OS: "Pesante è il capo di chi porta l'elmo" / Din Djarin

Personaggi: Din Djarin, Grogu, ? (spoiler)
Contesto: indefinito, post-"The Mandalorian" s2 // AU in cui Grogu è rimasto con Din / riconquista di Mandalore in sospeso / in parte helmetless!Din / lieve haunted!Din
Genere: introspettivo, azione, una punta iniziale di fluff, angst e crisi esistenziali di default
Avvertimenti: headcanons personali | libertà e/o probabili imprecisioni relative alla lore dei cacciatori di taglie e a tecnicismi vari | armi, lieve violenza e menzioni di sangue 

Nessun codice a catena.

Credeva di aver chiuso per sempre con questa storia. Fino a qualche mese fa, avrebbe piantato le mani sul tavolo delle trattative e si sarebbe congedato senza sprecarsi in convenevoli – la tessera immaginaria di cacciatore d'élite sbandierata silenziosamente, ma a bella posta, dietro le spalle. Più di ogni altra cosa, non si sarebbe mai fatto cogliere dalla tentazione di sorridere. 

Vero è che, fino a qualche mese fa, non aveva nessun motivo per gettare di tanto in tanto uno sguardo al sedile posteriore.

"Ti ricorda qualcuno?" sembra chiedere il sopracciglio alzato enfaticamente in quella direzione. Per tutta risposta, Grogu pigola allegro, battendo le manine; come se guardare il vero volto di suo padre fosse un gioco che non potrebbe mai diventare vecchio.

Din sbuffa un riso sommesso. «Felice che lo trovi divertente» commenta con un lieve scatto del capo, per poi ruotarlo nuovamente verso la console.

Anche Fett e Fennec, su Tatooine, hanno sorriso della sua insistenza nei confronti della faccenda. A modo loro, ovviamente; che sul momento non ha avuto tempo di interpretare come sincera ammirazione della sua fermezza o paternalistico compatimento per ciò che aveva appena deciso di accollarsi: un volto di donna senza nome, praticamente inesistente per qualunque giurisdizione nel raggio di almeno un pugno di sistemi stellari.

Dalla seconda informazione in suo possesso – l'ultimo avvistamento sul pianeta Bogano – Din ha dedotto che chiunque l'avesse inserita non si aspettasse che sarebbe stata l'ultima della brevissima lista o, al limite, non dubitasse della stabilità dell'ubicazione.

Facendo uno più uno, un affare tutto da perdere. E tale sarebbe rimasto, se non fosse stato per la cifra impressa a fiamme olografiche sul registro taglie.

Il suo viso si adombra. Nell'enorme massa del pianeta in avvicinamento, comincia a distinguere dei crateri inframmezzati a zolle di un ocra erboso; il vorticare di stracci di nuvole, molto più pacifico di quello dei suoi pensieri. Anche con l'attenzione incagliata tra transparisteel e navicomputer, la sensazione dello sguardo del piccolo puntato sulla sua schiena è il contrappeso che gli impedisce di vagare troppo lontano.

Ha bisogno di quei crediti, pensa. E poi, per quanto meno minaccioso della media con cui ha a che fare di solito, il tizio che gli ha venduto la nave non potrà comprarci tutte le ultime razioni della sua vita, con la sua parola d'onore sulle rate – poco importa se mandaloriana.

Che sia ancora il migliore nel parsec o meno, quello che lo aspetta è un pesce abbastanza grosso da poter risolvere molti dei suoi problemi in un colpo solo.

«Resterai qui finché non torno» istruisce, un po' più asettico di quanto avrebbe voluto, mentre si porta avanti con i preliminari per l'atterraggio.

In modo abbastanza prevedibile, da dietro il posto di comando giunge un lamento flebile. A questo, suo malgrado, Din associa mentalmente due enormi orecchie verdi afflosciate e altrettanti occhioni liquidi.

«Va tutto bene, è solo per un po'» tenta di addolcire la pillola, pur non sapendo se quella di questa caccia o delle prossime. Se più per sé stesso che per il piccolo. «Non sarà così per sempre.»

