Il passato fa sempre male
Dopo il film, gli astronauti andarono a dormire.
I letti erano dei sacchi a pelo distribuiti in fila, leggermente gonfi e molto comodi attaccati al pavimento, ma gli astronauti volendo avrebbero potuto dormire in qualsiasi posizione, visto che nello spazio non esiste la percezione del sopra o del sotto.
Accanto ai sacchi c'erano delle piccole fessure in cui gli astronauti potevano riporre le proprie cose personali, come piccoli oggetti, sveglie, fotografie, bottiglie, cuffiette e così via.
Oltre a questo il sonno nello spazio non differiva molto da quello sulla Terra, anche se molti astronauti dicevano che quando si dormiva nello spazio si aveva l'impressione di ritornare nel grembo materno.
Altri invece avevano problemi a regolarsi col tempo, poiché quello in vigore sulla navicella era un convenzionale fuso orario di Greenwich, che nello spazio non aveva alcuna valenza.
Nonostante ciò, i membri della Columbus riuscirono ad abituarsi in fretta alle notti extraterrestri, grazie anche ai numerosi addestramenti extraorbitali che fecero, realizzando dei veri e propri programmi di riposo basati sulla quantità di sforzo psicofisico svolto durante le ore di attività.
Quando tutti ebbero preso sonno, Henry dovette andare in bagno, che, nel caso dell'urina, era composto da un tubo che aspirava i liquidi e li mandava nel sistema di purificazione.
Si alzò delicatamente e si gettò nel reparto sanitario, stando attento a fare meno rumore possibile, cosa assai ardua visto i migliaia di meccanismi che si attivavano per i servizi igienici.
Quando ebbe finito ritornò nell'area adibita a dormitorio, ma notò una fioca luce bianca che arrivava da uno dei sacchi a pelo.
Strizzò gli occhi e capì che quella luce proveniva dal sacco di Victor, così decise di andare a controllare, visto che non aveva molta voglia di dormire e il suo compagno era sveglio.
Si avvicinò cautamente per vedere meglio il suo compagno. Stava sentendo della musica tramite degli auricolari collegati ad un telefono appoggiato sopra il petto, la cui luce ne esaltava i lineamenti facciali un po' irregolari.
Victor sembrava fissare il tetto senza uno scopo preciso, come se fosse assorto nei suoi profondi pensieri. Per Henry la mente di Victor era qualcosa di inumano, probabilmente colmo dei pensieri più anormali e contorti concepibili.
"Cosa ti ascolti di bello?" - chiese incuriosito l'astronauta dopo essersi piegato per parlare.
Victor abbandonò di scatto i suoi pensieri e inclinò leggermente la testa indietro per osservare Henry, mettendo in paura la canzone e togliendosi gli auricolari.
"In questo momento Roger Hodgson. Ma non dovresti essere a letto?"
"Anche tu immagino." - controbatté senza perdere tempo Henry.
"Ciò che faccio io non ti riguarda."
"Stessa cosa per te."
Victor sbuffò infastidito, come se gli avessero chiesto favori per tutto il giorno.
"Ma allora, cosa vuoi da me?"
"Io? Nulla!"
"E allora smettila di starmi appresso."
"Cos'è che ti turba?"
"Non sono affari tuoi."
"E perché no? Ci conosciamo da anni ormai, e visto che dovremo condividere un anno e passa in spazi ristretti e pericolosi, confidarsi con i propri compagni è la cosa più logica!"
"E tu cosa ne sai di logica?"
"Abbastanza per sapere come comportarmi con i miei compagni. Se non ci confidiamo adesso quando lo faremo? Tu puoi contare su di me, amico. Su tutti noi. Che cosa c'è che non va?"
Victor prese un po' di fiato e decise di stemperarsi, e i due iniziarono a parlare a basso tono, ma decisi.
"È che... il sonno non mi piace... se potessi vivere senza, lo farei senza problemi..."
"E perché?"
"Perché ti rende inattivo, succube..."
"Questo è ovvio. Non devi temere queste cose... ci siamo noi a vegliare l'uno sull'altro..." - disse Henry con tono conciliante.
"Ma voi non c'entrate nulla..."
