Prologo: Little pat on the head
Disclaimer: Nulla di tutto ciò mi appartiene, solo le idee folli che partorisce la mia mente insana ^^'
Pairing: Secondo voi? Anche se qui le cose vanno lente, lentissime per forza, poi lo capirete
Setting: all'inizio degli inizi, ovviamente è tutto molto romanzato e i dettagli me li sono inventati di sana pianta, visto che il canon non li fornisce.
Prologo: Little pat on the head.
"Mamma? Papà?"
Il piccolo Kevin aveva perso il conto di quante volte aveva ripetuto quelle parole, ogni volta con un'ansia sempre più crescente, perché non riusciva a trovare i genitori in nessuna stanza.
Non erano in camera, né in bagno, né in salotto, né in cucina.
Si era spinto anche fino al laboratorio, ma nemmeno lì aveva avuto fortuna.
Non erano nemmeno fuori in giardino.
Kevin rientrò di corsa, puntando alla loro camera da letto.
Aveva un atroce dubbio che trovò conferma solo quando aprendo cassetti e armadi si accorse che mancava più di metà del contenuto.
E non c'erano più nemmeno le valigie riposte sopra l'armadio.
I suoi genitori erano fuggiti.
Fuggiti via da lui.
Lo avevano abbandonato.
Incuranti di aver lasciato un bambino di soli dieci anni da solo, senza che sapesse badare a se stesso.
Kevin combattè con tutte le sue forze per non scoppiare a piangere.
Lui ormai era un bambino grande.
Si butto sopra il letto dei suoi, annusando in particolare il cuscino della madre che aveva ancora il suo profumo di sandalo e lavanda, forse per darsi forza, per immaginare che fosse ancora lì con lui.
Se chiudeva gli occhi gli risultava più facile, poteva quasi sentire sua madre accarezzargli la testolina, anche se... da quanto tempo è che non lo faceva, a meno che non glielo chiedesse lui?
E nemmeno suo papà era mai stato tanto affettuoso.
Kevin era solo già prima che loro decidessero di andarsene.
Stavano insieme a lui solo quando era lui ad esigerlo, perché se Kevin ordinava qualcosa la otteneva sempre.
Era così da quasi tre anni.
Continuare a chiedere cose a chiunque lo avrebbe aiutato a uscire da ogni guaio.
Questo sembrò rincuorarlo.
Scese in cucina a far colazione con biscotti e cereali, che sapeva dove erano riposti.
Per qualche giorno non si mosse da quella casa, ma quando sentì l'esigenza di pranzare con qualcosa che non fosse una merendina o un cibo preconfezionato contenuto in un pacchetto o in una scatola, si decise a varcare la soglia.
In fondo aveva bisogno di aria aperta, era pur sempre una bella giornata di sole, in quell'estate fresca e mai afosa, tipica di Ipswich.
Passeggiò, non seppe nemmeno lui per quanto tempo, finché si ritrovò al molo, costeggiato di ogni genere di negozio alimentare.
Il profumo che emanavano certe vetrine era inebriante.
Fu attratto da uno di questi ristoranti sul mare, entrò senza pensarci troppo.
"Ciao, bel bambino, ti sei forse perso? Ti aiuto a trovare la tua mamma e il tuo papà?" si prodigò una giovane cassiera, con voce di miele.
Per quanto fosse dolce il suo tono, a Kevin quelle parole facevano malissimo.
Tuttavia, lo resero ancora più determinato.
"No, però tu vuoi regalarmi una porzione di fish and chips. Da portare via."
"Ma certo che te lo regalo. Aspettami qui, il tempo di prepararlo." sorrise lei, facendogli una carezzina sulla testa.
Nel giro di dieci minuti, il piccolo Kevin si stava godendo il suo pasto, seduto su una panchina in riva al mare.
E tra una patatina fritta pucciata nel ketchup e l'altra un'idea si fece strada nella sua mente.
- Io posso avere ben più di un pasto!-
Finito di mangiare, il bambino si diede una ripulita a una fontanella vicina,
Fece un giro delle villette nelle vie interne, poco distanti dal mare, sceglie quella che gli piace di più.
Approfittò del cancello che è stato lasciato socchiuso, percorse il vialetto, salì i tre scalini di legno e suonò il campanello.
Fu solo questione di attendere.
"E tu chi sei?" gli aprì la porta un uomo robusto sulla cinquantina.
"Che succede?" fece capolino anche una donna leggermente più giovane, probabilmente la consorte.
"Voi volete prendervi cura di me." emise la sua sentenza Kevin.
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Brian Jones non sarebbe potuto essere più soddisfatto della sua scelta per le vacanze estive.
Fuggire dalla asfissiante afa newyorkese era una necessità, ma voleva evitare il caos rumoroso di Florida, California o qualsiasi costa Spagnola.
Per quello Ipswich si era rivelata la via di mezzo perfetta.
Soleggiata,ma non troppo, tranquilla ma non per questo noiosa, tutt'altro.