Un altro versetto abbattuto; stavolta, il colore incerto di una domanda ne incrina il timbro della nota finale. Il Mandaloriano torna a girarsi verso suo figlio. Ha bisogno che lo guardi negli occhi per dirgli quello che deve, anche se quello che deve dirgli ha solo i contorni traballanti di una certezza. 

«Te lo prometto.»

E vorrebbe davvero tanto avere un tetto di certezze sotto cui metterlo al sicuro, nella tormenta di forse che è la vita che aveva pensato di poter abbandonare, e che invece è quasi sicuro gli calzi ancora a pennello. Come l'armatura che ancora indossa.

Il silenzio dell'altro fronte lascia gravitare la sua asserzione nell'aria per un po', avvoltolandola di ingenua, infantile aspettativa. Dura abbastanza perché Din si renda conto di aver appena garantito come tangibile l'esistenza di qualcosa che non ha mai toccato con mano da quando aveva almeno nove anni. Anche Grogu, come lui, è dovuto crescere troppo in fretta – nonostante a cinquant'anni sia ancora bambino. E forse più del ragazzino che è stato lui, meriterebbe spazi all'aperto dove giocare e non bugigattoli in cui nascondersi.

Sicuramente, molto più della verità.

 «Patuu.»

Un cinguettio che arriva all'improvviso, insieme a uno zampillo fresco che si dipana da appena sotto il costato e scioglie la tensione nel petto. Din realizza che farebbe fatica a spiegare al lato più razionale di sé come quel versetto riesca a zompettare nel silenzio della cabina esattamente come fa il piccolo per stare dietro alle rane – leggera, ma determinata. Perciò non lo fa. 

Non è la prima volta che sente Grogu pronunciarla, ma per lui viaggia ancora tra zero e infiniti significati. Di solito è il suo modo di rispondere quando lo chiama per nome. Però lo dice anche con una zampetta appoggiata sul vetro, ruotando la testolina verso Din e sventolando le orecchie con fare inquisitivo; quando gioca con i droidi della zia Peli e l'idea di essere semplicemente osservato da lontano inizia a non bastargli più; quando finisce la sua zuppa e lui gli chiede se gli sia piaciuta.

Una volta lo ha messo a letto e Grogu, più che rispondere "patuu" al suo augurio di buona notte, l'ha sgocciolato aggrappandosi al suo dito e fissandolo dal basso ad occhioni sgranati; al che il controllo di routine dei giunti di potenza ha dovuto attendere la mattina successiva.

Din non può essere sicuro di cosa il piccolo stia cercando di dirgli adesso. Considerato che anche nella promessa che lui gli ha fatto sono di più i non detti, conclude che sia giusto così. Ciò di cui è sicuro, quando le fessure agli angoli dei suoi occhi iniziano a tirare, è che in qualche modo quella parola è riuscita ad infilarsi anche lì in mezzo. Comincia a non sopportare più il solo ricordo di com'era trascinarsi giorno dopo giorno da un lavoro all'altro prima di avere tutto questo. Almeno ora, se deve ritornare a farlo, ha più di un buon motivo dalla sua.

L'intermittenza luminosa degli indicatori e il breve trillo di spie anticipano di qualche minuto l'ingresso in atmosfera. Nei sottili interstizi di spazio e tempo tra leve e pulsanti, Din incappa nel pensiero che il modo che lui e Grogu hanno di intendersi – di fidarsi l'uno dell'altro – è ben lontano dall'esattezza meccanica di quei segnali elettrici. 

Trova subito la conferma del suo sentimento in proposito dentro di sé, quando balbettii umidi e spensierati cominciano a rimbalzare da una parete all'altra della cabina e lui si ritrova a stringere la mano sul pomello del cambio un po' più forte del necessario.

Non vorrebbe che niente tra loro due fosse così esatto.

Intanto, deve ricordarsi di tenersi ben stretto il dubbio di prima per un altro momento.

§

Nessun pianeta è mai abbastanza tranquillo.

Nemmeno quando tutto sembra dormire; a cominciare dal mastodontico binog scolpito pacificamente sull'orizzonte – disteso su un altopiano comunque troppo distante perché possa costituire una minaccia.

