Un risveglio teso...

Julius si alzò di soprassalto, tirando un lieve ma sconvolto urlo; le vibrazioni del suo telefono lo avevano portato alla realtà.

Si piegò verso il tavolino in vetro e raccolse il suo telefonino - un vecchissimo e quasi preistorico modello Apple del 2019 - e rispose ancora intontito alla chiamata senza nemmeno guardare il nome del contatto, cercando di schiarire la voce ancora terribilmente rauca e assonnata, per evitare mere figuracce.
"Pronto?"
"Julius, l'ora funesta s'avvicina."
Riconobbe quella voce, ed era più che familiare.
"Bridestine..."
Già, Jim Bridestine, ex amministratore della NASA e ora vice della suddetta, che ha provveduto in prima persona alla selezione e all'addestramento dell'equipaggio per la Columbus, il "Team Asimov" o "Suicide Squad", come veniva ironicamente chiamata dagli operatori della NASA e da qualche utente della Rete esageratamente scettico...

Era comunque un tipo apposto, molto amichevole, sicuramente meno pragmatico e più umano, rispetto all'amministratore della NASA, ma ci arriveremo più tardi...

"Sì, proprio io. Ascolta, stiamo radunando il team. Qui alla NASA c'è stato un'ansia party o cazzate simili, e vi vogliono qui al più presto. Quindi muovi il culo e sbrigati, altrimenti ci segano in due! Sai com'è fatto Foster!"
"Jim, sappiamo bene come sia fatto Foster, e sinceramente, vorrei evitare che lo dimostrasse ancora! Sarò lì tra due ore."
"Meh, un po' troppo, ma è accettabile! E ricordati di andare a prendere il russo!"
"Naturalmente!"
"Bene. Pulisciti i denti e guida con prudenza, mi raccomando!"
Julius ridacchiò e ribatté alla battuta.
"Questo lo dovresti dire a Erik! Passo e chiudo."

Julius lanciò il telefonino dall'altra parte del divano e si guardò attorno,  cercando di capire cosa fosse successo, ma non trovò altro che desolazione.
La casa era apparentemente senza vita, ma tutto era al suo posto: nessuna crepa, nessun vetro infranto, nessun cumulo di cemento, nessun cadavere...
Era soltanto un sogno, un brutto sogno, di quelli che ti segnano a vita, come sognare la propria madre che ti strangola compiaciuta.

Julius tirò un sospiro di sollievo, ma non riusciva ancora a togliersi quelle immagini dalla testa. Dopo aver assistito a quella scena, avrebbe voluto azzerare la sua memoria completamente, e non riaverla mai, ma l'Umanità doveva ancora andare su Marte, ci voleva ancora molto per inventare un neuralizzatore!

Dopo essersi ripreso dalla scossa, si rialzò dal divano dolorante a causa della posizione scomoda con cui aveva dormito, e si diresse in cucina, ancora memore dell'incubo.
Intanto nella sua testa iniziava a vagheggiare l'idea di ritirarsi dalla missione, per tentare di riconquistare Caroline. Era indeciso, scoraggiato, ma non poteva abbandonare la barca - o meglio, l'astronave - su cui si era imbarcato: mancavano meno di quattro giorni alla partenza, e il team Asimov si era addestrato per quasi una decina di anni; cosa avrebbe detto alla squadra che lui stesso comandava? Cosa avrebbe detto ai suoi colleghi della NASA, agli istruttori, al governo, e ai giornalisti?
Il problema principale era che avevano parlato troppo di lui per poter abbandonare tutto. Era stato acclamato, premiato, divinizzato anche se non era ancora andato su Marte, perché le persone amano i martiri, amano sentirsi fieri di coloro che fanno ciò che avrebbero voluto fare, ma che non possono.
C'erano troppi articoli di giornali che lodavano e benedicevano Julius, e l'annuncio della sua dipartita sarebbe stata catastrofica per la sua reputazione.
Avrebbe potuto cavarsela con un "non mi sento bene", ma quelli della NASA gli avrebbero somministrato quintali di medicine per cercare di farlo rimanere in gioco. Sapete, quando delle persone che si preparano da trent'anni per un'impresa epocale, si sentono dire "non mi sento bene" dal comandante operativo della missione, come minino ti prendono a calci e ti chiudono nella sezione macchine dell'astronave.
Julius comunque, era ancora indeciso.

