3.21 • INFRACTUS

Non mi risultava che ci fosse qualcun altro, oltre al magistrato, ad avere facoltà di rimuovere i brachialia dai polsi di un genio. E, comunque, se anche mi avessero detto che c'era qualcuno in grado di farlo illegalmente, mai sarei andata a pensare proprio a lui.

«Mario?» domandai, sconvolta, quando varcò la soglia della porta d'ingresso di casa di Kirk.

«Ciao, piccola» mi disse l'anziano bidello, chinandosi su di me per darmi un paio di colpetti sulla testa.

Poi era entrato, si era seduto sul divano e si era fatto servire dello scotch. Sorseggiandolo lentamente, aveva aperto la valigia con cui era entrato e aveva cominciato a estrane vari strumenti di tortura, sistemandoli ordinatamente sul tavolino basso.

«Deve rimuovermi i brachialia o i calcoli renali?» domandai a Kirk, sottovoce, quando Mario estrasse una lama simile a un bisturi.

«Lascialo fare» rispose.

Però non mi sentivo tranquilla lo stesso. Non perché non mi fidassi di Mario... cioè, anche per quello. Mario era gentile e adorabile ma... insomma, era Mario. Era Mario anche da sobrio, figuriamoci con il whisky in mano.

«Sono pronto» disse, vuotando il bicchiere. «Vieni».

«Vado?» chiesi a Kirk, mentre anche mia madre si affacciava sulla porta.

«Vai» sorrise lui. «Non ti preoccupare».

Raggiunsi il divano, mi inginocchiai davanti a Mario e gli porsi i polsi.

«Puoi anche non guardare» disse lui, come se fosse un professionale infermiere in procinto di farmi un prelievo e non un vecchio bidello concentrato nell'atto di affilare un attrezzo simile a uno schiaccianoci gigante.

«Ok, mi hai convinta» risposi, voltandomi verso Kirk.

«Mario è un faber» disse, venendo a inginocchiarsi accanto a me. «Ha rimosso i brachialia anche a me, quando sono evaso».

«Davvero? E tu come hai fatto a evadere con i brachialia?» domandai, vedendo con la coda dell'occhio qualcosa di incandescente tra le mani del bidello.

«Gli Umani possono cercare di inibire solo i poteri di cui sono a conoscenza» disse, strizzandomi appena l'occhio.

«Ho rimosso i brachialia anche ad Alastor in persona» disse Mario, esercitando una pressione sulle mie braccia su cui non ebbi fegato di indagare.

«Ad Alastor?» domandai. «E perché Alastor portava i brachialia

«Infatti» mi fece eco mia madre, che stava seguendo la procedura dall'altra parte della stanza. «Non mi risulta che li abbia mai indossati».

«Invece l'ha fatto» rispose Kirk. «Gli erano stati applicati nel 2001».

«E perché mai?» domandò mia madre.

Il 2001. Un anno prima dello spegnimento del Fuoco e della morte di Elissa.

«Aveva fatto un tentativo» disse Kirk, rispondendo a lei ma guardando me. «Un tentativo pacifico di mettere tutti d'accordo facendo però valere i diritti dei geni».

«È vero, Arianna» convenne Mario, prima che mia madre potesse aprire bocca. «E l'Impero, invece di ringraziarlo, l'ha imprigionato e incatenato».

«Non ne sapevo niente» disse mia madre. «Di questo tentativo pacifico».

«Lo immagino» rispose Kirk, voltandosi a guardarla con un sorriso tenero. «Ma è così che è andata».

Mario, senza nessun preavviso, si fece strada con qualcosa di bollente nel ristrettissimo spazio tra l'alta polsiera e la mia pelle e, con un colpo secco, mandò in frantumi il brachiale di sinistra.

«Uno è andato» annunciò.

Spostai, per un solo istante, lo sguardo sul mio polso finalmente libero, la cui pelle appariva arrossata e leggermente raggrinzita. L'attimo dopo tornai a guardare verso Kirk e mi ritrovai mia madre seduta a pochi centimetri da noi.

