Capitolo Tre
---
Dondolava sulla strada, passo dopo passo, incrociando talvolta le gambe, instabile. Come un ubriaco. Disperso nei pensieri.
Casa sua gli pareva incredibilmente distante, all'improvviso. Gli incroci diventavano, in quel rosso brillante, un'interminabile attesa per farlo riflettere ancora più approfonditamente su quanto fosse un'idiota. Un unico universo egocentrico, in mezzo a quel posto così aperto, le sporadiche persone intorno, nell'aria mattutina di un'Udine domenicale improvvisamente troppo stretta e soffocante. Aveva chiaramente rovinato tutto, lasciando che il peggio di sé lo trascinasse al solito livello di ragazzino immaturo, irresponsabile. O magari no, però no anzi, non aveva sbagliato e si stava al solito fasciando la testa su qualcosa che non aveva... no, no, Alex era chiaramente troppo imbarazzato per non avere poi conseguenze. Cosa era rimasto di quella serata?
Non aveva nemmeno un modo per rintracciarlo. Che idiota... non chiedergli il numero, o l'indirizzo di casa. Quel petto così levigato, la bocca morbida...
Tornava con la testa a quelle immagini ogni coppia di sanpietrini a terra, inframezzandole alla foto stampata nella sua testa del suo sguardo allibito, nudo sul palco, vulnerabile come il bambino che ancora era. Una volta, due volte... mezz'ora di strada in un tormento da flagellante, fino alla porta di casa, fino alle lenzuola rosse che gli coprono il corpo stanco, improvvisamente infreddolito.
Era tutto così assurdo e irreale.
...
Nel pastoso risveglio, una musica a lui familiare. La Primavera, di Vivaldi, emanata dal suo cellulare poco distante dal cuscino.
Apre un po' di più gli occhi, la bocca incollata, smanaccia tra le coperte, arrivando a premere il bottone e rispondere. Al solito, si schiarisce la voce lontano dal microfono e finge piena coscienza di sé, nonostante non fosse nemmeno sicuro di essere nella sua camera.
«Pronto?» qualche secondo di silenzio. Un po' troppi secondi, di silenzio.
«Pronto? Chi è?» solo un respiro tremolante dall'altra parte. Guarda il numero sullo schermo, senza riconoscerlo.
«...Damien» un leggerissimo vocio di sottofondo. Scalpiccio sommesso di passi, la voce un sussurro. Era tutto un treno di emozioni: l'allerta, la veglia improvvisa, la sensazione di stare immaginandosi tutto, o sognando. Si passa una mano in faccia e sulle labbra, si schiarisce la voce di nuovo.
«Alex? Sei tu?» una domanda retorica, un implicito "come è possibile?".
«Volevo...» una pausa lunga almeno cinque secondi. Dei rumori, la bocca che si apre e chiude, il fruscio delle parole iniziate ma ripensate prima d'essere espresse.
«Volevi?» invita, ma in un impeto di curiosità, è sicuro d'avergli messo pressione. Almeno tre, quattro secondi di vocio e scalpiccio sommesso.
«Volevo... è stato bellissimo» segue un raschiare, il bipbip del cellulare. Sullo schermo 'Chiamata Terminata: 0.01.02 ' è l'unica certezza che la chiamata sia davvero avvenuta. Il sole sfuma nella stanza dal vetro chiuso, qualche raro rumore di movimento dai cantieri vicini.
Follia. Due cose aveva ricavato da questa chiamata: che gli era piaciuto ma, cosa più importante, un numero. Non un numero qualsiasi, ma un numero di cellulare. Un modo per contattarlo, per arrivare a lui, per accertarsi che non fosse un'illusione, che non aveva necessariamente sbagliato tutto quella notte.
È stato bellissimo, aveva detto. Cristo, l'aveva detto lui, lo aveva chiamato apposta. Lo aveva chiamato per dirglielo.
La realizzazione lo folgora, in un istante di presa di coscienza, di ripresa del controllo del suo cervello.