Quella non era un'estate come le altre.
La sua famiglia si era allargata di un prezioso componente, un'adorabile frugolina di circa quattro mesi.
Nel primo pomeriggio, nonostante il sole non fosse mai particolarmente aggressivo, sua moglie Alisa preferiva rimanere in casa con la loro bambina, mentre lui ne approfittava per uscire a fare qualche rilassante passeggiata.
Ormai erano lì da una settimana, questo gli aveva permesso di crearsi la sua routine e selezionare i suoi posti preferiti.
Camminare lungo il molo era la cosa che prediligeva, amava il cigolio dei suoi passi sulle assi di legno, amava guardare le barche attraccate, amava farsi cullare dallo sciabordio dell'acqua.
Cercava poi un po' di ristoro nelle vie interne, a ridosso delle pinete.
Fu in una di queste vie, un pomeriggio, che Brian assistette a uno spettacolo tanto indecoroso quanto insolito.
Un bambino, che non poteva avere più di dieci anni, era spintonato via in malo modo, rischiando di cadere dagli scalini del portico.
Si avvicinò per vedere meglio dal cancello socchiuso: il bambino aveva un nastro adesivo alla bocca, a malapena respirava e stava piangendo terrorizzato.
"Vattene e non tornare più!" gli gridò il padrone di casa.
"Piccolo imbroglione scroccone!" gli fece eco la moglie, altrettanto adirata.
Brian non ci pensò due volte a intervenire.
"Si può sapere che state facendo?" corse nella loro direzione, allarmato, riuscendo a prendere il bambino fra le sue braccia prima che cadesse a causa dell'ultimo spintone violento da parte della donna.
"Lei si faccia gli affari suoi, non sono cose che la riguardano!" tuonò il padrone della villetta.
"State maltrattando un bambino! Questa è una cosa che riguarderebbe chiunque!" ribatté Brian, tenendo il bimbo saldo fra le sue forti braccia.
"Lei torni a fare il turista e ci lasci fare!" ringhiò la donna, sentendo quel forte accento Americano. "Quello non è un bambino, è il figlio del demonio!"
"Ma cosa state dicendo?" urlò Brian, sconvolto.
"Sa perché gli abbiamo messo quel nastro alla bocca? Perché se parla fa le sue magie nere, il demonio!" sbraitò l'uomo Inglese.
"Proprio così, sono tre giorni che mangia il nostro cibo, dorme nel nostro letto e si è intrufolato nelle nostre vite senza che nessuno gliene abbia dato il permesso!" sfuriò la donna.
Brian spostava lo sguardo dalla coppia al bambino che aveva smesso di piangere e lo guardava con due occhioni imploranti, scuri come il momento che stava vivendo.
"Se porta via quel moccioso impertinente ci fa solo un favore, ma se fossi in lei non lo farei parlare, mi creda!" si raccomandò il padrone di casa.
"Potete scommetterci che lo porto via da due squilibrati come voi!" spergiurò Brian, allontanandosi con il piccolo, che aveva già acquisito talmente tanta fiducia nel suo salvatore da concedersi il lusso di stringergli la mano.
E Brian si sentì stranamente orgoglioso, quando questo accadde.
Gli sorrise, facendogli una carezzina sulla testa, mentre lo portava con sé in direzione del molo.
Lo fece sedere con sé su una panchina, in un angolo abbastanza isolato, e valutò bene le proprie mosse.
"Hey, piccolo, ma è vero quello che dicevano quelle brutte persone? Che quando parli succedono cose strane?"
Il bimbo si limitò ad annuire con la testa.
"Dovrei avere paura di te?" proseguì Brian.
Il bimbo scosse la testa in modo negativo.
Brain si alzò, ma solo per raggiungere una fontanella vicina e bagnare l'estremità del suo fazzoletto, per poi tornare dal bambino.
"E va bene. Adesso cercherò di toglierti questo nastro nel modo più delicato possibile. Però non farmene pentire, ok?"
Un altro cenno di assenso con la testolina.
Brian bagnò gli angoli e il contorno del nastro con l'acqua, facendogli perdere buona parte della sua aderenza, cosa che rese meno doloroso lo strappo.
Il bambino si accarezzò con le mani i contorni delle labbra, le strinse e le rilasciò ripetutamente, per poi parlare.
"Grazie, Signore, per avermi salvato." disse.
"Ma quale 'Signore'! Chiamami Brian!" sorrise bonario l'uomo. "E me lo vuoi dire come ti chiami tu?"
"Kevin. Kevin Thompson."
"Beh, Kevin, mi stai parlando, eppure non sta succedendo niente di brutto o di strano."
"Succede quando dico delle cose che voglio che succedano."
"Tipo cosa?"
"Fammi un'altra carezzina sulla testa." domandò Kevin, sentendone davvero il bisogno.
Era un gesto che gli ricordava la mamma, quando la sua mamma era ancora buona con lui.
Era un gesto che sapeva di casa. Di calore. Di famiglia.
