3.31 • CENTOVENTOTTO

Avevano pensato a tutto: Uriel era stato preparato dai Velatori e aveva lasciato lo sbracato di Mario da quattordicenne mingherlino e non da strafigo venticinquenne come vi era entrato. Dopodiché, Viktor aveva aperto un varco permanente con la sua mente, cosa assolutamente illegale che, se si fosse saputa in giro, avrebbe scontato con almeno un anno di brachialia. Flacara, nel frattempo, lo aveva schermato con una miriade di incantesimi țigani a protezione dagli incantamenta dei Magi che avrebbero potuto rendere la sua mente illeggibile o, quantomeno, celare le informazioni che a noi servivano.

La sera era fredda e placida e non c'era assolutamente niente, nell'aria, che lasciasse presagire una catastrofe imminente. Sarebbe andata bene. Ero stata preoccupata alla stesso modo anche per l'incontro organizzato da Kirk al Teatro Marittimo eppure era filato tutto secondo i piani. Escluso, ovviamente, quel piccolo fuori programma consumato con Kirk davanti al camino. Un qualcosa che, ormai, sembrava accaduto in una vita precedente.

Ero pronta anche io. Le cicatrici erano ancora gonfie e rosse ma non era importante. Mi passai una o due mani di mascara sporgendomi verso il vetro della finestra pieno di ditate. Non ero ancora pronta a trovarmi di nuovo faccia faccia con il mio riflesso. Quindi, per il momento, avevo deciso di girare alla larga dallo specchio e sfruttare, invece, la moderata capacità riflettente di quel vetro opaco e unticcio. Mi sistemai anche i capelli sciolti portandoli il più possibile davanti alla faccia. Non avrebbero coperto un cavolo di niente, ovviamente, ma mi facevano sentire più sicura e meno esposta.

«Sei pronta?» sentii, alle mie spalle, e il riflesso sfocato e distorto della Clement comparve nel vetro della finestra, dietro il mio.

«Sì» risposi, abbassando subito la testa, «sì, ecco... no».

No, non ero pronta per niente. Non ero pronta a mostrare la mia faccia deturpata in pubblico, né a incontrare Nerissa e Hans ridotta in quello stato. Ridotta in quello stato da un mio simile, per giunta. E, soprattutto, non ero pronta a tornare e lavorare gomito a gomito con Kirk dopo quello che era successo. Non l'avevo ancora neanche mai rincontrato.

«Lo so» sospirò la professoressa. «Lo so che è difficile. Ma ora dobbiamo rimanere concentrati. Non devi perdere di vista l'obiettivo, mai».

«Certo, sì» risposi, perplessa. «Cioè, no. Perché... perché mi dice una cosa del genere?»

«Conosco il loro modo di procedere e, soprattutto, la maniera indegna con cui si relazionano ai geni. Non esiteranno a metterti faccia a faccia con Nerissa né a provocarvi in altro modo».

Lei. Nerissa. Il solo evocare il suo ricordo mi provocava una sete tanto intensa e ardente da bruciarmi dalla gola fino alla bocca dello stomaco.

«Ania» mi richiamò la Clement, percependo il mio stato d'animo. «Nessuno di noi crede davvero in una risoluzione pacifica, sia chiaro. Però devi evitare in ogni modo di cadere nello loro trappole».

«Il professor Leon ha detto che ci daranno una tessera hospitalis, qualsiasi cosa sia» risposi. «E che così non potranno farci alcun male».

«Né voi potrete farne a loro» precisò. «Pena la morte immediata. Devi rimanere sempre calma. Prendere più tempo possibile. Nel frattempo Viktor, mantenendo il contatto con Uriel, fornirà a noi Velatori indicazioni su come entrare, snebbiarci e, successivamente, snebbiare tutti gli altri».

«Ma potrebbero volerci ore, o giorni» piagnucolai.

«Sì» confermò. «Per questo devi rimanere concentrata».

«Va bene» risposi. «Va bene, farò il possibile».

La Clement annuì, accennò un sorriso e fece per lasciare la stanza.

«Professoressa» la richiamai e lei si voltò, stupita. «Mi dispiace tanto di averla trattata così male, all'inizio».

«Ti sei già scusata...» rispose, a disagio. «Non preoccupartene più».

«No, dico sul serio» insistetti. «Lei ha fatto davvero un ottimo lavoro con Daniel. E non solo... è entrata a far parte della rete dopo la morte di Gilbert, vero?»

«Sì» sussurrò. «Sì, la professoressa Di Pietro mi ha contattata e io... ho fatto il mio dovere. Come lo stanno facendo tutti».