"Allora qual è il problema?"
Victor impiegò un po' per rispondere alla domanda. Si girava e rigirava lentamente sopra al sacco per trovare conforto, ma poi riuscì ad esternare ciò che provava.
"Forse perché... mi ricorda la morte..."
A quella affermazione, Henry scosse il capo e provò un'infinita vergogna.
"Hm, beh... io non so che dire... non puoi sapere cosa ci sia dall'altra parte." - disse con tono imbarazzato.
Ma Victor lo incalzò.
"Andiamo, cosa ci dovrebbe essere? Persone alate che volano e suonano l'arpa? Un dio premuroso che ti coccola?"
Henry però non era tipo da rimanere in silenzio in discussioni del genere.
"Perché no? Perché dubitare di ciò che non si vede?"
"Perché non è scientifico." - rispose secco Victor.
"E per te esiste solo la scienza?"
"Esiste solo la logica e il dimostrabile. Il resto sono solo fantasie.
"Beh, dovresti rivedere le tue idee... ma non sono nessuno per fartele cambiare. Ma non devi temere l'ignoto, lo sai bene... altrimenti noi non saremmo qui..."
"Ma noi qua siamo vivi, non siamo morti." - sentenziò ancora una volta Victor.
"E chi ti dice che non potremo vivere anche dopo la morte?"
"Niente. È questo il punto: niente ti dice che potremo vivere dopo la morte."
Henry sapeva quanto Victor fosse sicuro delle proprie idee, così decise di lasciar perdere l'argomento, ma non il suo compagno. Forse la noia, forse la curiosità, o forse il senso che gli fece l'affermazione del collega lo spinsero a cercare ancora.
"Sai, stavo pensando... in tutti questi anni hai sempre parlato poco di te... ma tu... chi sei veramente? Siamo ormai in rotta per Marte, non dovresti più essere così riservato, andiamo..."
Victor comprese, ma non rispose come Henry voleva.
"Non è facile."
"Non è facile nemmeno passare mesi con qualcuno di cui si conosce poco o niente. Andiamo, perché sei così giù oggi?
"Voi mi vedete come il solito scienziato senza vita, scontroso e antipatico, pronto a contraddirvi. Pensate che io sia nato così... e fate bene, del resto. Il mio comportamento non ha scusanti... è qualcosa che conservo dall'infanzia..."
Le parole di Victor colpirono di nuovo Henry, che deciso a non lasciare l'amico perduto in sé stesso, si impegnò a incoraggiarlo.
Si sdraiò accanto a lui sul pavimento nudo e gelido e cercò di smuoverlo energicamente con le parole.
"Da piccolo mi prendevano in giro, dicevano che ero un bambino troppo cresciuto... perché avevo dei sogni. Capisci?
Per un momento stavo per dargli ragione, ma come vedi, sono qui!"
Victor però, come al solito, rispose.
"A fare cosa? A morire nello spazio?"
Henry però rispose in un lampo, come se avesse previsto quelle parole.
"No. Sono qui, come voi, per salvare l'umanità!"
"Da cosa?"
"Da sé stessa. Questa non è solo una missione scientifica, ma anche ideologica. Pensi che la Terra non si dovrà adeguare alle nostre scoperte? Pensa a cosa succederà tra cinquant'anni. Tecnologie fantastiche, una nuova società che vive per la comunità. Lo spazio non mette alla prova solamente gli umani come scienziati, ma come persone, come idee, come popolo. Dalla nostra capacità di adattarci al futuro dipenderà l'avvenire dei nostri figli. E poi, saremo ricordati per secoli!"
"La gloria è il nettare degli stolti; dolce finché vuoi ma non ti riempie mai. L'importante sta nella scoperta."
Henry spalancò un sorriso.
"Beh, allora vedi che l'aspetto avventuroso ce l'hai pure tu?!"
"Per me è pura scoperta scientifica, nulla di più."
"Scoperta o no, ancora non mi hai risposto. Che c'è che non va?"
Victor stavolta non tentennò.
"Beh, stavo pensando alla mia infanzia, tutto qui."
"Ti va di raccontarla? Giusto per sfogarti."