Il numero. Come aveva fatto ad avere il numero di cellulare? Chi glielo aveva dato? Era certo di non averglielo lasciato, dopotutto per questo si stava dannando l'anima. Dal portafoglio? O forse aveva preso il suo cellulare talvolta? Assurdo.
Quel ragazzino aveva un vantaggio tattico spropositato su di lui. Sapeva almeno dieci volte tanto quello che Damien sapeva di lui, aveva il suo numero senza che glielo avesse mai dato e lui, lui era semplicemente pazzo dall'emozione. Aveva accantonato qualsiasi interesse o lavoro, era rimasto lì, a triturarsi il cervello su quelle immagini e sulla voglia di vederlo, di sapere se stesse bene, se fosse stato bene e se l'avrebbe rivisto ancora e ancora e ancora.
L'unica cosa certa, era che non sapeva niente. Era, al solito, preso a rincorrere le persone, a seguirle come un fedele cane da riporto, quando queste lanciavano l'osso. In tutti quegli anni, in venticinque anni, non era mai cambiato. Era sempre lì a prenderlo nel culo - quantomeno non nel senso stretto del termine, considerava - con ogni persona che incontrava. Era un pezzo di legno a galla su un fiume, trascinato. Questo soltanto era davvero preoccupante, senza neanche considerare il resto di sé stesso.
Alex, diciotto anni e il profumo di barba rasata ed invisibile sul viso. Damien, eterno classico Cocker da compagnia. No, non l'avrebbe portata avanti così, non ci sarebbe stato.
Lui, il cane da riporto, mai più. Lui, a inseguire, mai più.
Le persone, cattive e brutte, buone e brave, si mangiavano fino alla spalla, quando lui offriva un dito. Doveva essere il suo punto fisso, specialmente con un diciottenne a cui piaceva chiaramente giocare in vantaggio.
– Sai cosa, Damien, sei solo chiuso. Chiuso come i vecchi che non parlano più e si lamentano. Chiuso come una noce, ruvido e fastidioso come un chiodo. Ti vantavi di essere sempre positivo, buono, solare... e questi pensieri ora dove sono? Stavi soltanto mentendo a te stesso, lo sai – un sorriso storto, amaro, rancoroso.
– Al solito ti stai convincendo di non procedere coi piedi di piombo, di non farti trasportare da quel "ma io sono così solare! Io sono diverso! Io non mi faccio mai cambiare da nessuno!" e basta. Ancorato. L'idea, la paura di non tornare indietro. Ancorato come un vecchio fallito. Una volta, lo capirai, sei diffidente pure della tua ombra, sei già al punto di non ritorno, accettalo. Devi solo scegliere: onesto con te stesso, o lasciar scorrere tutto, impegnarti a fingere e pure sì, magari forse, illuderti al punto da non distinguere più il vero te dalla statua di gesso che ti sei costruito intorno. Sei davanti ai soliti bivi Damien, la tua vita un resto dispari di questi giorni, affrontalo, sei patetico e te lo stai dicendo in testa, una cosa ridicola già di suo –.
Fissa il soffitto bianco vedendoci mille disegni e parole sopra. L'opprimente e soffocante sensazione di buio e vuoto, nonostante le finestre aperte, gli tracima dall'animo, invadendo i sensi. Bastava un buco nella tela, un tocco troppo forte, una strattonata troppo violenta e bum! Sarebbe precipitato dai suoi pensieri, ritrovandosi nuovamente la persona vulnerabile di sempre.
Si rigira nel letto, cerca di riaddormentarsi, per dimenticare, per distrarsi. Soltanto dopo quindici minuti è in piedi, davanti al computer, a cercare uno studio di psicanalisi perché no, le cose non potevano continuare così. Doveva fare qualcosa. Si stava giocando l'ennesima occasione. Però, seriamente, a cosa sarebbe servito? Una persona complessata che cercava di leggergli dentro e predire la prossima mossa? Superflua, non stava già giocando la sua vita come una partita di scacchi? Sarebbe stato estremamente ridondante andare da uno psicologo.
