Salvezza e condanna

"Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita"
Veglia, Giuseppe Ungaretti

Arrivammo nei pressi di Pologi, una vasta terra morta attraversata da trincee e filo spinato, dove il fumo ricopriva il cielo per chilometri.
La nostra trincea e quella del nemico erano separate dalla terra di nessuno, barricata con mine, filo spinato e cadaveri, e costantemente sorvegliata da mitragliatrici e vedette.

Entrammo nella trincea e ci sistemammo: mentre passavamo per i vari corridoi a cielo aperto di cui era composta, non potevamo non guardare i numerosi soldati appiattiti contro il muro, sporchi, stanchi e delusi.
Alcuni si erano fatti dei ripari provvisori, altri si erano accucciati in un piccolo angolino, altri si rasavano, sistemavano le armi, scrivevano, bevevano e mangiavano quel poco che avevano.
Sembrava di essere tornati indietro alla prima guerra mondiale.

Ci sistemammo per terra e aspettammo il nostro turno per la guardia.

Feci amicizia con qualche soldato: c'era tanta gente diversa da me, proveniente da ogni angolo del paese; ricchi o poveri che fossero, erano tutti lì, di propria volontà o non, a condividere un destino atroce.
Il posto era deprimente, e avevo paura, molta. Non avevamo difese sopra la testa, eravamo tutti ammassati a cielo aperto, un bombardamento pesante ci avrebbe sterminato tutti.
Il morale era sotto i tacchi.

Feci amicizia con un soldato in particolare: non aveva piastrine di riconoscimento, e aveva un aspetto terribile e trascurato, con una folta barba incolta. Occhi marroni e penetranti.

Mentre eravamo rannicchiati sotto ad una tettuccio in legno di fortuna, ci mettemmo a parlare.
"Io mi chiamo Antonin, e tu?" - gli chiesi.
"Chiamami Iktsuarpok."
Rimasi stranito.
"Iktsua...rpok? Non è ucraino..."
"Infatti è una parola Inuit, che esprime l'ansia dell'attesa di qualcosa."
"Che cosa?"
"Qualcosa di tipico in guerra, ma anche qualcosa che arriva dopo la guerra... solo che la prima con me tarda ad arrivare, mentre la seconda non arriverà tanto facilmente..."
"Ha un significato. Ti rappresenta?"
"Certo, ma non solo me. Iktsuarpok non esprime una persona sola, ma tanti, un'idea, uno stato, i dannati della guerra, coloro che condividono un destino atroce: quello del conflitto eterno, e che sono destinati a vivere sul campo di battaglia, per pura inerzia, senza un domani ben definito."
"Iktsuarpok" si girò intorno e cambiò discorso.

"Quindi sei un medico, eh?" - mi disse.
Io risposi positivamente, poi lui continuò.
"Bene, c'è bisogno di cervelli per la guerra. Sopratutto se spappolati dai cingoli dei blindati o resi scolapasta dalle mitraglie nemiche."
"Quanto sei bravo ad alzare il morale..." - risposi.

Iktsuarpok alzò la voce, alzandosi leggermente.
"Ascolta: la guerra è una sola, e ciò che suscita non ha niente di positivo. Non esiste morale che tenga, non esiste propaganda, non esistono belle parole. Tutti quei discorsi sul tenere il morale della truppa alto sono solo retorica, finto positivismo per farti credere che la guerra sia normale, o quantomeno poco avvilente.
La guerra non ha niente di bello, ma a quanto pare due guerre mondiali non sono bastate..."

Iktsuarpok si grattò la barba e notò la mia foto che sporgeva dal taschino sul petto.
Si avvicinò e puntò il dito su di esso.
"Una foto..."
"Sì, la mia famiglia. Mia moglie e mio figlio, appena nato. Tu ce l'hai una famiglia?"
"Io, beh, sì, ce l'ho, o forse... ce l'avevo. Ma il filo spinato del fronte ci divise. Io mi trovavo a ovest per lavoro, quando la guerra scoppiò. D'un tratto loro si trovarono nel territorio nemico, e io fui chiamato alle armi. Come te in pratica, solo che hanno la fortuna di non trovarsi in territorio nemico, e io combatto dal 2014, quando questo conflitto era ancora una guerra di milizie a bassa intensità."