I meandri labirintici della maniera della caccia non perdonano lo scorrere del tempo. Din può dirsi soddisfatto di come il suo scetticismo non abbia perso in punta; di buona norma, è lo strumento di cui si avvale prima di qualsiasi altro capo del suo armamentario fisico. Perfino allo scalpiccio accorto degli stivali, che registrano ora il secco dell'erba, ora l'umido degli acquitrini fangosi, lascia sempre un margine di fallibilità.

Non si considera stupito, infatti, quando, arrivato in prossimità di una piana disseminata di voragini, la visione termica dell'elmo gli mostra come siano convenientemente distribuite sopra tre macchie infuocate, ansanti e fameliche. Non ha più fiducia adesso di trovare chi sta cercando – qualsiasi altra forma di vita che esenti dalla fauna locale – di quanta non ne avesse prima dell'atterraggio. Certo è che l'ultima cosa di cui ha bisogno ora è di cadere a piedi pari in un covo di oggdo.

Avanza cauto, tenendosi a debita distanza da quelle cavità, e con la stessa circospezione bada che il visore non stazioni sullo stesso punto troppo a lungo.

Sulle placche di beskar della sua armatura, il pallore stanco proiettato dal sole si frantuma in scagliette luminescenti di bianco, azzurro e arancio. Anfratti argillosi spezzano la pianura in un mosaico irregolare di piattaforme erbose, immerse in una foschia che risuona del frinire degli insetti. Con la sua coppia di guglie squadrate, solo un edificio, probabilmente legato a qualche culto, si erge su quell'atmosfera monolitica di alba senza tempo.

Tutto è silenzio.

Tranne, all'improvviso, un soffio freddo.

Un mugghio che respira tutto intorno al Mandaloriano e, dentro di lui, inizia a ricamare figure che evaporano a cascata. Tre minuscole dita verdi protese nella sua direzione che subito si ritirano in un buio spettrale. La sua armatura avvolta da un nero cupo e sibilante. Resta pietrificato mentre la contempla a poco a poco riempirsi di fenditure, graffi, tagli— ferite da cui colano fiotti di un bianco gelido.

Dirada queste ultime con uno scatto fulmineo del casco, come se qualcuno gli fosse appena arrivato alle spalle. Il sole non è più caldo di prima sull'erba. Se possibile, lo è di meno. Sterile.

Din arriccia il naso, una, due volte. Un rivolo quasi impalpabile di bruciato striscia sotto l'elmo urticandogli le narici e lui porta istintivamente una mano vicino alla fondina del blaster. 

Analizza, seguendo quel meccanismo ben oliato del suo modus operandi che ancora funziona e che lo conduce sulla traiettoria di un'esile colonna di fumo distante non più di un klick in linea d'aria.

Il dubbio che per una volta la fortuna si sia schierata dalla sua parte lo attraversa senza attecchire.

Deduce. Dove c'è fumo, c'è fuoco; dove c'è fuoco, qualcuno che non dimostra particolare attenzione, sforzo o interesse a non essere trovato.

Il Mandaloriano soprassiede sulla scelta tra le tre opzioni. Se questo pianeta è davvero il Deserto Verde di cui si parla con tanta condiscendenza, le modalità in cui la fonte di quel fumo può avere a che fare con il suo obiettivo si collocano in una scala di grigi sufficientemente variegata. Per ora, questa logica basta a fargli credere che la sua giornata possa ancora andare a buon fine.

Un occhio precipita verso il basso, incastrandosi su un lato ben preciso della cintura tattica.

Le dita fremono dubbiose.

Forse non sarà mai pronto a brandire quell'arma iniettata di tenebre come propria. È già da un po' di tempo, comunque, che se ne sta lì agganciata, ma il fatto che lui non sia ancora in grado di dare a questo una motivazione convincente non lo turba quanto sentir pontificare sui fati. Su un destino che non ha mai rivendicato.

Dal lato opposto, un pezzo dell'altra metà del suo clan affonda in un taschino. Din stringe il rilievo della pallina cromata con una mano, sospirandone via il fortuito ed indesiderato legame con il primo oggetto, e solleva nuovamente lo sguardo in direzione del fumo.