Sì.
Decisamente.
Le ore passano con siti informativi sulla schizofrenia e video divertenti aperti, in sottofondo alla tragedia umana che si stava consumando nella sua testa. Solo dopo un paio d'ore e qualcosa, Damien si prepara per andare a teatro. In mezzo a tutto il disastro emotivo, stava totalmente trascurando la messa in scena e Silvia di certo non era persona da cui aspettarsi telefonate: se lui non c'era, avrebbe cancellato lo spettacolo, senza se e senza ma, addossandogli la colpa.
Pura e semplice. Probabilmente, poi, glielo avrebbe rinfacciato per il resto dei suoi giorni, giorno per giorno, in un eterno tiro al piattello di mancanze e difetti. Una minaccia migliore di qualsiasi telefonata.
Mentre scende affannato la strada verso il teatro, il pensiero continua a spostarsi dalle battute di Auley, beduino colpito da una tempesta di sabbia mentre riposava in un'oasi ed immaginava cose, ad Alex e il suo sguardo divertito. Uno sguardo al cellulare nella tasca: le due. Ce lo vedeva, lì, ad uscire dalle superiori, stanco... cosa avrebbe potuto frequentare? Artistico? Dopotutto aveva dipinto le scarpe... magari no, invece totalmente l'opposto, lo scientifico... no, no, figurati. Troppo interesse per l'arte e comunque frequentando uno scientifico non avrebbe avuto tutto quel tempo per starsene a teatro, no. Magari però i genitori lo obbligavano, magari erano di quelli che scelgono per i propri figli, anche se questi sono contrari. Alex come avrebbe reagito a questo?
Poteva anche essere che Alex era davvero uno scappato di casa? Frequentava la scuola perché aveva la testa sulle spalle, sapeva di aver bisogno di un'istruzione... però no, come si manteneva?
Un brivido. Una scossa in tutto il corpo.
Alex si prostituiva? E se magari si avvicinava a quelli come lui - quelli come lui cos'erano? Adulti solitari? Persone senza morale? Gente senza scrupoli o avvilita? - per cercare aiuto o, peggio, per approfittarsene?
No, Damien, ma che cazzo... tu hai dei problemi. Punto.
Non poteva andare avanti così. Non sapeva niente di questo ragazzino. Era fin troppo evidente che stesse deliberatamente e palesemente vomitando pensieri sempre peggiori.
«Oh! Ma dov'eri? Paolino oggi non faceva che ripetermi di cercare qualcun altro per la rappresentazione, che tu qua dentro non ci entravi più, che qui, che lì. Cazz'è successo?» era arrivato a teatro. Come lo spiegava? Soprattutto, Paolino ancora doveva vederlo lui, visto che aveva approfittato di un momento in cui l'uomo s'era allontanato dalla porta per entrare. Quasi mezz'ora era stato lì ad aspettare. Doveva davvero essere tutto così difficile?
«Silvia, guarda, con tutto il bene che ti voglio... andiamo a prenderci un caffè insieme e ti spiego perché sennò oggi non combiniamo un cazzo. Oltretutto devo parlare con quello, ma dopo che t'ho detto la questione, sennò io oggi do di testa» era la cosa più responsabile da fare. Non poteva mentire, non lo stava facendo. Stava davvero impazzendo e probabilmente si fosse ritrovato a spiegare a Paolino che lui ci lavorava lì, che aveva un contratto, che era l'unica fonte di soldi, insieme un sacco di altre minchiate per pararsi il culo, mentre Silvia stava piantata lì a bocca aperta... no, ma nemmeno pensarci proprio.
Dieci minuti dopo, c'è il tetto a travi di ferro della Goccia a ripararli e la luce del giorno dalla porta a rimbalzare sul tavolo di legno scuro su cui erano le loro tazze. L'Artista al bancone, a fare conti, Johnny a pulire i bicchieri. Un cappuccino e un tè dentro la ceramica senza sottobicchieri giravano lenti davanti a Damien e Silvia, seduti uno di fronte all'altro.