Daniel aspettava a braccia conserte con la schiena poggiata contro lo stipite del portoncino dello sbracato e io lo strinsi talmente forte da rischiare di soffocarlo. La scoperta che non fosse il mio vero fratello non aveva cambiato nulla. Anzi. Forse, in un certo modo, gli volevo addirittura più bene di prima.

Mi dispiace tanto per quello che è successo, mi disse. Mamma riuscirà a fare qualcosa per migliorare la situazione, sono sicuro.

Non ti devi preoccupare di questo, risposi, riuscendo finalmente ad avere una comunicazione mentale con lui chiara e nitida, non ha importanza, adesso.

Se qualcosa dovesse andare storto, non devi esitare a chiamarmi, disse. Lo so che non fa parte del piano e so che nessuno sarebbe d'accordo. Ma io ho il Lapis Niger e il mio intervento potrebbe essere decisivo, in condizioni di pericolo.

Niente andrà storto, risposi, perché avevo bisogno di credere che fosse vero.

Tu ti fidi ancora di lui? domandò, distogliendo per un attimo lo sguardo dal mio. Di Kirk, intendo.

Era una domanda che non avevo avuto coraggio di pormi. Mi fidavo ancora di Kirk?

Ti fidi ancora? domandò di nuovo.

, risposi, infine. Sì, mi fido ancora. Non voleva tradirci, ha avuto solo un momento di debolezza dovuto alla vicinanza della collana.

Quella collana che, in quel momento, ornava il collo di Daniel. La indossava sotto i vestiti ma io riuscivo a percepirne lo stesso tutto il potere che, impetuoso, vi scorreva attraverso.

Io e te, però, non lo abbiamo avuto, rispose. Quindi, evidentemente, resistervi era possibile.

«Daniel» lo chiamai a voce alta, stringendogli le mani. È stato lui a guidarci fino a qui. Se non fosse stato per lui non avremmo mai recuperato la pietra. Lui sapeva di essere a rischio, per questo ha avvertito Rei.

Ho paura che gli accada qualcosa disse, cambiando bruscamente espressione e discorso. Non avrebbe dovuto introdursi in quel posto maledetto.

Lo so, ma lui sa quello che fa, cercai di tranquillizzarlo, ma anche io non mi sentivo affatto rilassata, al riguardo. Non rimproverarlo, ti prego. Lui fa del suo meglio.

Sì, del suo meglio.

Hai ragione, convenne Daniel. Non gli accadrà niente. Ci siamo noi a proteggerlo. Glielo dobbiamo, dopo tutto quello che lui ha fatto per noi.

Quindi di Rei ti fidi ancora? chiesi, poggiando la fronte sulla sua spalla.

Certo, rispose. Più che di chiunque altro. E dovresti farlo anche tu.

Agenore e Uriel mi stavano aspettando proprio sotto l'arco di Tito, che io raggiunsi spettinata e trafelata. Forse, lasciare i capelli sciolti non era stata una grande idea, alla fine.

«Scusate il ritardo» dissi. Mi guardai intorno, roteando lo sguardo tra le rovine buie e deserte. «Dov'è Kirk?»

«È a-andato avanti» mi rispose Agenore. «Hanno v-voluto c-che entrasse p-per primo».

«Come ti senti?» domandai a Uriel, tentando di risistemarmi i capelli davanti alla faccia.

«Bene, non ti preoccupare» rispose. «Non ho mai fatto niente di così elettrizzante in vita mia».

«R-ricordati c-che n-non devi p-parlare davanti a l-loro» gli disse Agenore.

«È vero» confermai. «Loro sanno che Daniel è sordomuto».

Uriel annuì e non aprì più bocca. In realtà nessuno di noi disse più una parola fino a quando, tra le tenebre nebulose e tremolanti della notte, non emerse una figura vestita di bianco. Hans.

«Bentrovati» disse, lanciandoci uno sguardo amichevole. «Il vostro capo è già dentro. Volete accomodarvi anche voi? Lo spettacolo sta per cominciare».

Lo spettacolo? Non ero sicura di voler sapere di che spettacolo stesse parlando. Anzi, non ero sicura che il fatto che ci fosse uno spettacolo mi piacesse. Avremmo dovuto fare un incontro ufficiale serio e composto, senza spettacoli. Seguendo Hans, in silenzio, avanzammo attraverso quelle rovine, procedendo dall'arco di Tito in direzione della domus Augustana, nei cui resti penetrammo senza problema alcuno.

«Prendete queste» disse Hans, porgendoci delle tessere di osso.