"Sei un veterano, dunque... Effettivamente sono abbastanza fortunato. Non vedo l'ora di scacciare il porco nemico dall'Ucraina, così almeno potrò tornare dalla mia famiglia..."

Iktsuarpok mi fissò severamente.
"Se c'è una cosa che ho imparato dalla guerra è che i nemici non esistono. Buoni e cattivi? Blah, sono solo etichette realizzate da chi comanda per legittimarsi. La verità è che in guerra nessuno è veramente buono o cattivo, sono solo prospettive o termini di comodo. In realtà nessuno vince, tutti perdono. Solo chi sta in alto vince, perché la guerra dopotutto non è onore né ideale, ma solo denaro. Le guerre costano, e per rendere lo sforzo meno incisivo ti dicono che tutto andrà bene, o che basterà eseguire gli ordini senza autocoscienza, senza percezione dell'etica: uccidi o vieni ucciso, oppure se non uccidi perdi, o tradisci il governo. Ma i governi non sono patrioti, loro non amano il loro paese, chi ama il proprio paese ricorre al dialogo, non alla guerra, anche se gli avversari sono violenti o esprimono sentimenti antigovernativi. Ricorda: i governi non rappresentano il concetto di patria, noi non dobbiamo nulla a loro."

Rimasi colpito dalle sue parole e decisi di approfondire.
"Ma allora che senso ha combattere se il governo non ci appartiene?"
"Combatti per te stesso, per la tua famiglia, per la tua nazione, ma non per loro. Loro non sono nulla. Io ormai sono condannato: faccio parte della guerra, non ho più nulla per combattere. Il campo di battaglia è la mia condanna e salvezza. Condanna perché costretto alla violenza e al dolore, unica mia ragione di vita che ormai non sento più; salvezza perché è qui e solo qui che sarò liberato..."

Ecco cosa mi rispose. Poche parole, decise, intrise di significato. C'era qualcosa per cui potevo effettivamente combattere: per la mia famiglia, per la possibilità di sopravvivere e di poter tornare da loro. La guerra non la sentivo mia, non riuscivo ad entrare nel suo contesto, nella sua ideologia, ma dovevo pur combattere, per il paese, e per me stesso, ma non dovevo entrare nel suo circolo vizioso, altrimenti sarebbe stata la fine...
Durante la mia permanenza in trincea sentivamo molta musica grazie agli altoparlanti e alle radio degli ufficiali, sopratutto patriottica, ma spesso mi ritornavano alla mente vecchie canzoni sulla gurrra che avevo ascoltato tempo addietro. Fra queste, spicca una canzone corta, ma intrisa di significato. Come nel testo, a me erano stati rubati moglie, famiglia, e passato. Non rimaneva altro che il futuro, incerto e doloroso, fatto di ingiustizie.

Il mio compagno si rannicchiò e prese sonno, affaticato dagli anni di guerra che aveva sopportato.

Intanto eravamo ancora esposti al fango e ai mortai. Ascoltando i soldati parlare però si poteva evincere che una delle loro paure più grandi era la malattia: topi e cadaveri diffondevano pestilenze ciclicamente, e quando colpivano erano seri guai.
Ma niente poteva surclassare la paura più grande: quella dell'assalto. Quando l'ordine veniva dato, iniziava una corsa mortale contro il nemico, tra fango, proiettili e bombe. Oltrepassare la terra di nessuno era un'impresa, ma ancora di più era conquistare la trincea nemica. Se riuscivi a superare le mitragliatrici dovevi affrontarli nelle strette trincee, senza spazio per muoverti a causa dell'ammasso di soldati concentrati.

Per fortuna non dovemmo scomodarci per assaltarli: vennero loro da noi..."

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Il disertore (Boris Vian)
Traduzione di Giorgio Calabresi
Interpretata da Ivano Fossetti

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