Attraversò la porta ad arco che conduceva in cucina e lì fu assalito da un brivido, che gli attraversò tutta la schiena. Julius guardò per terra e si ricordò della fine brutale della sua famiglia, nel sogno, per fortuna.

Girando per la cucina, notò un post-it giallo attaccato al frigo, recante un messaggio scritto da Caroline.
"Ho portato i bambini a scuola. Quando esci chiudi bene la porta e lascia le chiavi sotto il tappeto."
Carol non augurò nemmeno buona fortuna al povero Julius, per dispetto.
"Beh, almeno i bambini sono a scuola, sani e salvi...", pensò scherzoso.

Staccò dal frigo il foglietto e lo gettò per terra, poi si preparò un caffè, di quelli semplici e amari, come la vita.
Mentre lo sorseggiava, Julius pensava al viaggio verso Marte, a come sarebbe stato e come avrebbe potuto sopravvivere. Ma sopratutto, pensava al ritorno: sarebbe mai ritornato a casa, o sarebbe morto lì? Bastava davvero costruire dei tetti e un paio di orti artificiali per potersela cavare in un pianeta come quello?

Julius non era il tipo che si interrogava sull'universo, la vita o sulla missione: lui eseguiva gli ordini e basta, come aveva imparato nell'esercito; però non riusciva a superare l'inquietudine che gli provocava ciò che avrebbe dovuto affrontare. Doveva guidare una squadra di cinque persone in una missione ad alto rischio dalla durata di quasi tre anni, chiusi in delle scatole pressurizzate e senza la possibilità di essere salvati in tempo.
Qualunque comandante sarebbe rimasto preoccupato.

Dopo aver finito di bere il caffè, Julius si sedette ancora una volta su quel divano disfatto e accese la TV.
La prima trasmissione che fu proiettata nello schermo fu il TG della mattina, con le sue notizie sempre tragiche e spesso manipolate.
"Ancora orrore nel Donbass: ieri, nella piena notte, un gruppo di ribelli filo-russi ha assaltato un ospedale governativo a Mariupol, trucidando nel sonno pazienti e medici. Secondo alcuni, questi terroristi sarebbero direttamente collegati al Fronte della libertà, quindi si presume che sia tutto parte del piano di invasione della città da parte della Repubblica di Doneck; la battaglia di Mariupol è dunque vicina? E nel mentre, la crisi NATO-Russia continua, mentre milioni di ucraini soffrono, a causa di questo stallo e le prepotenze russe."
"Mondo, solita merda..."
Julius cambiò inorridito il canale, senza esitare, passando per cartoni animati e programmi per vecchi.

Dopo qualche minuto di zapping, si stancò e spense la TV, dirigendosi poi di sopra, nella camera da letto, per impacchettare il necessario.

Una volta lì, si mise a scrutare l'ambiente: tutto pulito, ordinato, come piaceva a lui, anche se non era mai riuscito a sistemare correttamente le sue cose, nonostante lo desiderasse molto.
Di qua e là per i mobili vi erano cornici e varie foto, da quelle di famiglia fino a quelle dei momenti più belli che aveva trascorso insieme ai figli e alla moglie: che si trattassero di vacanze al mare, escursioni in montagna o visite in una città straniera; lì c'erano tutti i ricordi di Julius, appartenenti ad un passato felice ormai lontano.