Brian ovviamente non poté fare altrimenti, stupendosi.
"Qualche altro esempio?"
"Batti le mani, poi alzati e gira su te stesso tre volte."
Brian eseguì ogni comando con quella sequenza di azioni precisa.
Ne era sconvolto. Eppure non spaventato.
"Kevin, tu hai un potere speciale. Avresti davvero potuto chiedermi qualsiasi cosa e io l'avrei fatta, eppure mi hai chiesto solo queste cose molto tranquille. Non so cosa è successo a quella coppia, ma una cosa la so: tu non sei cattivo."
Per il bambino fu come un'iniezione di fiducia che aspettava da tempo.
"Io non sono cattivo. Però ho avuto paura. Sono triste e sono tanto solo." mugolò Kevin, i suoi occhi nuovamente lucidi.
"Paura di cosa? Perché sei triste? E perchè dici di essere solo?"
Kevin guardò quell'uomo, in quei suoi occhi azzurri, limpidi come doveva essere il suo cuore. Aveva capito che era una brava persona. Che di lui si poteva fidare.
Quindi si decise a raccontargli tutta la sua storia.
"La mia mamma e il mio papà facevano un lavoro bellissimo: indossavano i loro camici bianchi e trovavano le cure alle malattie, chiusi nel loro laboratorio a combattere contro i batteri e i virus... per me erano un po' dei supereroi, anche se non avevano troppo tempo per giocare con me, però per me era ok anche così, mi volevano bene..." cominciò il piccolo, il volto velato di nostalgia, il groppo in gola che gli rompeva la voce in più punti. "Poi non lo so cos'è cambiato... non curavano più le malattie, in laboratorio.. Ci avevano messo dentro me. Mi obbligavano a giocare anche se non volevo e mi controllavano, con dei fili attaccati ovunque, mi facevano tanto male e anche quando gridavo basta.. Non si fermavano. Era tutto un incubo, io volevo solo la mia mamma e il mio papà, non erano quelli scienziati cattivi!"
Kevin aveva ricominciato a piangere.
"I tuoi genitori.... Facevano esperimenti su di te?" ripeté Brian, sconvolto, abbracciando il bambino per dargli un po' di conforto.
Kevin in quelle braccia ci si gettò a capofitto.
"Sì, mi torturavano e io non capivo perchè. Poi un giorno... volevano farmi di nuovo tanto male, io ho gridato basta, come facevo sempre, ma... quella volta ha funzionato. Loro si sono fermati. E non solo, loro facevano qualsiasi cosa chiedessi. Ogni persona lo fa. Da allora io posso controllare le persone. Con la mia voce."
Brian aveva quasi paura di chiederglielo.
"E poi cos'è successo, Kevin?"
"Andava tutto bene, avevo di nuovo la famiglia che volevo, che giocava con me, mi coccolava, mi dava attenzione... perché lo chiedevo. A volte forse ho esagerato e non me ne sono reso conto... e loro forse si sono spaventati, forse chiedevo troppe cose, non lo so. Pochi giorni fa, una mattina mi sono svegliato e... non c'erano più, sono fuggiti senza di me, mi hanno lasciato qui da solo e io non so che cosa fare!"
"Ma come da solo? Non hai parenti?"
"No, tutti i nonni sono in cielo. Non ho zii, né cugini."
"Amici?" indagò Brian, sempre più apprensivo.
Kevin scosse di nuovo la testa in modo negativo.
"Mamma e papà pensavano solo al lavoro, non c'era tempo per nient'altro e io non ho amici perchè non mi hanno mai fatto andare a scuola, mi insegnavano tutto loro..."
Per Brian la situazione era così tragica che la soluzione gli sembrava solo una.
"Kevin, vieni con me!"
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"Caro, sei tornato finalmente!" lo accolse una giovane donna, di statura alta e slanciata, dall'aria mite, i capelli castani raccolti in uno chignon poco accurato.
Aveva il viso un po' stanco, forse a causa delle notti insonni che le procurava la neonata di quattro mesi che teneva in braccio.
Una bellissima bimba, paffutella, con delle piccole ciocche nere che facevano capolino dalla cuffietta rosa col fiocco che indossava.
Si guardava attorno con i suoi occhi verdi, grandi e vispi e sembrava agitare la manina in direzione non solo del papà, ma anche del nuovo arrivato.
Perché Brian non era tornato a casa da solo.
"Brian, chi è quel bambino?" lo interrogò la moglie, un po' sconcertata.
"Alisa, ti presento Kevin. Kevin, lei è Alisa, la tua nuova mamma. E quella bimba è Jessica, nostra figlia. D'ora in poi tu sarai il suo fratello maggiore."
TBC
Capito ora il 'leggerissimo' ribaltamento del canon?
Spero vi sia piaciuto.
So già che sarà una bella sfida scriverla.
Anche se però al momento questa storia ve la dovete dimenticare, perchè ho troppe ma davvero troppe wip da terminare prima di pensare di riprendere questa...
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