo ammetterlo - mormorò a bassa voce il moro, accarezzando con il pollice il polso di Jack e iniziando a disegnare piccoli cerchi su di esso.
- Anche tu non sei da meno - rispose il biondo, sorridendo languido.
Il contatto sempre più sfacciato di Matthew lo deliziava e non poco.
Prese a sfiorargli quasi casualmente la coscia, coperta dai pantaloni di velluto color sabbia.
Matthew trattenne un sorriso e ricambiò il gesto, provando un gusto incredibile nel vedere il sudore che imperlava la fronte di Jack in modo sempre più evidente.
Il passaggio tra il toccarsi soltanto e il baciarsi appassionatamente fu saltato alla svelta, e in un attimo Matthew si ritrovò la lingua di Jack in bocca, cosa che a dire il vero non gli dispiacque affatto.
Era quasi l'una e mezza, quando dei colpi secchi fecero zittire l'intero locale. Le luci si accesero di botto, la musica si fermò e tutti si immobilizzarono, rivolgendo lo sguardo verso l'uscio scosso da colpi provenienti dall'esterno.
Poco dopo la porta rovinò a terra con un tonfo secco, vittima di un manganello e di una decina di uomini che, tutti in divisa rigorosa, fecero ingresso nello Stonewall. Non era certo la prima volta, ma quella sera si respirava una strana aria, carica di tensione.
Jack lasciò andare Matthew non appena notò i distintivi dorati che brillavano fiochi nella luce dei lampioni in strada, appuntati sui taschini delle camicie dei poliziotti.
Un omone grande e grosso dai capelli rasati a zero si rivolse alla folla.
- Fuori i documenti e spalle al muro. Se non farete storie, tornerete a casa in men che non si dica - esordì con voce dura, trafiggendoli a uno a uno con lo sguardo.
Jack si posizionò con le spalle al muro ed estrasse dalla tasca dei pantaloni la sua spiegazzata carta d'identità. Rivolse uno sguardo a metà tra l'eccitato e il dispiaciuto a Matthew, seccato dall'interruzione. Il moro ricambiò lo sguardo, lanciandogli un'occhiata languida che lo scosse da capo a piedi.
Con Jack i poliziotti non persero molto tempo, dato che non era stato visto mentre pomiciava con Matthew ed era vestito in modo consono.
Non furono così fortunate molte delle ragazze, che vennero trascinate verso le volanti della polizia, spintonate in malo modo. Una di queste era Sylvia, che tentava di ribellarsi dalla presa di un energumeno alto e largo il doppio di lei, scalciando e menando pugni a raffica.
L'uomo le diede uno schiaffo senza farsi troppi problemi, lei rispose con un calcio e si dimenò, sfuggendo alla sua presa d'acciaio dibattendosi come un'anguilla.
Il poliziotto la riafferrò per un braccio, ma lei fece in tempo ad acchiappare una bottiglia di birra lasciata lì da chissà chi e a lanciargliela dritto in faccia. L'uomo lasciò il polso di Sylvia, chinandosi a terra dal dolore.
E mentre uno stuolo di uomini armati stava per avventarsi nuovamente su di lei, la folla che assisteva, ormai inferocita, imitò il gesto eroico della giovane ragazza.
Presero a volare calci, pugni, sassi e lattine verso i poliziotti che, sbigottiti, non reagirono nemmeno.
Jack si risvegliò dalla sua trance e corse a strappare un lenzuolo dai fili su cui la signora della casa accanto aveva messo a stendere i panni. Si chinò a terra e afferrò un pezzetto di carbone, con il quale scrisse sulla tela "Potere alla diversità".
Poi, incitando la folla, lo innalzò nel cielo notturno e urlò a squarciagola:
- Forza amici, facciamo vedere al mondo chi siamo! Potere alla diversità! -
E la folla rispose in coro con gridi di battaglia, che invitavano al cambiamento e alla rivoluzione.
Con quello spirito battagliero in corpo, Jack allacciò la mano a quella di Matthew e, insieme, presero a marciare verso il centro di Manhattan, lo striscione che sventolava nel vento freddo della sera e uno stuolo di rivoluzionari inferociti alle spalle.
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