A sera – nel peggiore dei casi – sarà sopravvissuto anche a questo.

E tornerà indietro da qualcuno che lo ha aspetta.

Perché l'ha promesso.

§

«Mi ci è voluto meno di un giorno per trovarti. Fossi in te, inizierei a rivedere le mie tattiche.»

«Se io fossi in te, penserei di riconsiderare l'arma alla quale affidare la mia difesa.»

Nell'officina, di inequivocabilmente abbandonato, è rimasto solo lo stantio di olio di scarico bruciato. Le note grezze del ferro e gli squilli intonati del beskar divergono e confluiscono insieme ai loro corpi – spilli in un turbine di aria elettrica – e ogni impatto produce un ringhio stridente che echeggia fin dentro il suo elmo. 

Rinfoderando il blaster insieme ad ogni tentativo diplomatico, Din si è sentito pervadere dal primo brivido di adrenalina. Ha lasciato che un pensiero corresse al suo compianto fucile Amban. Un secondo, meno lusinghiero, è andato agli uomini di Fett; il quale, per ora, non può permettersi di chiudere un occhio sugli armamenti di seconda mano, recuperati da bassifondi altrettanto anonimi e senza religione. 

Di rimando, la lancia ha preso ad arroventargli la schiena, palpitando di ricordi di battaglie tutt'altro che mercenarie. Ora sono i suoi guanti a crepitare sotto quella fiamma.

L'istinto di ricondurla alla piccola vita che ora dipende così intrinsecamente dalla sua doveva servire da spinta propulsiva. Nella concitazione stagnante dello stallo, canalizzarvi le energie per ritagliarsi in fretta una via d'uscita potrebbe rivelarsi una scelta imprudente.

La taglia è meno remissiva del previsto e lui non è fiero di avere già abbastanza – troppe – distrazioni per la testa.

«Seguimi. Finché sei ancora in grado di farlo da sola.»

«È una minaccia.»

«Un suggerimento. Tanto per essere pari.»

Il suo silenzio lo investe con la cadenza serrata di una raffica di vento. Coglie un'inaspettata incrinatura quando la donna ribatte di nuovo. Decisa, come una crepa nel ghiaccio.

Rotta e malinconica.

«Non lo siamo.»

Oltre lo schermo inerte del visore, il Mandaloriano digrigna i denti. Non è più la sola adrenalina a pompare fiotti elettrici a tutto il suo corpo.

Il pensiero di aver già sentito quella voce gli brucia in fondo agli occhi. Si è insinuato nei meandri più sotterranei della sua razionalità dal primo momento, e più fuori da sé si sforza di mantenerlo, più quello minaccia di assalirlo con un intero esercito— ombre assoldate da una dimensione torbida— un vago canto baritonale e clangori metallici cadenzati a ritmo di combattimento.

Anche il ghiaccio è impossibile da leggere.

Non lo è da spezzare.

Din cerca di aggrapparsi a questa convinzione con le unghie e con i denti, combattendo contro la curiosità, la rabbia che ne scaturisce, la carne che tira e brucia sotto il metallo. In tutto questo, l'elsa della Spada Oscura gli sbatte ripetutamente su un fianco come se non desiderasse altro che morderlo, ricordandogli l'occhiata diffidente che le ha saettato poco prima.

Se l'avesse impugnata dall'inizio, minuti— forse ore fa— il gioco sarebbe finito ancor prima di cominciare. Se lo facesse adesso, il filo su cui entrambi stanno danzando a un passo da inutili complicazioni si rivelerebbe per quello che è. Din sa entrambe le cose, e anche che non farà niente per cambiarle.

La luce dell'esterno balugina da dietro le sue spalle – dov'era il portone automatico prima che lo forzasse – e guizza brevemente nell'attimo in cui lancia, tenaglie e martello si assestano in un precario equilibrio verso il predominio. Da dietro quell'intreccio scomposto di metalli, gli occhi da rapace della sua avversaria lo fulminano con la stessa sciabola di pelle logora del viso dell'olopuck.

