3.6 • IL SIMBOLO DELLA NOSTRA OPPRESSIONE

Non ero mai stata nel Vestibolo, né vi avevo mai prestato particolare attenzione, fatta eccezione per l'enorme colonna con la quadriga di terracotta che incombeva sull'ippodromo.

La quadriga era uno dei sette Pignora Imperii, gli antichi oggetti magici assegnati in tempi remoti uno ai geni e gli altri sei uno per ognuno degli ordini che, in seguito, sarebbero diventati maggiori. 

Lo scettro di Priamo al Pontifex.
Il Velo di Iliona alla Sibilla.
I Dodici Ancilia agli Equites.
Il Palladio alle Vestali.
Le Ceneri di Oreste ai Magi.
La quadriga di terracotta ai Feziali.

Feziali. Comunemente detti Venatores, Cacciatori.

Il Vestibolo, la loro sede, era una struttuta bassa e moderatamente sobria, più simile a una costruzione di tipo militare che non a una sede amministrativa. Attraverso un imponente portone si raggiungeva il solito giardino interno col porticato comune praticamente a tutti gli edifici di Villa Adriana.

Sine ira et studio, senza ira e pregiudizio, era inciso su una targa di travertino posta sopra l'ingresso. Doveva essere il loro motto.

Al centro del cortile giganteggiava la colonna con la Quadriga di Terracotta e, subito alle sue spalle, c'era l'ingresso attraverso il quale si raggiungeva il copro vero e proprio del palazzo, snodato in tre basse strutture parallele.

Dopo quello che, qualunque cosa fosse stata, avevo vissuto come un attacco di panico, mi sentivo stranamente scaricata, come se tutto quel potere non fosse mai circolato nel mio corpo. Mi era però rimasta una sensazione di disagio, quasi di paura. Paura che una cosa del genere potesse riaccadere, paura di non riuscire a controllarmi.

Mi guardai intorno, tentando di scacciare il pensiero: in quella che aveva tutta l'aria di essere una sala comune con annessa biblioteca sulla quale affacciava, tra gli altri, anche lo studio di Ionascu, gli oggetti strani su cui deviare l'attenzione non mancavano di certo. Sia le pareti che i pavimenti erano di mattoni di pietra grigia, la sala era dotata di due enormi finestroni senza vetri né infissi che affacciavano sulla campagna, completamente nera, immobile e silenziosa nella notte. Una sobrietà di materiali che pareva del tutto sconosciuta ai Superbi, con i loro trionfi di travertini, marmi lucidi e mosaici più o meno esagerati.

Al centro esatto della stanza c'era lo scheletro di qualcosa di enorme, forse una balena, talmente grande che era possibile percorrerlo come un tunnel. E non era neanche l'unico: dall'alto soffitto a volta ne penzolava un secondo, quello di un essere di cinque metri almeno, con le ali da pipistrello una lunga coda sull'estremità della quale spuntava un pungiglione simile a quello di uno scorpione. Un mostro su cui non avrei fatto indugiare lo sguardo un secondo di più.

Mi avvicinai a quello che, a prima vista, mi era sembrato un mappamondo. Grosso, lucido, ben impilato nella sua struttura di metallo che ne consentiva la rotazione il cui asse, però, era stranamente dritto. Il globo, invece, sembrava del tutto bianco.

Sfiorai appena la superficie fredda della sfera e le sferrai un minimo colpo per farla ruotare appena. Puntate verso di me c'erano una pupilla e una disgustosa iride rosacea entro la quale riuscivo a vedere persino i vasi sanguigni bluastri. Quella sfera era un occhio gigante.

«Cazzo» esclamai, ritirando subito la mano, orripilata.

Oltre ai miserabili resti di creature non identificate, per fortuna, la stanza era anche stracolma di libri. Ce ne erano dovunque; sulle librerie, sulle varie scrivanie e sui tavolini d'accompagno ai divanetti e anche sui divanetti stessi. Alcune pile di libri erano disposte persino sul pavimento, altri erano buttati lì un po' a casaccio, come se ci fossero precipitati.

E fu proprio un libro lasciato aperto sul pavimento ad attirare la mia attenzione.

Lo raccolsi e, ancora vestita da harpastum e ricoperta di fango, mi accomodai sul davanzale di uno dei finestroni in modo da non compromettere ulteriormente l'arredamento già discutibile della sala con la mia sozzura.

