3.9 • PEGGIORE DELLE PIÙ NEFASTE PREVISIONI
Accomiatati gli odiosi commensali, io e Rei salimmo le scale molto lentamente. Raggiungemmo la sua stanza al piano superiore, in silenzio, e lui aprì la porta con una calma snervante. Una volta che fummo dentro, però, ci avvinghiammo l'uno all'altra come se i nostri corpi e le nostre bocche fossero state calamitate. Rei chiuse la porta con un calcio e quell'impellenza che tanto a lungo avevamo dovuto reprimere scoppiò in un'esplosione di violenza tale da costringerlo a rinunciare al proposito di raggiungere il letto e ripiegare piuttosto contro il più vicino pezzo di arredamento, la scrivania, sulla quale mi issò a sedere.
La sua bocca non si scollò un secondo dalla mia mentre le sue mani fredde si andavano arrampicando sulle mie cosce, sotto la gonna nera della divisa scolastica. Afferrai l'orlo della sua maglietta e glielo feci scivolare lungo il torace. Lui fu costretto a staccarsi un attimo da me per alzare le braccia e consentirmi di sfilargliela e, in quel momento, nella penombra della stanza, indugiai nei suoi occhi neri.
Stare con Rei non poteva che essere stata la scelta giusta. Perché non avrei mai potuto amare qualcun altro allo stesso modo. Rei era la mia metà da tutta la vita.
Ero cambiata, durante tutti quegli anni. Quella allegra e spensierata bambina che camminava insieme a lui sul calar della sera aveva lasciato il posto a una persona diversa, svilita dalla menzogna, dal lutto e dalla sofferenza. Eravamo cambiati entrambi rimanendo sempre uguali, troppo adagiati nel conforto che uno offriva alle insicurezze dell'altro per cercare realmente di superarle, due solitudini che di tanto in tanto si sfioravano, si ascoltavano, si aggrappano una all'altra nel disperato tentativo di proteggersi a vicenda.
Non avrei più dubitato di Rei, né del nostro rapporto.
Era dunque arrivato il momento di liberarsi di tutte le cose che, in quel momento, erano del tutto superflue, come il senso di colpa e l'intimo che, infatti, Rei mi stava facendo prontamente scivolare lungo le gambe.
Sfiorai la pelle liscia tesa sui suoi addominali contratti fino a incontrare la cintura dei suoi pantaloni, sotto cui infilai le dita. Lui ansimò nel mio orecchio qualcosa che non compresi mentre lo liberavo da quelle ultime sottili barriere che mi separavano dal suo desiderio e lui si adagiava contro di me. Inarcai la schiena, intrecciai le gambe intorno ai suoi fianchi sottili e mi lasciai condurre in quella danza convulsa scandita dalla polifonia dei nostri respiri accelerati e dai tonfi sordi della scrivania spinta ritmicamente contro il muro da ogni colpo di bacino inferto da Rei fino all'apice in cui emise un gemito più simile a un rabbioso ringhio liberatorio che non a un mugolio di piacere.
«Uhm, la grappa» ansimò, lasciando cadere la testa sulla mia spalla.
«Neanche mi piace» risi io, rimanendo avvinghiata a lui.
«Non fa niente» rispose. «La bevo io. Ne ho bisogno».
Quando tornammo giù dagli altri con la bottiglia in mano mi fu sufficiente lanciare uno sguardo a Nozomi, quasi scomparsa sotto il tavolo al nostro cospetto, per rendermi conto che il ritmo sordo e inconfondibile della scrivania aveva certamente accompagnato anche il loro ultimo quarto d'ora, non solo il nostro.
Rei, impassibile come suo solito, tornò a sedersi, stappò la bottiglia e offrì da bere a Takeshi.
«Ottima» disse lui, schioccando la lingua contro il palato. «Ci avete messo un po' a trovarla ma ne è valsa proprio la pena, vero?»
Quando finalmente la cena ebbe fine e la fragile Nozomi fu affidata a Takeshi, Rei mi accompagnò fin sotto casa, mi sollevò il mento e mi baciò con gentilezza. Al momento di staccarsi da me, però, mi morse appena il labbro inferiore, irresistibile strascico dell'impeto della furiosa sveltina consumata poco prima.