«Gettali a terra. Conosco questa storia: non va mai a finire bene.»

«La mia è già stata scritta.»

«Allora perché cercare di cambiarla?»

Mentre si oppone a quella spinta sfruttando tutta la forza delle braccia e facendo leva sulle gambe, Din ripensa alla calma titanica con cui la donna lo ha approcciato inizialmente. Considera gli attrezzi da lavoro maneggiati come armi letali, le spire in cui il suo corpo riesce a contorcersi senza fatica, e arriva alla conclusione che quella flemma che ormai sembra lontana anni luce sia servita solo ad affilare una ferocia latente per indirizzarla su canali più precisi.

Non ha un'armatura a proteggerla, né ad assimilarne la stazza alla sua. La traccia di tutte le lune che ha visto in più di lui resta nelle rughe della fronte autoritaria e nell'argento sparso sulle trecce nere. Nonostante tutto, rientrerebbe a buon diritto in un novero di rivali affatto ampio; uno che in questo momento non gli sarebbe di aiuto connotare.

Il che si staglia testardamente contro la certezza di non averla mai vista prima.

«A me spetta l'ultima parola.»

L'incrocio si sfascia. Recuperata la più completa aderenza al suolo, Din esegue con la lancia una sferrata che lei schiva con un volteggio vertiginoso. Quando è la donna a riavventarsi su di lui – con l'agilità di un vulptex tra cristalli di sale acuminati –, riesce a convogliare la pressione dell'impatto sui parabracci, intersecati a scudo. Ma sotto la forza destabilizzante di un calcio che non fa in tempo ad allontanare dal fianco, si ritrova a retrocedere barcollando.

Deglutisce pesantemente, ostacolato da una sequenza respiratoria frenetica. Non può già essere senza fiato; non con le alternative che ha a disposizione, ma che ancora si ostina ad ignorare.

Pur svincolato dal protocollo della Gilda, riesce a capire perfettamente che la scelta tra le due opzioni di recupero – caldo o freddo – non può e non deve in nessuna circostanza diventare una questione personale.

Resta il fatto che la violenza gratuita ha sempre esercitato su di lui la stessa scarsa attrattiva dell'idea di abbassarsi a supplicare per la vittoria. Che lui era il migliore in quello che faceva; che, se è tornato a farlo, è per un motivo che non ha nulla a che vedere con la sua reputazione – già di per sé una condanna a morte, nel codice non scritto dei cacciatori di taglie.

Però resta anche una parte di lui che prescinde sia dalla necessità che dalla discrezione: il Din che non vuole combattere contro di lei, tantomeno vederla morta, ma sapere chi sia. Sentirla parlare, solo per cercare di riconoscere le presenze evanescenti convocate dalla sua voce; riconoscere qualcosa nella loro marcia nebulosa.

Sulla mantella che le copre le spalle, la pelliccia si staglia ritta come se fosse la propria, fremendo nell'aria. Una rotazione sperimentale e le armi di lei sono di nuovo in aria, pronte a scendere ancora—

Accade tutto in una frazione di tempo che sembra infinitamente deformata.

Il Mandaloriano tira in dentro un respiro che, superate le narici, tramuta in un reticolo di schegge rocciose. Una scintilla del suo inconscio corre al lato sinistro della cintura e, attraversando il centro del petto, aumenta il ritmo delle pulsazioni e restringe il corso dell'ossigeno dentro e fuori i polmoni. 

La lancia gli scivola dalle mani, cadendo lentamente al suolo e con uno squillo che fa meno rumore di quanto dovrebbe. Il suo campo visivo si assottiglia nella morsa di una cornice oscura; le orecchie si abitano di ululati indistinti e sibili velenosi. Un unico comando.

Fallo.

Con gli occhi ancora appannati da quello sprazzo di furia, Din resta in ascolto dell'impatto scomposto del ferro sul terreno. Di un gemito trattenuto a stento. Il braccio destro è la prima parte della donna a piegarsi verso il basso, subito raggiunto dalla pressione della mano opposta. Stretta nella sua, la Spada Oscura vibra ancora del suo ronzio sinistro. 

