D-Day

La nebbia può penetrare dall'esterno e giungere fino a te; può invaderti

Philip K. Dick, La penultima verità

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Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto [1]. Ezra M. Pyek Jr. sputò nel Tamigi, accarezzando la cromatura liscia della sua Rot Ripper calibro 22. Aveva passato la giornata a fabbricare cartucce a partire da rame e zinco, curvo su un piccolo tornio parallelo da banco; l’occhio destro, l’unico che aveva gli bruciava, e sotto il monocolo dell’eye patch che portava a sinistra, pulsava una vena. Il Displacing Motion-Mover era sistemato come un orologio da taschino lungo il cinturone che portava a tracolla. La tecnologia bio-magnetica lo aveva sempre affascinato, e gli piaceva tenerla vicino al cuore. E poi delle macchine, in generale, si fidava, perché poteva vederne i meccanismi, anelli puntellati che scorrevano l’uno sull’altro, e non lo avrebbero fregato. Non potevano fregarlo. 

Non aveva un vero e proprio appuntamento. Ma mentre il pomeriggio cominciava a inoltrarsi, cominciò a sentire una certa urgenza. Si incamminò verso la fermata più vicina della Docklands Light Railway, per prendere il primo treno diretto verso sud. Si controllò rapidamente nella fiancata cromata del vagone quando i freni sfrigolarono sulle rotaie. Aveva una faccia da criminale che non avrebbe incantato nessuno, un mezzo sguardo evasivo - per via di quell’unico occhio turchese - nascosto tra i capelli castani troppo lunghi. Quei capelli, in realtà, somigliavano ad un groviglio di cavi metallici, e non contribuivano a conferirgli un aspetto rispettabile, o quantomeno onesto. Sorvolò sul dettaglio delle guance eccessivamente scavate, e saltò sul treno con un movimento talmente rapido che il DMM stesso non avrebbe potuto rilevare. 

Si lasciò cadere sul sedile vuoto più vicino, e dalla tracolla che gli si incrociava sul petto con il cinturone di cuoio tirò fuori il Noxrit. La vecchia pallida e nervosa che sedeva di fronte a lui sembrò sul punto di dire qualcosa. Ezra fece saltare fuori dalla confezione un paio di pillole, le osservò rotolare appena nel palmo aperto - piccole, blu, rettangolari. Puntò l’occhio sulla vecchia, lanciandosele in bocca. Sapevano di acido folico e zolfo: in pratica facevano schifo. Ma c’era schifo e schifo, di questo Ezra era pienamente convinto. E mentre il treno prese a muoversi verso sud, lo schifo del Noxrit gli sembrò nettare e ambrosia al confronto con i ricordi che cercava di soffocare con quella medicina dell’oblio. 

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Faceva caldo [2], quando Lexie Vanessa M. J. Doolin arrivò a Southwark. Nelle strade fumose e lungo i marciapiedi i passanti erano una calca anonima di ombre proiettate contro le mura degli edifici. Da dove veniva Lexie - un agglomerato di abitazioni con un nome: Croydon - l’anonimato non era di casa. Adesso, sotto le luci ambrate della città, le mancavano persino le occhiatacce che riceveva di solito dalle sue parti.

Il volo ritmico e cadenzato delle falene che andavano a morire contro i lampioni le faceva venire in mente gli ingranaggi di uno degli orologi del Prof. Adrian Toky Beare - uno di quelli che lei avrebbe dovuto aggiustare. 

In realtà, Lexie di ingranaggi e orologi ci capiva poco o niente. Nell’officina del Prof. Beare, si limitava a catalogare i pezzi per dimensioni. Le macchine non facevano per lei. Le persone non facevano per lei. Ma nel laboratorio degli orologi questo non aveva importanza. Lexie lavorava in silenzio, mettendo ordine tra i pezzi, così come avrebbe voluto mettere ordine nella sua vita. Sua sorella Vivian le diceva sempre che non avrebbe funzionato. L’esistenza implicava dei cortocircuiti che Lexie non sapeva ancora come affrontare, e il catalogare orologi serviva a poco o niente al riguardo. 

Camminando a passo spedito lungo un immaginario asse tracciato nell’atmosfera come una coordinata da seguire, Lexie aveva la falcata arrogante di un ragazzino, un taglio di capelli poco femminile, e una camicia larga e fuori moda che le scendeva lenta contro i respiri. Bibi, una massa di pelo grigio e bianco, se ne stava acciambellato sul suo collo come una sciarpa orribilmente viva. 

Un’ondata di brividi travolse Lexie quando cominciò a dispiegarsi tra i suoi pensieri la ragione per cui era lì, a Londra, a marciare contro il Crystal Palace.

Lord Leonard Daly Langley era entrato nell’officina del Prof. Beare con l’intenzione di riprendersi il suo secolare orologio da taschino. Mrs. Beare, seduta in un cono di luce polverosa che filtrava dal lucernario, lavorava a maglia per Bibi, e Bibi sembrava saperlo. Per essere un furetto, aveva uno sguardo scuro troppo umano - il muso bianco, il corpo affusolato, una linea armoniosa e grigia. 

― Tim Bates, quel figlio di puttana ― aveva detto Langley. ― Questa storia delle distorsioni sub-spaziali gli sta disintegrando il cervello. Non riesce a mettere le mani su quel maledetto magnete plasmante, quello esposto al Crystal Palace. Ma ci puoi giurare, Adrian: è questione di tempo. Ci riuscirà.