Sfogliai rapidamente il librone, che era pesante e consunto. Quella non era roba da studi scolastici, era un manuale di caccia; ed era scritto in una lingua che non ero in grado di comprendere. Quello che però capivo benissimo erano le illustrazioni impressionanti, cariche di inchiostro e di neri pieni.

«Che accidenti sarebbe?» chiesi a Viktor, in piedi davanti al davanzale, ancora mezzo nudo, bagnato e infangato proprio come me.

«Un genio mediorientale. Un jinn» rispose lui, mettendosi a sedere accanto a me.

«Fa paura».

«Abbastanza» convenne Viktor.

Il jinn era stato raffigurato come un gigante, intento nell'atto di emergere da un deserto di sabbia furiosamente agitata dal vento e dalla sua potenza distruttiva. Il volto e i lunghi capelli erano in ombra e completamente neri, fatta eccezione per due piccoli occhietti malvagi e luminosi. Il jinn era a petto nudo, con il collo e le spalle larghi come quelli di un toro. La parte inferiore del suo corpo si confondeva nel polverone e i mulinelli di sabbia. Osservai le sue enormi braccia divaricate: i pugni erano chiusi e i muscoli contratti davano l'idea che li stesse serrando fino a conficcarsi le unghie nei palmi.

Un dettaglio, però, attrasse la mia attenzione: il jinn aveva due alte polsiere dorate a entrambe le braccia.

«Sono brachialia coercitionis» disse Viktor. «Legano il genio e piegano il numen al volere del padrone».

«So cosa sono» risposi.

«In passato ogni genio era costretto a indossarli» mi spiegò. «Poi, nel 476 cadde l'Impero Romano d'occidente e quella data coincide anche con il definitivo affrancamento dei geni dagli umani. In realtà, già negli ultimi secoli, con l'avvento del cristianesimo, la figura del nume tutelare era stata già delegittimata e mantenuta solo da pochissime personalità di spicco. Ma, comunque, i geni che fino a quel momento erano stati detenuti dai padroni come schiavi, hanno potuto finalmente liberarsi dei brachialia che li vincolavano all'Umano».

«Non lo sapevo» ammisi.

«Lo immaginavo. Non tutto è scritto nei libri di testo» rispose. «E immagino che tu non sappia neanche che, intorno alla metà del ventesimo secolo, in seguito all'attacco di qualche genio sciolto e sotto pressione degli Augustali, si è valutato il reinserimento dei brachialia».

«Gli Augustali hai detto?» chiesi, perplessa. Ne avevo conosciuto uno in Romania l'anno precedente e la Di Pietro mi aveva assicurato la sua più totale buona fede.

«Sì. I geni, ovviamente, si ribellarono e, per la prima volta dalla caduta dell'Impero Romano, si organizzarono e attaccarono gli Umani. La rivolta era guidata da geni militarmente non organizzati, ed è stata violentemente repressa. Gli Umani, però, sono stati costretti ad aprire gli occhi su quali fossero le reali potenzialità offensive dei geni che, da quel momento in poi, furono visti come una minaccia».

«Per questo furono promulgate le leggi di civilizzazione, con i rastrellamenti e tutto il resto?» chiesi, avvertendo il peso dell'enormità di quel dramma.

«Precisamente» rispose Viktor, poi, dopo un attimo di silenzio, continuò: «Attualmente, comunque, i brachialia vengono applicati come provvedimento punitivo ai soli geni che infrangono la legge».

«Per esempio usando i propri poteri sugli Obumbrati» dissi, carezzando l'immagine del jinn, con le braccia muscolose costrette in quelle rigide polsiere troppo strette.

«Sì, per esempio» confermò.

La porta dello studio di Ionascu si spalancò in quel momento e Roze, che pareva stremata, e il professore ne fuoriuscirono a lunghe falcate. Passarono, con la massima disinvoltura, sotto il tunnel di ossa e ci raggiunsero alla finestra.

«Ecco qua, Ania» mi disse, porgendomi una tazza fumante. «Bevi questo».

Con il subligaculum e lo strophium umidi e appiccicati addosso e il sedere congelato incollato alla pietra del davanzale, agognai a quella tazza come se si fosse trattato di un miraggio, quindi la afferrai senza farmelo ripetere due volte.