Osservai attentamente la mia: da un lato aveva la forma di una mano sinistra tesa, dall'altro c'era inciso il mio nome. Doveva trattarsi della tessera hospitalis che aveva nominato il professore Leon. Hans si frugò nella tasca e ne estrasse altre tre, tre mani destre, che ci invitò a far combaciare con le altre. Immediatamente le due estremità presero vita e, proprio come due vere mani fatte di carne e ossa, si strinsero l'un l'altra, per poi tornare alla loro originale rigidità.

«Bene, ora siete ufficialmente nostri ospiti. Adesso dovete essere snebbiati» disse Hans, fermandosi sul ciglio di una vasca quadrata vuota. «E bene inteso che nessun ricordo di questo posto rimarrà fissato nelle vostri menti e che, una volta fuori di qui, sarete riannebbiati in maniera permanente e non avrete alcuna memoria di come accedervi. Vi sta bene?»

«C-certo» disse Agenore.

«Bene, saltate pure dentro, allora» ci incitò Hans.

«Dentro una fontana vuota?» domandai, e lui si voltò a guardarmi.

«Barba di Giove!» esclamò. «Ania Mei? Non ti avevo riconosciuta. Cosa è successo alla tua faccia?»

«Niente che possa interessarti» tagliai corto. «Dobbiamo saltare dentro la fontana vuota, quindi?»

«Sì, esatto» rispose. «Vedete quei piccoli getti d'acqua? Passateci sotto. Sono trentaquattro per lato. Centoventotto in totale. Non dovete saltarne neanche uno».

Molto malvolentieri entrammo nella vasca vuota, all'interno della quale sorgevano i resti di quella che sembrava un'isola artificiale che mi ricordava un po' il Teatro Marittimo di Villa Adriana. E, proprio lungo il perimetro dell'isolotto, effettivamente, erano stati posizionati, a intervalli regolari, questi ugelli spruzzatori dai quali schizzavano altrettanti zampilli d'acqua tanto sottili da risultare quasi invisibili.

Camminammo in silenzio, lasciando che i getti d'acqua gelidi ci colpissero dritti in faccia, uno dopo l'altro, mentre Hans ci osservava a braccia conserte, sul ciglio della vasca.

«Centoventisei, centoventisette» contai, lisciandomi i capelli umidi con le mani ghiacciate. «Centoventotto».

Tempo di un battito di ciglia e l'acqua della vasca, improvvisamente, ci arrivava alla vita. I ruderi tutto intorno a noi si erano trasformati in uno sfarzosissimo peristilio, un cortile quadrato, con un doppio giro di colonne disposte su due piani, entrambi ornati da lunghe file di fiaccole che illuminavano l'intero ambiente e si riflettevano sulla superficie cristallina dell'acqua. L'isolotto al centro della vasca era diventato un elegante triclinio estivo.

«Ok, ho capito» sussurrai ai miei compagni, sentendo il terzo occhio premermi sulla fronte nel tentativo di aprirsi. «È la fontana delle Pelte. L'ho studiata a storia dell'arte».

La fontana delle Pelte prendeva il nome dalle quattro pelte, gli scudi delle Amazzoni. Su ognuno dei quattro angoli della vasca quadrata, infatti, si ergevano le statue dell'Amazzone ferita, raffigurata con lo scudo ai piedi.

«Ci si snebbia con i centoventotto getti d'acqua della fontana delle Pelte» ripetei a Uriel, sperando che Viktor riuscisse a sentirmi. «Cortile inferiore della domus Augustana».

Era un problema. Anche ammesso che la fontana fosse lasciata senza sorveglianza, e mi sarei sentita di escluderlo, le operazioni di snebbiamento di un intero esercito sarebbero risultate troppo lunghe.

Una volta riemersi snebbiati e completamente asciutti, Hans e un paio di soldati in bianco ci avevano guidati fuori dalla domus attraverso un complicato intreccio di corridoi.

Il loro territorio, quel quartier generale celato alla vista di tutti gli altri da una nebbia tanto fitta, era mostruosamente più grande di quanto avessi mai potuto temere. Non si trattava di una domus o due, ma di una vera e propria città che, anche in pieno inverno e a sera inoltrata, sembrava piena di vita, di fiaccole, e di gente indaffarata a dirigersi a passo svelto chissà dove. Nonostante non disponessi di un senso dell'orientamento particolarmente sviluppato, non mi ci volle molto a rendermi conto che Hans ci stesse guidando lungo per percorso turistico, più che funzionale: lui voleva impressionarci con quella sfarzosa magnificenza fatta di giardini e fontane, stucchi e mosaici.