«... quindi in breve sì. Ieri sera l'abbiamo fatto sul palco, ci siam addormentati lì e la mattina Paolo c'ha scoperto» nemmeno alza gli occhi. Sa già l'espressione di Silvia: corrucciata ma sorpresa, il naso arricciato, la bocca semichiusa e le labbra carnose strette, in un eterno principio di frase a la "Cazzo stai dicendo". Damien pensava che, a parti invertite, avrebbe lo stesso sguardo in quel momento, probabilmente.
Più volte s'era ritrovato a dire a Silvia cose allucinanti: i suoi genitori separati, il sospetto che sua madre se la facesse ogni sera con gente diversa nei locali, il padre depresso che diceva di volerlo a casa, la paura di avere l'AIDS non avendo mai fatto un test in venticinque anni... insomma, Silvia ne aveva sentite parecchie e, come lei, gli altri della compagnia.
– Sei l'unica rimasta, in questa sciarada di cose allucinanti – questa però, forse perché era fresca di giornata - o nottata - gli sembrava come la cosa più strana e stupida che avesse fatto, sapeva che la disapprovazione dell'altra stavolta era concreta.
«Io credo mi sembri così grave perché hai venticinque anni, Damien» una frase, mille rimproveri.
Tutti pesanti come mattoni d'oro in testa.
«...ma poi capito... è un ragazzino, è questo che forse è veramente pesante. Diciotto anni Damien... ma ti rendi conto? Tu che cazzo facevi a diciotto anni? Scopavi con i venticinquenni?» era come assistere ad uno stillicidio in slow-motion, una rimozione delle costole con delle pinze. Che faceva lui, a diciotto anni? Lui... passava le giornate tra computer e piazzetta, a giocare, a chattare di nascosto nelle chat gay... altro? Che altro faceva a diciotto anni? Si masturbava, ma quello non sapeva di un adolescente che non lo facesse... quindi anche Alex. Quindi di conseguenza anche Alex si...
«Damien, porca puttana, mi devi ascoltare» il film che andava proiettandosi nella sua testa viene strappato brutalmente. Torna a fissare il volto severo della ragazza.
«Damien, io non so che ti sta passando per il cervello, ma renditi conto che forse... sei stato solo per troppo tempo» fa una pausa, come si dovesse assicurare Damien la stesse seguendo. Ogni parola che pronunciava era un'unghiata sottopelle.
«Non puoi vivere come un'isola per anni, semplicemente perché ti senti, o sei inadatto agli altri, poi pensare di aver trovato in un ragazzino la persona matura e perfetta... hai bisogno di aiuto, capiscimi» parlare con Silvia era come mettersi di fronte uno sparapalle da tennis e premere il bottone ripetutamente sperando non funzioni. Era tutto molto grave, ma davanti a lei, tutto diventava inaccettabile, condanna diretta a quattro o cinque ergastoli di aiuto intensivo da parte di specialisti. Unica cura, nessuna scorciatoia.
«Silvia, credimi, io ci tengo alla tua opinione e tutto... ma cazzo se esageri, uh? È un ragazzo perfetto, sono stato io a correre e... oh, ho rovinato tutto, c'è poco da fare. Mi ha chiamato anche, mi ha detto che è tutto a posto - perché dire che gli è piaciuto significava questo, giusto, no? - e ora mi servirebbe aiuto soltanto per stare dentro quel teatro e non finire in mezzo alla strada, visto che se Paolo lo dice ai direttori, il mio contratto è bello che finito» dice diretto Damien, scegliendo l'approccio crudo e nudo. Niente girarci intorno.