"Sfogarti". Era proprio quello di cui Victor aveva bisogno in quel momento.
"Non so, non mi piace parlare di me... preferisco che siano i fatti a farlo. In più, non vorrei passare per quello che parla di cose così delicate per attirare l'attenzione..."
"Non temere, so che sei in buona fede!" - rispose amichevolmente Henry.
Victor allora prese coraggio e si mise a parlare, come se quelle parole avessero già viaggiato nella sua testa migliaia di volte ma non avessero mai avuto modo di esprimersi.
"Beh, diciamo che la vita non è sempre stata gentile con me... fino alle elementari ero un bravo bambino, ero felice, motivato... ma poi vennero le medie. Iniziai a sviluppare una certa inclinazione all'isolamento. Non riuscivo ad inserirmi nella classe, a trovare simpatici i miei compagni, ad associarmi ai loro interessi e comportamenti, forse perché avevo letto molto ed ero avanti anni luce... o forse perché non mi appartenevano.
I miei erano separati, mio padre ci aveva praticamente abbandonati, e non sempre andavo d'accordo con mia madre, che era disperata a causa del poco lavoro che trovava. Era un rapporto di amore, ma critico. Litigavamo spesso, a volte usava termini sbagliati per sgridarmi e anziché insegnarmi qualcosa, mi ferivano... Ora io li comprendo quei refusi, ma feriscono ancora...
Ma il mio più grande errore fu quello di non correggere quel comportamento deleterio che avevo sviluppato alle medie e che più volte mi ero ripromesso di cambiare. Una volta alle superiori, fu la fine. Già dall'inizio mi accorsi che qualcosa non andava, era una cosa meccanica. Mi bloccavo quando dovevo parlare, sviluppavo paranoie, ansia, tristezza. Qualche volta ero fortunato e riuscivo ad essere più estroverso, e mi sentivo un dio, ma era come del carburante che si esauriva velocemente. Tutto ritornava normale, nero. Vedevo i miei compagni ridere e scherzare con tanta gente che li cercava di continuo; li vedevo fare battute che io non riuscivo a fare; li vedevo essere presi in considerazione mentre io ero soltanto un puntino. Li vedevo uscire e divertirsi, farsi una vita, anche a costo di prendere brutti voti. Sapevano come comportarsi in un'ambiente sociale, come prendere l'autobus o il treno, mentre io me rimanevo in casa a leggere e a disperarmi. Loro erano disinvolti quando parlavano, mentre a me impazziva il cuore non appena qualcuno mi rivolgeva la parola.
Gli amori della mia vita erano tutti fiori appassiti pieni di spine, come tutti i miei desideri di cambiamento.
Irraggiungibili, irrealizzabili, lontani come il Sole. Sognavo di diventare come gli altri, ma non mi rendevo conto che così facendo avrei distrutto me stesso e ciò che mi rendeva unico. Volevo soltanto essere felice, a costo di omologarmi agli altri...
Mia madre si sforzava di aiutarmi, di comprendermi, ma era distante pure lei. Spesso le rispondevo male, ero testardo, la maledicevo a bassa voce... ma è proprio vero: capisci l'importanza delle persone soltanto quando le perdi. Morì di cancro. Ricordo ancora tutte le sere quando mi dava i baci, o il tocco delle sue mani quando la notte mi veniva ad accarezzare credendo che stessi dormendo; ricordo quando ogni volta che tornavo da scuola mi chiedeva come fosse andata, se stessi bene, e io che rispondevo sempre positivamente per non esprimere ciò che provavo veramente e farla preoccupare.
L'ultima volta che la vidi era nel letto d'ospedale, nel reparto dei malati terminali, come un animale. Era sciupata, pallida, priva di ogni forza, piena di fili che le uscivano dappertutto. Chi è che stabilisce una fine così crudele?
Ma la cosa che più mi colpì era che riusciva ancora a conservare un sorriso per me, dopo tutti quegli anni in cui l'ho fatta dannare. Mi accarezzò la guancia e mi disse una sola cosa: "Non mollare, figlio mio...". L'aveva capito. Aveva capito i miei problemi, eppure non è mai riuscita ad aiutarmi, perché ero io che mi rifiutavo di farmi aiutare. Ero così sicuro di ciò che mi aspettava che non ho mai mosso un dito per cambiare in meglio. E per colpa mia lei morì con la consapevolezza di aver cresciuto un figlio triste.