«G-guarda» mi sussurrò Agenore, indicandomi con la testa una grossa statuta in lontananza, talmente alta che la sua testa svettava al di sopra dei tetti delle costruzioni.

La conoscevo bene. Riuscivo a distinguere il volto di un uomo e il suo braccio destro sollevato. Ma sapevo bene che quel volto e quel braccio appartenevano a un uomo abbigliato con una lorica sontuosamente decorata e una tunica corta militare, la mano sinistra stretta intorno a una lancia e al lungo mantello che formava macchinosi giochi di panneggi.

«È la statua dell'imperatore Augusto» gli sussurrai, aggrappandomi al suo braccio perché, mio malgrado, quella statua e la grandiosità del soggetto che raffigurava mi incuteva timore. «Ce n'è una identica a Sarmizegetusa, la sede degli Augustali in Romania».

«Prego, seguitemi» disse Hans, lanciatissimo nel ruolo di ospitale padrone di casa, svoltando nella direzione opposta a quella della statua.

Ci condusse in un reticolo sconcertante di vicoli e scalinate e poi, una volta lasciata la domus, attraverso un boschetto silenzioso.

«Hai p-paura?» mi domandò Agenore sottovoce.

«Sì» ammisi. «Non riuscirai mai a staccarmi dal tuo braccio, da adesso in poi».

«V-va b-bene» sorrise. «P-penseranno che sei la m-mia r-ragazza».

«Una coppia di Vendicatori fa la sua porca figura» mi affrettai a rispondere. «Quindi mi va benissimo che lo pensino».

«Anche s-se s-sono un r...» disse, poi deglutì e riprese, a fatica. «Un r-ritardato b-balbuziente?»

«Sopratutto per quello» risposi, stringendolo più forte. «Guarda come sono ridotta, devo contentarmi di ciò che riesco a raccattare».

Agenore rise e, anche se solo per qualche istante, mi sembrò di essere riuscita a sciogliere la tensione.

«Effettivamente potreste andare a lavorare al circo degli orrori» sentimmo, alle nostre spalle, e Agenore e Uriel si voltarono.

Io no. Non ne avevo bisogno perché l'avevo riconosciuta dalla voce.

«Via, Nerissa» la riprese Hans. «Non essere sempre così scortese».

Deglutii con molta fatica. La sete mi aveva provocato un eccesso di salivazione, come se il mio corpo si stesse preparando, di sua iniziativa, a pregustare la Vendetta. Nerissa non doveva solo morire. Nerissa doveva morire soffrendo pene atroci.

«A-ania» mi sussurrò Agenore. «D-devi stare c-calma. G-guarda d-dove siamo».

Il bosco aveva progressivamente lasciato posto a ciò che non mi sarei mai e poi mai aspettata di vedere, in vita mia. Non erano bastati gli snebbiamenti di Villa Gregoriana e di Villa Adriana, nessuna domus di Manlio Vopisco, nessun tempio di Vesta, nessun Palazzo Imperiale avrebbe mai potuto prepararmi a quello.

«Ecco a voi l'Anfiteatro Flavio. Ne avrete sentito parlare» ridacchiò Hans, indicando la mastodontica costruzione, perfettamente intatta e brulicante di luci e di gente, con un ampio gesto della mano.

L'Anfiteatro Flavio.

«Daniel» dissi, guardando Uriel, che era rimasto a bocca aperta. «Questo è il Colosseo».

Voi non pensavate davvero che io mi lasciassi sfuggire l'occasione di sfruttare questa cafonata supertrash del Colosseo, vero? *_* che cosa ci sono stati portati a fare, comunque?

Tra l'altro mi sono resa conto di una cosa: nel primo capitolo, quello delle mappe, c'è tipo un mega spoiler al riguardo... infatti in tutta la parte inferiore della mappa del Foro si vedono le domus Flavia, Augustana e Severiana perfettamente intatte con addirittura la statua di Augusto. Questo dettaglio, in particolare, me lo sono inventato di sana pianta perché mi piaceva l'idea di questi matti col botto esaltatissimi con la statua del loro idolo (ricordiamoci che i Reazionari sono ciò che resta dell'ordine degli Augustali). Però devo dire che la ragazza bravissima che mi ha disegnato le mappe, di sua iniziativa, l'ha ridimensionata.

Infatti io, con le mie mirabolanti doti artistiche, per farle capire come e dove disegnarla, le avevo inviato questo:

Ahahahahahahah verrebbe da chiedersi perché, con questa mano che ho, non me le sia disegnate da sola le mappe, vero? Ma state guardando il mantello? La perfezione dei drappeggi?

Baci baci

AppleAnia

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