«Enea ha creato un esercito non solo di geni ma anche di Creature degli Inferi, difficili da reclutare e, soprattutto, da controllare. Doveva essere realmente motivato per arrivare a tanto» disse lei.

«Certo, lo era» rispose Kirk. «Quando ha visto vanificati tutti i suoi tentativi di una risoluzione pacifica...»

«Lui era un soldato dell'Impero e un rastrellatore» lo interruppe mia madre.

«Lo so bene» rispose Kirk, tranquillo. «Ricordo ancora il tatuaggio con il numero della legione che aveva sul petto. Non ha mai neanche cercato di provare a farselo rimuovere».

«Kirk» gli disse mia madre, serissima in volto, mentre Mario aveva aggredito il mio brachiale di destra. «Lui ha cambiato idea da un giorno all'altro. Un giorno soldato dell'Impero, il giorno dopo a capo della Setta. Tu... sai cosa è successo nel mezzo?»

Nella sala calò il silenzio e Mario ne approfittò per iniziare a canticchiare sommessamente, alternando strofe ingloriosamente solfeggiate a motivetti indecorosamente fischiettati.

«Nun t'arepperizzicà...» intonò, socchiudendo gli occhi, come se non stesse trafficando con arnesi potenzialmente in grado di recidermi qualche arteria.

«Certo che lo so» rispose Kirk..

«Puoi... puoi dirmelo?» tentò mia madre.

«Nun t'arepperizzicà... nun t'arepperizzicà che t'arettummuliiiii!»

«Solo se sei sicura di volerlo sapere».

«Sono sicura».

Kirk mi lanciò un'occhiata indecifrabile, poi si alzò in piedi e si accese una sigaretta.

«Aveva scoperto che fine facevano alcuni dei bambini geni da lui rastrellati» disse. «La maggior parte venivano effettivamente adottati o arruolati nell'esercito, ma altri... prendevano un'altra direzione, diciamo».

«Quale direzione?» domandò lei.

«Co'lla còlla e co'llu stuccu...»

«La peggiore in assoluto» rispose, espirando il fumo. «Venivano venduti ai Reazionari».

«...se cogghiona lu mammaluccu!»

«Corna di Bacco, Mario!» lo esortai, proprio mentre anche il secondo brachiale finiva in frantumi.

«Fatto» disse. «Ti ho fatto male?»

«No, per niente» ammisi, carezzandomi quella porzione di pelle a cui, per intere settimane, non avevo più avuto accesso. «Anzi, grazie».

«Figurati» rispose lui, iniziando a riporre i suoi attrezzi di morte. Poi si rivolse a mia madre: «Dice la verità, Arianna».

«Genevieve...» disse mia madre, alzandosi in piedi a sua volta, «mi parlava di una possibilità del genere, riguardo la lamia uccisa da Melania».

«Sì, esatto» confermò Kirk. «Abbiamo il sospetto che ce ne siano altre. La nostra teoria è che una parte dei geni rastrellati e finiti in mano loro siano stati rinchiusi e fatti impazzire appositamente per generare delle lamie che, opportunamente contenute con i brachialia, possano diventare macchine di distruzione sotto il loro comando».

«E l'altra parte?» domandai.

«Non lo sappiamo con esattezza» sussurrò. «Ma Genevieve crede che il tuo compagno di classe, quel Pierre, possa essere un Infractus, un genio corrotto di seconda generazione e che serva volontariamente i Reazionari. Per questo vuole provare a farlo parlare».

«Non può» lo contraddissi. «Anche se fosse davvero come dice la Clement, i Reazionari Magi incantano ogni loro nuovo accolito per fare in modo che non sia in grado di rivelare informazioni compromettenti, compresa la posizione della loro sede».

«Come lo sai?» mi chiese mia madre.

Come lo sapevo? Lo sapevo perché me lo aveva detto Rei, ma non avrei mai potuto rivelarlo senza calunniarlo.

«Beh ma ha ragione, è come dice lei» intervenne Mario.

«Un Incantamentum può sempre essere rimosso» concluse mia madre, stizzita.

«Non quelli così potenti» la contraddisse Mario.