La faccia di Silvia per un paio di secondi si contrae come cartapesta. Uno spettro d'emozioni piuttosto ampio le si sussegue in faccia, almeno dieci secondi di silenzio, alla conclusione dei quali l'ultima emozione vincente sembra essere la confusione, dato il movimento ondeggiante della mano e della testa, con il volto che torna comunque sul "cazzo stai dicendo", in una versione ancora più incredula.
«Beh... che dirti, questo lo posso fare. Ma è ovvio che non hai considerazione della mia opinione, ovvio che per te sono amica giusto perché non hai nessun altro» si alza dal tavolino piuttosto nervosamente, lasciando degli spicci presi dalla tasca sul tavolo. Prende ad andare oltre la porta del locale senza che Damien riesca a reagire in tempo. Era lì, imbambolato a guardarla e pensare che sembrava di essere punti da una zanzara: lì per lì manco t'accorgi del prurito, del fastidio, ma più ci pensi e vai avanti, più ti viene da grattarti perché non puoi proprio evitare di sentirlo, il fastidio. Si sentiva sempre così quando Silvia giudicava qualcosa tra di loro, o di lui. Sapeva che aveva ragione, ma lì per lì scacciava l'eventualità come un semplice fastidio momentaneo.
Non riusciva a darle torto la maggior parte delle volte. Non lo sapeva nemmeno lui se aveva torto spesso. Finché non erano rimasti loro quattro gatti nella compagnia, con Silvia non si erano mai calcolati più di tanto: semplice amicizia distante. Dicono il tempo stringa anche i rapporti più deboli, ed era stato indubbiamente così. Damien era, da questo, piuttosto confuso. Questi rapporti umani erano proprio una cosa affascinante, nella loro caleidoscopica complessità. Alex era l'ennesima stranezza di un universo costantemente troppo difficile da studiare.
Due ore dopo erano di nuovo sul palco, più distanti che mai. Paolo calmato con un misto di scuse e mezze verità. Smosso nella pietà, aveva ceduto.
«Quale sarebbe il tuo nome, donna?» lui Auley, beduino morente.
«Jennifer, siete forse un abitante del deserto?» lei, viaggiatrice che lo trova.
Nonostante fossero sicuramente distratti, erano anche persone professionali. Qualche occhiata, una battuta storta di Damien e subito Silvia si affrettava ad interrompere la scena e ripetere un blando "Dimentica noi due, concentrati su loro due". Una frase serafica, detta in un tono neutro, con un'espressione neutra, quasi come non fosse successo nulla, al punto da smuovere in Damien una reazione di rilassamento, d'accettazione di sé. Era così lei, era così lui, era così il loro rapporto.
Solo qualche occhiata in fondo al teatro, a controllare che non ci fosse nessuno, lo distraeva davvero. Il resto, era amministrato dalla serietà di Silvia.
Tre ore dopo, le quattro mura di casa. Non era giornata per provare oltre e la prima dello spettacolo era comunque dopo due settimane. Avevano tempo.
Damien è seduto al tavolo, a fissare il cellulare in maniera maniacale, il panino a metà dentro il piatto. Uno sguardo all'orologio della cucina: le sei e tre quarti. Lo chiamava? Gli mandava un messaggio? Meglio un messaggio, la chiamata forse era troppo importante. Però il messaggio era proprio da pedofilo, da uno che non si vuole far scoprire dai genitori della vittima. Magari poteva fargli uno squillo, così era una specie di "ti sto pensando" e... no, troppo infantile, manco si usa più poi. Un messaggio e uno squillo? Ecco, magari forse questo sì, era il modo giusto per essere sicuro che leggesse l'SMS e non sembrasse una cosa di nascosto. Già. Ma cosa gli avrebbe scritto? Niente, solo un 'posso chiamarti? ' e una faccina. No, senza faccina. Sarebbe sembrato famelico senza? Con, però, sembrava lo considerasse un bambino.
«Silvia, vai a strafanculo» gli aveva riempito la testa d'idee strane. Lui non era pedofilo, Alex non era un ragazzino e la differenza di età era solo un ostacolo agli interessi in comune. Alex sapeva benissimo cosa stava facendo, per l'amor di Dio.