«Grazie per ieri sera» gli sussurrai. «Per non aver denunciato... Jurgen».
Rei mi carezzò i capelli con una mano piena di anelli e con l'altra si accese una sigaretta.
«Lui ti ha salvata» disse. «Gli dovevo un favore».
Il ricordo di quella sera mi perseguitava come un incubo di cui non avevo mai parlato con nessuno.
«Avrei bisogno di parlare con te» gli dissi. «Di molte cose».
«Lo so» rispose lui. «Possiamo vederci domani, dopo i tuoi allenamenti. Possiamo andare alle Piccole Terme, se vuoi».
Mi alzai sulla punta dei piedi per baciarlo.
«Ci vediamo domani dopo i miei allenamenti» sussurrai. «Ma c'è un altro posto in cui vorrei andare. E, per farlo, ho bisogno del tuo aiuto».
Il professor Leon aveva una testa enorme. La sua testa era talmente grande e sproporzionata rispetto al corpicino che sembrava potesse destabilizzarlo alla minima oscillazione.
«Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas» disse, con il suo accento ispanico. «Sapete cos'è?»
«È il motto dei Magi» rispose Pierre.
Pierre Ducrai. Alcune volte mi scordavo che fosse anche lui un genio. Alcune volte mi scordavo persino della sua presenza in classe.
«Sì, esatto» rispose Leon. «Ma qual è la sua caratteristica?»
«È un palindromo» rispose Yumi. «Cioè si legge alla stessa maniera da sinistra verso destra e da destra verso sinistra».
«Giusto, giusto» annuì Leon, «e se disponessimo le parole su una matrice quadrata otterremo che...»
«Le parole si ripeterebbero se lette da sinistra a destra e dall'alto al basso oppure da destra a sinistra e dal basso in alto» sbuffò Taide, annoiata. «Al centro del quadrato la parola tenet forma una croce palindromica».
«Sì, giusto» le rispose Leon, sorridendo serafico. «Sai dirmi cosa significa?»
«Certo che lo so» rispose lei. «Ma non posso rivelarlo».
Leon annuì, mentre il resto della classe attendeva la fine del siparietto, ammutolita.
«La vostra compagna ha ragione» disse il professore. «I Magi non possono rivelare i segreti del quadrato di Sator».
«E perché ce lo sta spiegando, allora?» intervenne Viktor.
«La vostra conoscenza non deve porsi confini» rispose. «Tuttavia non chiederemmo mai a un genio o a un Venator di rivelarci i suoi segreti, giusto? Per i Magi non è diverso».
Yumi sospirò al mio fianco.
«Tu lo sai?» le chiesi.
«Che? Certo che no» si affrettò a rispondere. «Sono sine imperio, ti ho detto».
«Comunque, sono curioso di conoscere la vostra interpretazione del quadrato» continuò il professore, poiché la lezione stava per terminare. «Per la prossima settimana proverete a tradurlo. I Magi, ovviamente, saranno esentati».
Mentre tutti gli alunni si affrettavano a radunare le loro cose, impazienti di andare a casa, altri studenti, quelli sfortunati, si preparavano per recarsi allo stadium per un altro estenuante allenamento di harpastum.
«Buongiorno!» disse la Di Pietro, entrando in classe. «Buongiorno, Sandro. Hai finito la lezione? Devo fare un annuncio alla classe».
Il professore Leon la invitò a continuare, così la Di Pietro, roteando gli occhi verso il soffitto e senza alcun entusiasmo annunciò:
«Per questo Natale il collegium dei docenti, da cui mi dissocio, ha deciso di riportare in auge un'usanza storica della scuola».
Trattenni il respiro, sperando con tutte le mie forze che non si trattasse di un'altra atroce agonia sportiva. Alcune ragazze della mia classe, però, dovevano aver capito qualcosa. Perché le vedevo ridacchiare. La Di Pietro, invece, sembrava disgustata dalle sue stesse parole.
«Si tratta della Bellicrepa» concluse.
Bellicrepa. Non avevo idea di cosa fosse ma, con un nome del genere, non poteva trattarsi che di un evento funesto. Le stesse ragazze che, poco prima, avevano ridacchiato, esplosero in un caos di risate e urletti.