Din si sforza di mantenere una posizione difensiva, mentre il suo sguardo si apre, si chiude, sfreccia da quel riverbero sfarfallante alle proprie mani e viceversa. È come se il vero aggressore gli sia scappato davanti agli occhi, non prima di avergli rifilato l'arma incriminata per incastrarlo. 

Che cos'era quello? 

La domanda gli pulsa impietosa contro le tempie. Ha sparato, ferito, ucciso, ma mai così – mai senza essere in sé stesso. Non vuole guardarsi dentro e vedere cosa sarebbe successo se non fosse rinsavito. Perciò guarda lei, piombata in ginocchio: la curva penitente della schiena, che l'assomiglia ad un predatore ferito; le tenaglie e il martello che giacciono fracassati ai suoi piedi, accanto ad una sottile scia vermiglia.

Guarda oltre la cicatrice, oltre il bronzo disciolto nelle iridi sbarrate. Nei fantasmi e nelle ferite di uno spirito umiliato.

«Te l'ho detto» mormora lei, granitica come un oracolo inascoltato dopo un cataclisma. «Non siamo pari.»

E Din vorrebbe che sia una sfida— che possa inghiottire il magma nei muscoli e lo scompiglio nella testa— che non lo lasciasse sentire un codardo, o peggio— ma non lo è.

Il flusso traballante della spada, intanto, sembra prendersi gioco di quello del suo respiro. Per distrarsene, conduce la punta più vicino alla donna, proiettando un prisma di ombre sulla sua espressione greve.

«Allora arrenditi, se non hai il coraggio di provare il contrario» ringhia, ma a mezza voce, e detesta che suoni più come se la stesse pregando.

«Sei in errore.»

Così dicendo, pure con il dolore ad appesantirla, la donna solleva il mento verso di lui. Negli occhi fieri, il caleidoscopio delle scariche della lama oscura si inumidisce di una solennità sofferta, simile a quella disciolta nell'eterna foschia di Bogano. Din si sente come se fosse rimasto là fuori a contemplare quell'alto edificio, chiuso in eterno su sé stesso e i suoi segreti impenetrabili; alcuni – non dubita – più ragionevolmente di altri.

Con questo senso di infinita sospensione – e un brutto presentimento – il Mandaloriano rimane in attesa delle prossime parole della taglia.

«Non resta che il coraggio a chi smarrisce la Via maestra» sentenzia la donna.

E se prima non lo era, ormai è convinto che, sotto il cuoio, le nocche siano completamente sbiancate.

Una trafila di immagini gli scorre a velocità supersonica dietro le retine. La T di un visore incavato in un casco blu e una mano guantata tesa saldamente verso di lui. Due occhioni bagnati che gli chiedono cosa stia succedendo, mentre con il proprio corpo, acquattato su un carretto, può solo cercare di offrire loro riparo da una pioggia di spari. Lo scontro con Gideon.

Alla fine, come ghiaccio che si scioglie, tutto sfuma su di lui e Grogu su Nevarro, nella forgia del Covo. Su di lei che, con le fiamme del braciere riflesse sul beskar bronzeo dell'armatura, decreta l'unione dei loro destini nel nome di un clan, almeno finché il piccolo non sarà di nuovo tra i suoi simili.

«Ma non sarò io a impedirti di percorrere la tua» continua, imperterrita, «una volta che mi avrai uccisa. Solo così verrò con te.»

Nel suo stato di semi-immobilità, Din può solo assorbire chiazze di quei suoni. Sente freddo. Lo sono le onde mosse dalla voce di lei, mentre bruscamente si rovesciano su di lui. Lo è il sangue che ancora gli fruscia nelle orecchie in un rollio continuo, insieme a un fischio ininterrotto, come se fosse scampato per un soffio a una granata. Una volta che tutti i pezzi di quell'assurdo rompicapo trovano contatto nella sua testa, solo una voce riesce ad emergere. 

Una piccola mano che si aggrappa a un lembo del suo mantello logoro, tirandolo dolcemente.

Respira.

«No.»

L'emettitore inghiotte nuovamente la lama con un sibilo. Din si china e, con una cura che sorprende anche lui, appoggia la spada a terra. La lancia, caduta poco più in là, è un compagno ferito e dimenticato che non può gemere.