Flacara, che aveva appena varcato la soglia con il vestito a corolla ancora indosso, ci raggiunse vicino al divano, facendo tintinnare ad ogni passo tutti i pendenti dorati della coroncina che aveva tra i lunghi capelli sciolti. Poi, guardandoci sorridente, chiese:

«Vogliamo provarci?»

«Quindi è questo il motivo per cui ti hanno levato il cappello e cacciato dall'ordine degli Aruspici, Mario?» domandai, mentre camminavamo tutti insieme in direzione della lunga fila di cellette in cui erano stati rinchiusi i geni la cui posizione non fosse chiara.

«Sì» rispose, tirando su con il naso. «Sono stato accusato di essere un collaborazionista di Alastor».

«Ed era vero? O sei stato in qualche modo costretto a...»

«Non sono stato costretto a fare niente!» esclamò. «Enea non era uno che costringeva. Lui era un... un caro ragazzo».

Estrasse il suo fazzoletto ingiallito dalla tasca dei pantaloni grigi in fresco lana troppo larghi e ci si tamponò gli occhi.

«Lo so cosa stai pensando» mi disse. «Che lui ha ucciso e rastrellato. Ma lui pensava di fare bene, era stato indottrinato. Poi gli è sfuggita di mano, ecco».

«Lo so, Mario» risposi, colta alla sprovvista da quella inaspettata manifestazione d'affetto nei confronti di mio zio. «Non serve che ti giustifichi. Sono un Vendicatore anch'io, figurati se non capisco come possa essersi sentito».

«Io sono un Umano» disse ancora Mario. «Ma mia madre era un genio, santa donna. E mia sorella minore anche».

«Sono morte?» domandai, sorpresa.

«Mia mamma sì, tanti anni fa» rispose, «mia sorella l'hanno rastrellata da bambina e non abbiamo mai più saputo niente di lei».

Era assurdo. La vastità del danno che l'Impero, con le sue leggi insensate e ingiuste, aveva arrecato era inimmaginabile.

«Ma non è solo perché è una cosa personale, eh» si affrettò ad aggiungere Mario. «Io ci credo veramente nella causa dei geni».

«Grazie» gli risposi, poggiandogli una mano sul braccio. «Anche io».

«Siamo arrivati» annunciò Kirk.

Attraversando in lungo e in largo il sotterraneo della Setta semideserto, avevamo raggiunto uno stretto corridoio poco illuminato sorvegliato a vista da due soldati in uniforme nera che, non appena ci videro, si scansarono per lasciarci passare.

Le cellette erano scavate nella roccia e chiuse anteriormente da spesse sbarre di ferro. Erano solo tre o quattro quelle occupate e noi ci dirigemmo senza indugio verso quella di Pierre.

«Ania» disse lui, alzandosi in piedi, quando si accorse di noi.

Era accasciato con la schiena contro il muro e sembrava che lo avessimo svegliato.

«Ania, che ci fai con questa gente?» domandò.

Nonostante fosse indiscutibilmente carino, con quei morbidi boccoli castani e i suoi enormi occhi neri, e dimostrasse molti meno anni dei diciannove che aveva, riusciva a risultare antipatico persino in una situazione del genere.

«Questa gente è la tua gente» gli risposi, mentre Kirk apriva la gabbia con la chiave e Viktor, la Clement e Flacara entravano nella cella.

«Vieni?» mi domandò Kirk, entrando a sua volta. «Così richiudo il cancello».

Io, però, ero rimasta pietrificata al fianco di Mario. Non era importante quante volte ancora mi ripetessero che non c'era nulla di cui aver paura. Quella sensazione di freddo continuava a penetrarmi la carne e ad avvilupparmi le ossa, soprattutto quando la percepivo alle spalle e d'improvviso, come in quel momento.

«P-Poena, v-vieni qua».

Il cane lemure trotterellò al mio fianco. La vidi con la coda dell'occhio, senza avere il coraggio di voltarmi a guardarla.

«C-ciao» disse Agenore, comparendo accanto a lei. «S-scusate il ritardo. A-ania, hai ancora p-paura di P-Poena

«Venite dentro» ci esortò Kirk.