– Quella chiamata Damien, ti sei fatto fottere dalla chiamata, ecco la verità – quella voce emozionata, divertita. Quell'innocenza e, forse, quell'ingenuità? Ma quale ingenuità, Alex era uno stratega che sapeva come scolpirti in testa quello che diceva e faceva.
Velocemente scrive nevrotico sui tasti, senza neanche dare più ascolto ai suoi pensieri.
'Sono tremendamente in panico, ti posso chiamare?' era giusto trattarlo da coetaneo? Per lui, per sé stesso... pazienza. Si stava complicando la vita ogni secondo che passava. Premuto 'invia', con la difficoltà degli spasmi di nevrosi delle dita, subito segue lo squillo.
Uno.
Due.
Bip.
Ok, era perfetto ora, si poteva rilassare. Sospira, prendendo un po' di aria nei polmoni, andando in salone ed accendendo il computer sparando l'Estate nell'aria. In qualche modo, pensava, sembrava tutto procedere per gradi: si stava abituando all'idea di avere a che fare con Alex. Immaginava già le passeggiate e l'andarlo a trovare ogni tanto a scuola, spiegargli cose che magari non sapeva, leggergli e recitargli pezzi di libri, di suoi vecchi personaggi, magari davanti il camino acceso che...
Il cellulare squilla.
Non uno squillo normale, di chiamata, ma di messaggio.
'L' Amore, che non osa dire il proprio nome in questo secolo, è un grande affetto di un uomo più anziano per un altro più giovane. È bello, è elevato, è la più nobile forma di affetto. Si dà ripetutamente fra un uomo più anziano e uno più giovane quando l'uomo più anziano possiede intelletto e quello più giovane tutta la gioia, la speranza e il fascino della vita. Il mondo non lo capisce. A volte mette qualcuno alla vergogna per questo ' i caratteri brillano sullo sfondo nero sotto i suoi occhi attenti.
– Che cosa veramente da ragazzino – è l'unico pensiero di Damien. Wilde era veramente scontato. Ricopiargli addirittura la lettera tutta tagliata poi... solo un ragazzino l'avrebbe fatto. O forse no. Eppure ci sta ridendo, anzi, ci ridacchia soddisfatto. Soddisfatto proprio. Solo dopo i primi cinque minuti la risata gli si smorza.
Non si era reso ancora conto che quel messaggio era per dire che sapeva che loro erano fin troppo diversi d'età? Ma dai, Damien, è talmente ovvio. Te l'ha scritto perché l'ha detto a qualcuno e questo qualcuno gli ha detto che non è normale. Non con uno di venticinque anni.
Damien. Riflettici, non esserne soddisfatto. Questo ragazzino non è altro che il prodotto di quello che stai facendo. Si sentirà eternamente in un rapporto strano, non normale. Dovrà affrontare tutto e tutti, come lo stai affrontando tu. Ti rendi conto, Damien?
Sarà da solo di fronte al mondo, quando non ci sarai tu.
Sarà alla gogna.
Soffrirà perché tu non hai saputo dirgli di no.
No, no, doveva lasciar perdere tutto quel bordello nella sua testa. Stava complicando tutto lui, si stava facendo lui i viaggi e le pippe mentali e basta. Cazzo, era ridotto uno straccio. Nemmeno più un messaggio di un ragazzo riusciva a decifrare.
– Sarà che è Wilde – pensava. Wilde e i ragazzini sono un'accoppiata che non l'aveva mai convinto molto, un po' come Alice nel Paese delle Meraviglie e le donne. Mica lo convinceva tanto quel coniglio isterico.
Un altro messaggio con la mano forzatamente fissata ai tasti: ' è un sì o un no? XD ' sì, la faccina la doveva mettere stavolta, sennò sembrava pure arrabbiato. Scherzi.
Dieci minuti dopo, il telefono squilla. Una volta, no, due volte, poi smette.