Anche con lo sguardo basso, d'altronde, la donna non riesce ad ignorare l'intenzione dietro il gesto; né l'impressione che le parole successive sembrino prosciugarlo di tutte le energie che gli sono rimaste: «Ni haa'tayl'gar¹, goran².»

Din la intravede strizzare le palpebre, come per reprimere una convulsione.

Non ha più dubbi.

Il cuore gli batte così forte contro la gola che potrebbe esplodergli da un momento all'altro. Potrebbe chiederle cosa ci faccia qui; se sarebbe arrivata ad ucciderlo, se non l'avesse riconosciuta. E alla fine, ma solo alla fine, come non ha mai potuto fare— come lei, ora, non gli sta dando il permesso di fare— potrebbe farle la domanda più ovvia.

«Guardami» le chiede. «Ti prego

E una volta ottenuto il suo sguardo, è da supplice che si inginocchia davanti a lei.

Mentre allunga una mano verso il suo braccio ferito, le dita dell'altra sono già corse all'elmo, facendo presa sotto il bordo come se fossero abituate a farlo da sempre. È solo la terza volta che non c'è l'onta della vergogna a frenarlo, ma gli tremano le labbra. Ha del sangue che non è il suo a premergli contro un guanto come una testa in cerca di affetto, riaccendendo ricordi di un'appartenenza ormai perduta e di una nuova, faticosamente conquistata. E lui ha la paura di chi si volta indietro e spera in una specie di benedizione per poter proseguire.

Si chiede se anche Grogu abbia provato tutto questo, prima di conoscere le stelle acquose nei suoi occhi e sceglierlo ancora una volta.

Anche gli occhi di lei, adesso, sono liquidi. La sua voce, pure.

«Ni haa'tayl'gar, Din Djarin.»

Tutt'intorno, il tempo ha ricominciato a scorrere. L'aria è viva, umida e intrisa di metallo; gli allarga le pupille e gli preme il sudore sul viso scoperto, insieme a qualcos'altro che lo fa respirare a fatica. Una consapevolezza.

Din Djarin non sa più chi sia il cacciatore e chi la preda.

GLOSSARIO:

¹ni haa'tayl'gar [Mando'a] "ti vedo" (lib. "ti riconosco"); il corrispettivo Mando'a di "riconoscere" esiste, ma ho pensato ad una connotazione formulare, anche tenendo a mente l'inglese "I see you" (?)
²goran — [Mando'a] "armaiolo/a"

A/N:

OKAY AMICI, questa è ufficialmente la cosa (meglio neutra che volgare) più difficile che abbia mai solo concepito di scrivere (non sono abituata a gestire trame e si vede, ma tutto serve, no?). Pur di pubblicare, mi sono rassegnata al fatto che molti dettagli sfocino nel nonsense più assoluto, che le tre parti risultino ancora vergognosamente scollegate tra loro e che non scorrano neanche a pagarmi. BEAR WITH ME.

Venendo all'Armaiola...
1) l'ho immaginata diversamente da com'è l'attrice che la interpreta.
2) non sono andata di rewatch, quindi essere riuscita a centrare la sua voce resta ancora un lontano miraggio (dialoghi discutibili ne abbiamo? AVOJA).
Nel dubbio, visto che è uno dei miei personaggi preferiti della prima stagione, suggeritemi una scorciatoia per Dagobah, che mi ci ritiro a vita a mangiare stufati di radici e rane bollite. 💔

DISCLAIMER:

L'haunted!Din (in soldoni, la Spada Oscura è infestata dalle anime dei precedenti utilizzatori e di coloro che ha ucciso e altera la mente dell'attuale possessore) non è un concept di mia invenzione, ma degli utenti Tumblr @/kyberpistol e @/keldabekush. Io mi sono solo limitata a reinterpretarlo e rimodellarlo su quello che ho voluto scrivere (contate anche che non ho mai visto Clone Wars). Vi consiglio di dare un'occhiata al #tag in giro per altri fanwork molto (più) interessanti (di questo). ✨

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