«Cos'è la Bellicrepa?» domandai a Yumi che tutto sembrava fuorché contenta.
«Non lo so, ma credo si tratti di...»
«È un ballo» sbuffò la professoressa, già stufa di quell'entusiasmo. «La vigilia di Natale, proprio qui, a scuola».
Un ballo. Una possibilità forse addirittura peggiore delle mie più nefaste previsioni. Un'ammucchiata di Umani sudati e ingrifati che avrebbe potuto spedirmi direttamente al manicomio.
«Cominciate a cercarvi una dama, ragazzi» rise Leon.
«Io ci andrò con Maia, cascasse il mondo» disse Nate, e Devon rise.
«Se lo dici tu» gli rispose, colpendolo appena.
«E tu con chi ci vorresti andare?» gli rispose lui, offeso.
«Io? Chissà».
«Tu con chi pensi di andarci?» mi chiese Roze, negli spogliatoi. «Se il ballo è solo per gli studenti del Collegium non potrai chiedere al tuo ragazzo di accompagnarti».
«Io non ci vado» risposi. «Non mi sento sicura in mezzo a tutti quegli Umani. Un ballo, poi! Con Genziano che è geloso perché Uva Ursina sta danzando con Pitosforo. No, no. Rischierei di farla finire in una carneficina».
«Ma no, dai» rise lei. «Se dovesse essercene bisogno, e sono sicura di no, potrei intervenire io per evitarlo».
«E tu con chi pensi di andarci?» le chiesi, incuriosita, perché Roze non mi era mai sembrata particolarmente interessata a nessuno dei nostri compagni.
«Non lo so ancora» rispose. «Manca un sacco di tempo».
Lanciai un'occhiataccia in direzione di Nozomi. Lei, di sicuro, avrebbe avuto l'imbarazzo della scelta. Lo stesso non avrei potuto dire di Yumi, che si stava cambiando accanto a lei e che, nonostante fosse carina quanto Nozomi o di più, con il suo caratteraccio era diventata più respingente di un muro di gomma.
«Non vi inviterà nessuno» sentenziò Taide, sistemandosi la stola della divisa. «Mettetevi l'anima in pace».
«Ania» mi chiamò Nozomi, affacciandosi allo spogliatoio. «C'è Reijiro-kun che ti sta aspettando qui fuori».
Certo, mi stava aspettando lì fuori. Chissà se Nozomi si era intrattenuta in conversazione con lui, prima di venire a riferirmelo.
Soffocai l'istinto di mandarla a quel paese ma, anzi, annuii e la ringraziai. Di una cosa, però, ero sempre più convinta: andare al ballo sarebbe stata una pessima idea.
Come promesso, ecco il capitoletto del sabato trasformato in quello della domenica.
Il breve, odioso soliloquio che Ania ci propina poco prima del furioso accoppiamento col suo ragazzo piuttosto problematico ma indiscutibilmente figo, potrebbe sembrare un insieme di parole a caso buttate lì giusto per distogliere l'attenzione del lettore dal fatto che non so scrivere le scene hot e men che meno le romanticherie (va bene sì, non è che sembra, è proprio così e_e).
Però, se lo avete letto bene (cioè se non eravate troppo accecate dall'odio che vi smuove la ship e/o se non siete di quelle che quando fiutano l'arrivo della supercazzola saltano direttamente il paragrafo), vi siete sicuramente accorti (io continuo a parlare al maschile ma qui di maschi non se ne vede manco l'ombra) che Ania dice, in realtà, una grande verità (ho fatto la rima ç_ç): per lei e Rei (ho fatto un'altra rima ç_____ç) stare insieme significa crogiolarsi nelle proprie insicurezze, piuttosto che trovare nell'altro la forza per superarle. Bene, quindi ne abbiamo preso atto. Questa consapevolezza si tradurrà in qualcosa di concreto o rimarrà solo un paragrafo brutto nel bel mezzo di un capitolo super trash? Lo scopriremo solo continuando a leggere.
Ah, il quadrato di Sator:
Bello ignorante, vero? 😍
Baci baci
AppleAnia
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