Damien guarda l'orologio: le sette e mezza. Lancia un'occhiata al copione sul tavolo, i vestiti pronti per farsi la doccia, poi prende in mano il cellulare e si mette comodo sul divano. Lentamente, cerca il messaggio e chiama il numero. «Tranquillo» ripeteva, in un mantra scandito dai secondi degli orologi della stanza.
– Sarà piacevole parlarci dopo oggi – s'assesta un altro po', mentre il telefono squilla... uno... due... tre squilli.
«Pronto?» una voce decisamente diversa. Femminile. Damien per un attimo perde sensibilità nel corpo: la madre. No, no... non stava facendo niente di male. Era tutto apposto.
«Sono Damien, c'è Alex?» era chiaro che la voce non gli avrebbe retto un'altra frase senza tremare. Stava praticamente svenendo lì, in mezzo l'ecopelle bianca.
«Ah... sei tu Damien! - no, non una voce femminile, solo una voce molto fresca e giovane - No, guarda, sono un amico - come un amico, che intende con amico? - Alex è andato via prima dicendo che se chiamavi ti dovevo dire che non era il suo numero... - non ci credo, un incubo - però non avevo soldi quando hai mandato il messaggio! » cazzo.
«Cazzo»
«Come scusa?» oh, cazzo.
«No, niente, mi sono cadute le chiavi, ahah, senti, appena lo senti gli puoi dire che devo parlarci? » giocatela bene Damien. Non farti vedere geloso, non far capire che sospetti lui ti stia giudicando, non pensare direttamente. Concentrati sulla tua voce e basta.
«Ah ok, però vedi che mi ha detto di dirti che lui fino alle otto è vicino... il teatro, ha detto. Dice che tu lo sai... io non ho capito se si sente figo o che, ma c'è praticamente UN teatro qui vicino, non è che ci vuole molto... sei del Club tu?» eh no. Non rispondergli, è ovvio che vuole capire se lavori al Club o al San Giovanni.
«Io non lavoro in teatro» ma come no Damien. Gliel'avrà detto no? Come minimo è l'amico intimo.
«Dai, non dire cazzate, che ti frega? Mica mi infilo mentre fate cose strane!» ride.
– Ma che cazzo ridi, devo dirglielo? Devo stare zitto? –
– Alex, che cazzo vuoi faccia? –
«Boh, vedo se lo trovo al Club... in teoria... comunque grazie, scusa se ti ho disturbato» ma cosa scusa, dalla voce era palese quanto si stesse divertendo.
«Figurati! Comunque io sono Vincenzo, piacere! » sente ridere ancora una volta. Emette un suono smorzato, mentre si passa una mano in faccia con irruenza, per poi sorridere al vuoto che osservava.
«Ah... eh, piacere mio, allora ciao uh! Scusa ancora! » è fatta, chiudi, chiudi e dimentica.
Che esperienza traumatica. Ma chi era? Ma che modo è di comportarsi? E se fosse stato un assassino seriale? E se ora c'avesse provato con lui? Che situazione aveva creato?
Ragazzini di merda.
Damien dieci minuti dopo è fuori casa, di nuovo, praticamente correndo verso il teatro senza doccia fatta, senza forse nemmeno un motivo preciso. Un cane, eccolo lì, un cane che stava inseguendo il bastone: Alex aveva tirato il bastone del "sono vicino al teatro" e lui correva a riprenderlo prima che toccasse terra.
Si blocca qualche secondo, poco prima di un incrocio. Riflette sulla questione.
– Dopotutto – decide dopo un paio di minuti piantato sul marciapiede – basta soltanto decidere quando smettere, di essere un cane che rincorre il bastone –.
Riprende velocemente la strada, il teatro poco lontano e la figura sfuggente di Alex che s'infila velocemente dentro il portone, appena lo intravede.
«Ragazzino di merda» un sorriso storto, amaro, divertito. Uno stratega.
Saltella allungando il passo, infilandosi anche lui dentro il portone.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top