«Che cos'è?» chiese Viktor, e con un gesto delicato, allontanò la tazza dalla mia bocca senza rovesciarne il contenuto.

«È solo una tisana, non è scacciademoni» rispose Roze, offesa, poggiando il vassoio sul davanzale. «Tieni, ce n'è una tazza anche per noi».

«Che cos'è scacciademoni?» domandai, sorseggiando la bevanda.

«È una pianta che migliora il tono dell'umore, oltre ad avere proprietà rilassanti e...» disse Roze, ma Viktor la interruppe.

«È una droga» tagliò corto. «Che neutralizza temporaneamente il potere di geni e altre Creature di Mezzo».

Scacciademoni. Certo.

«Va bene, voglio assumerla» dissi.

«Non è legale, Ania» sussurrò Roze, alzando uno sguardo preoccupatissimo verso il professore.

«Allora voglio i brachialia coercitionis» dissi.

«Sei impazzita?» mi domandò Viktor, sputazzando l'infuso.

«No» risposi. «Non voglio mai più rischiare di andare fuori controllo».

«Ania» provò Viktor. «Hai capito o no che quei bracciali sono esattamente il simbolo della nostra oppressione?»

«Ha ragione» convenne Roze.

«Mei» tuonò Ionascu, «solo un magistrato può applicare o rimuovere i brachialia coercitionis. Non sono oggetti da Venatores. Ma, se questa è la tua preoccupazione, puoi tranquillizzarti: nessun genio va fuori controllo nella mia classe. Piuttosto che rischiare di farti fare danni in giro sarei ben disposto a ucciderti».

La sua gentilezza era già un ricordo lontano, per fortuna. Tra tante incertezze, dover dubitare persino dell'ignobile infamia di Ionascu sarebbe stato troppo per me.

«Va bene» dissi. «Grazie. È di grande conforto».

Qualcuno bussò alla porta della sala comune e Ionascu lo invitò a entrare, con aria annoiata.

«Vieni pure, Genevieve» disse.

Genevieve. La Clement.

«Buonasera, professoressa» la salutò Roze, sorridendo appena, e lei le rispose con un gesto nervoso.

«Abbiamo pensato che, al momento, è meglio per te tenerti alla larga dai sine imperio» disse Ionascu. «Almeno finché non stabilizzi il secondo numen. La professoressa Clement si è offerta di trasferirsi a casa tua, così potrai lasciare la tua attuale, improbabile, sistemazione dai Nakamura».

«Non è necessario» risposi, di getto. «Penso anch'io che non sia più il caso di abitare da Yumi. Ma posso tornare a casa mia da sola».

«Tua madre preferisce che ci sia un genio adulto pronto a intervenire in caso di necessità» disse lui.

«Mia madre è un genio adulto» risposi. «Non ho bisogno della balia».

«Melania» mi chiamò la Clement, a disagio. «Daniel sarebbe molto contento di tornare a vivere con te».

Che colpo basso.

«Va bene» concessi, vuotando la tazza. «Va bene, andiamo».

Ok, sono consapevole del fatto che, con questa storia del jinn coi brachialia coercitionis, la prima reference che possa venirvi in mente sia:

... e, in realtà, non è neanche male perché effettivamente è ciò a cui mi sono ispirata. Sarebbe stato molto figo trovare a questi strumenti di tortura un nome arabo ma, nonostante sia stata tentata e ne abbia anche discusso a lungo con la cara vecchia Calypso, alla fine ho dovuto abbandonare l'idea. Che già qui, con il latino, siamo messi malissimo e se non fosse per pora Maddalena io a malapena distinguerei i nominativi plurali dai genitivi (io e Maddalena stavamo in classe insieme eh, quindi abbiamo entrambe finito le superiori 200 anni fa solo che lei ERA MOLTO PIù SECCHIONA infatti sono sicura che questo più con la ù minuscola la farà intendere male). E poi c'è anche il fatto che non vorrei allargare ulteriormente l'universo narrativo (che già così è abbastanza complicato) visto che non avrò il tempo poi di approfondire tutto. Però potrei creare qualche spin off, prima o poi *_______*

Baci baci

AppleAnia col torcicollo come i vecchi e_e

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