Quando Langley se n’era andato, Lexie si era resa conto di aver assorbito quella conversazione con l'avidità porosa di una spugna. Le parole di Langley si erano sovrapposte alle lettere stampate sull’elenco di catalogazione che lei aveva tra le mani. Aveva alzato gli occhi sul Prof. Beare, e una ciocca di capelli biondo-castano le era scesa a solleticare la fronte. 

Il Prof. Beare aveva sorriso, aggiustandosi il papillon sul colletto logoro dell’unica camicia che aveva. 

― Stronzate ― Per essere un professore, era decisamente poco accademico. ― Se esistessero magneti plasmanti in grado di creare distorsioni sub-spaziali, mi muoverei sulle onde vertiginose delle coordinate spazio-tempo solo per evitare di incontrare quel Langley… ― Si era stiracchiato come un gatto, massaggiandosi la schiena e guadagnandosi l’attenzione di Mrs. Beare e Bibi con un unico lamento. ― E farei qualcosa anche per queste maledettissime vertebre. Sarebbe tutto più facile…

Confrontando attentamente due viti emerse a galla sulla distesa di bulloni e rondelle metalliche che affollavano il banco da lavoro, Lexie aveva detto: ― Non cambierei nulla della mia vita.

Ma quelle viti avevano messo in moto ingranaggi dentro la sua testa che non credeva nemmeno di avere. Se le era rigirate tra le dita, le aveva osservate. Le distorsioni sub-spaziali non erano quello, in fondo? Viti identiche, solo con scanalature diverse. Era possibile? Lexie le aveva tra le mani. E per quanto fosse scettica, le sembrava possibile. 

― Potresti fare un salto nel futuro e trovare una cura per tua sorella, no? ― Cara, vecchia Mrs. Beare, con la sua fissa per i vestiti per furetti. Lo aveva detto ridendo, con un velo di ironia e sarcasmo, contemplando l'impossibilità dell'ipotesi. Ma l’immagine di Vivian si era ormai stampata nella mente di Lexie, un marchio a fuoco indelebile.  

Era per questo che adesso puntava dritto verso il Crystal Palace: un magnete plasmante, Vivian e un’assurda ipotesi sulle distorsioni sub-spaziali.

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Quando se lo ritrovò davanti, una griglia di acciaio e vetro, Ezra si sentì quello che era: un turbo-costruttore. Il Crystal Palace brillava con torri e ampi spazi che si dispiegavano nelle linee architettoniche più improbabili come fili della tela di un ragno. Con l’occhio vero, Ezra scannerizzò la visione con estrema facilità. Con il monocolo incastonato nell’eye patch, focalizzò vettori, forme geometriche e dati luminescenti. 

I polpastrelli delle dita cominciarono a vibrargli sotto le pulsazioni disordinate del proprio sangue. Avrebbe voluto smontare quell’allucinazione architettonica lastra di vetro dopo lastra di vetro, per comprenderne il segreto, carpirne il cuore. I turbo-costruttori avevano impulsi che andavano al di là del dominio della coscienza.

Il Noxrit non aiutava a restare completamente lucidi. La Dirty Thunder avrebbe dovuto ringraziare la medicina dell’oblio: Ezra aveva accettato quel lavoro solo perché non aveva avuto abbastanza forza per rifiutarlo. A dover essere sincero, non gli piaceva per niente l’idea delle distorsioni sub-spaziali, e gli piaceva ancora meno quella di un magnete plasmante le coordinate spazio-tempo. Come gli suggeriva il sangue che gli esplodeva adesso tra le dita, era un turbo-costruttore. E come tale, conosceva le leggi che governavano la materia, l’universo, la società, gli accordi tra i migliori dello spionaggio industriale, le semplici equazioni dell’esistenza. Ezra era un turbo-costruttore, e avrebbe messo le mani su qualsiasi cosa - avrebbe smontato, aggiustato, rimontato e costruito qualsiasi cosa. Ma il tempo e lo spazio li avrebbe lasciati stare. Aveva imparato tempo prima che se tutto quello che c’era a disposizione era una realtà monocromatica, una cazzo di ragione c’era.

Avrebbe rubato il magnete, su questo non aveva dubbi. Consegnarlo alla Dirty Thunder… beh, avrebbe potuto dire che ci avrebbe pensato su. Ma in realtà non aveva bisogno di pensarci. Come diceva Kening Spring? ― Lo spazio allo spazio, e il tempo al tempo. E noi a noi. 

Ezra non poteva che essere più d’accordo. Lo spazio allo spazio, il tempo al tempo… e se per il resto eri fottuto non era colpa dell’ordine cosmico, e non si poteva di certo distorcerlo per dare un’aggiustata alle proprie rotte. Se eri nella merda, eri nella merda. Questo significava “noi a noi”. Forse Kening Spring, da bravo politico, se la cavava meglio di Ezra con le parole e la retorica. Ma Ezra era un turbo-costruttore. E non lo fregavi.

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[1] Incipit di Neuromante, W. Gibson

[2] Incipit (in realtà prime due parole) di La notte che bruciammo Chrome, W. Gibson

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N.d.A.A.: Questo è un folle esperimento steampunk! Siamo @SpookyBoogie23 e @venusmarion, e questo è il nostro racconto a quattro mani - quattro mani, venti dita, due cervelli, etc... Se abbiamo le idee chiare su quello che stiamo facendo? Assolutamente no! Ma questa è la parte divertente! Da due stili di scrittura completamente diversi sta uscendo fuori... questo! Con la speranza che la storia vi piaccia... buona lettura!

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