Julius prese uno zainetto da viaggio e vi collocò qualche indumento intimo, una maglietta e dei pantaloni di ricambio, e basta. Non doveva mica passarci la vita, nella stazione della NASA! E sulla Columbus, avrebbe passato l'intero viaggio o con la tuta o con l'uniforme, 24 ore su 24 ore per 40 giorni, senza avere la possibilità di fare la doccia e con pochissimi ricambi. Quello dell'astronauta non è un lavoro per schizzinosi! O ti abitui alle condizioni che dovrai affrontare, oppure sei fuori; non esistono compromessi.
È il classico "piccolo" prezzo da pagare per realizzare i propri sogni, anche se Julius non si sentiva poi così realizzato, forse perché la sua situazione familiare gli stava completamente scivolando dalle mani.

Una volta preparato, caricò lo zaino sulle spalle e uscì alla svelta dalla stanza, per non farsi prendere dai ricordi e dal laceramento.
Mentre percorreva il corridoio, Julius notò che la porta della camera dei bambini era socchiusa, e come un lampo, gli venne l'istinto indomabile di entrare e di osservare.
Spinse la porta e si trovò difronte alla stanza dei suoi figli, che si erano spartiti l'ampio spazio che c'era.
Da una parte si potevano notare macchine giocattolo e pistole finte, dall'altra invece c'erano bambole e giochi femminili, il tutto scandito da un binomio di caratteristici colori blu-rosa.
Per una volta, la prima volta, Julius non si sentiva in collera per il disordine provocato dai figli.
Vedendo tutti quegli oggetti sparpagliati, rotti e sporchi come se fossero spazzatura, quasi si commosse, provò tenerezza, nostalgia; chissà se avrebbe visto ancora una volta quel mucchio di giocatoli e le due creature che lo creavano...

Julius vagò pensieroso per tutta la stanza, ma qualcosa che vide lo fermò immediatamente.
Un disegno sciupato fatto coi pastelli, pieno di macchie e buchi, ma con un'immagine piena di significato, che gettò Julius nelle fauci della commozione: l'intera famiglia unita e sovrastata da larghi sorrisi. Si vedevano solamente le facce felici della famiglia circondate ognuna da un oblò del razzo, che formavano una fila.
Uno dei bambini, o forse entrambi, avevano immaginato un futuro gioioso in cui la famiglia viaggia insieme nello spazio, e ciò toccò moltissimo Julius.
Così tanto che nella sua testa si scontrarono innumerevoli pensieri e domande: ora avrebbe avuto senso dichiarare difronte alla stampa e al mondo intero di volersi ritirare? E se quel viaggio avesse avuto successo? Forse era veramente la cosa più giusta da fare per salvare la famiglia.
In fondo, nessuno avrebbe mai voluto avere un padre che si sia ritirato dall'incarico più importante del secolo.
Quindi Julius, ancora turbato dalla faccenda, si mise l'anima in pace e accettò di continuare la sfida di Marte.
Se non poteva farlo per l'Umanità, l'avrebbe fatto per i suoi figli e per Carol, quella disgraziata.

Piegò con cura il disegno a tratti ingrigito per evitare che si strappasse ulteriormente, e lo infilò nello zaino. Dopodiché chiuse tutte le porte e scese di sotto per prendere il telefonino, e una volta raccolto, fece una chiamata.
Aveva ancora una questione in sospeso da sistemare, prima di raggiungere la stazione di lancio.

Portò il telefono all'orecchio, e dopo qualche secondo di squilli, la chiamata partì, senza che il contatto dicesse qualcosa.
"Antony, il vecchio ha bisogno di vittime..."
Dopo qualche secondo, Antony rispose a quella specie di messaggio in codice con naturale freddezza.
"E noi lo mandiamo all'ospizio..."
La conversazione terminò così, con quel breve scambio di battute che sembravano formulate da due spie in missione occupate a pedinare un anziano schizzato...

L'ora decisiva e l'ansia si facevano sempre più vicine, come se la morte stesse camminando lentamente verso la sua ennesima preda.
E nessuno poteva fermarla.

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