Fa male. Continua a far male."
Henry si ritrasse commosso.
Non aveva mai scambiato un momento di così profonda reciprocità con Victor. Quello che per lui sembrava una macchina fredda e senza emozioni era in realtà qualcos'altro, che forse provava più emozioni di lui.
"Mi dispiace. Forse non avrei dovuto parlare della mia infanzia..." - esclamò pieno di vergogna Victor.
Henry però lo bloccò.
"No! Ti prego, non andare. S... sei qui, mi sembra giusto che finisca il discorso..."
Victor allora non esitò a continuare.
"Quando mia madre morì, fui adottato da due persone un po' vecchie ma molto agiate che non avevano mai avuto la possibilità di avere un figlio. Trasmisi i miei problemi a loro, ma erano molto più comprensibili di mia madre, e li adoravo, li amavo. Grazie alla loro disponibilità economica riuscii a studiare e ad andare all'università. Ma come detto prima, tutto è destinato a scomparire, anche loro... ma alla loro morte non mi feci più prendere impreparato: ero grande, anche mentalmente, ed ero pronto. Non ero più disposto a farmi prendere dalle emozioni e dalla tragedia della morte.
Il mio obbiettivo era uno soltanto: accedere al programma Asimov. Era l'unico scopo per cui potevo fare qualcosa nella mia vita. L'unica motivazione per vivere. Se non ci fosse stata, probabilmente l'avrei fatta finita.
Continua a far male. Ma non mi piega."
Victor cercò nel buio la mano di Henry, e dopo averla trovata, la strinse forte e la alzò in segno di amicizia, alzando lievemente a sua volta il corpo..
"Ascoltami: è vero, sono una pessima persona e un pessimo amico, ma sono pronto ad aiutarvi! Non farò della mia infelicità un motivo di pietà né tantomeno un motivo di debolezza, sopratutto se ciò possa arrecare danno alla missione! Io voglio arrivare fino a Marte con voi, se necessario anche morire con voi, non mi importa di quello che potete pensare su di me!
Sarò sempre pronto alle necessità!"
"Noi siamo qui per te e te per noi. È la prassi. È ciò che ci unisce. Semmai avrai problemi, di qualsiasi tipo, non esitare a chiamarci." - rispose Henry.
Victor accennò un sorriso, poi ritrasse la mano e si sdraiò completamente, rimettendosi gli auricolari.
"Ora basta chiacchiere. Mettiti a riposo, forza. Buonanotte."
Henry contraccambiò e ritornò nel suo sacco, pensieroso.
Non riusciva a non pensare a tutto ciò.
Una grande sorpresa, quasi uno spavento. Sapere che Victor nascondesse un lato così fragile gli fece pensare a quanti giudizi errati possa aver dato nella vita, a quante persone abbia evitato o criticato senza conoscerne la storia.
Il carattere non è la persona. La persona è la storia che la costruisce. Vive per mezzo di essa.
Victor se ne ritornò ad ascoltare The logical song, ma stavolta senza riflettere sul testo. Quel discorso e tutte quelle ore spese a riflettere sui suoi problemi avevano fatto perdere completamente senso a quel testo, tant'è che ormai l'ascoltava più per abitudine.
Ma sia Henry che Victor non potevano sapere una cosa: cioè che Erik li aveva sentiti. Essendo sveglio e vicino a Victor, aveva avuto modo di ascoltare l'intera conversazione e di farsi anch'egli delle domande sul suo compagno.
Da quel momento, né Henry né Erik videro sotto la stessa luce l'astronauta Victor Stanford.
The logical song (Supertramp)
Written by Roger Hodgson
© Copyright Universal Music Group, all rights reserved.
[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per vederlo.]
Nota: d'ora in poi in alcuni capitoli linkerò una determinata canzone che indicherò nel testo, e dovranno essere considerate come parte della scena, anche se saranno introdotte da uno strumento come radio e lettori musicali utilizzati dai personaggi.
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