E così entrammo e Kirk richiuse il cancello alle nostre spalle, mentre Pierre indietreggiava fino a toccare il muro con la schiena.

«Che cosa volete?» domandò.

«Chi sono i tuoi genitori?» gli chiese la Clement.

«Non li conosce» rispose lui, sulla difensiva. «Sono francesi».

«Anche io sono francese» insistette lei.

«Non li conosce comunque».

«S-se non li conosciamo c'è s-sicuramente qualcosa di s-strano» disse Agenore.

Tutti i geni hanno o hanno avuto qualcosa a che fare con quella gente, mi aveva detto mio padre una volta, sull'acropoli, riferendosi ai geni della Setta. Il ragionamento di Agenore, dunque, era corretto. Una famiglia di geni completamente slegata dalla fitta rete della Setta destava come minimo qualche sospetto.

Pierre, però, invece di rispondere a tono come faceva sempre, si voltò verso Agenore e gli scoppiò a ridere in faccia.

«A-ascoltate il ritardato ba-balbuziente» disse, rivolgendosi a noialtri, «lui si che la sa lunga!»

Agenore non rispose ma, anzi, si ammutolì e abbassò lo sguardo.

«Risveglia l'orgoglio di genio che c'è in te, artigli del flagello» gli disse Viktor. «E schierati con noi».

«Ma non ci penso neanche» rispose. «Preferirei morire, piuttosto».

«Che, infatti, è quello che accadrà se non collabori» ringhiò Viktor.

«Adesso basta» tuonò Kirk. «Non c'è tempo per questi teatrini. Rimuoveremo l'incantamentum che ti impedisce di rivelare la posizione della sede dei Reazionari. Poi potrai decidere se collaborare con noi o se preferisci che Viktor penetri nella tua mente per scoprirlo da solo».

«Ma falla finita» rispose Pierre. «Non sai neanche di cosa stai parlando».

Prima ancora che chiunque tra noi potesse anche solo capire cosa stesse accadendo, Kirk sfoderò le zanne e si avventò su di lui, colpendolo al torace e alle braccia che, troppo tardi, aveva incrociato davanti al petto nel tentativo di ripararsi. Il suo sangue schizzò con violenza su tutti noi, sulle pareti, sul pavimento e fin sul soffitto di pietra di cella.

«Che cazzo!» urlò Pierre, cadendo sulle ginocchia a mollo nel suo stesso sangue.

Kirk lo raggiunse con un passo calpestando il sangue, lo afferrò per un braccio e glielo girò dietro la schiena, facendolo urlare di dolore. Non lo avevo mai visto così arrabbiato. Non gli avevo mai visto le zanne e mai e poi mai avrei pensato che avrebbe potuto sfoderarle contro un altro genio.

«Flacara» dissi alla mia amica. «Tocca a te».

«Che cazzo vuole questa zingara?» urlò Pierre, tentando senza successo di sottrarsi alla presa di Kirk.

Flacara lo osservò per qualche secondo poi, proprio come aveva fatto Ionuț con me, gli staccò un capello.

«Oh, eccolo qui» disse, sorridente.

«Che cazzo stai facendo?» gemette Pierre, mentre Flacara, con gli occhi chiusi, aveva cominciato a recitare una formula in lingua țigana.

A differenza di tutti gli altri, io sapevo già cosa aspettarmi da quel rituale. Infatti, dopo qualche attimo, il capello iniziò a dimenarsi, vibrò e si incendiò, lasciando sulla mano di Flacara nient'altro che qualche minuscolo granello di cenere.

«L'incantamentum è rimosso» disse lei.

«Viktor» ordinò Kirk.

Non se lo fece ripetere. Né le zanne di Kirk, né la mossa con cui gli aveva spezzato il braccio e neanche la vista di tutto quel sangue furono, per me, tanto disturbanti. La mente di Pierre si piegò e cedette senza poter opporre nessuna resistenza alla furia di Viktor, inerme come una vergine stuprata da un uomo.

«È molto brutto da vedere» mi sussurrò la Clement, costretta a parlarmi nell'orecchio per essere udibile sopra le urla di Pierre. «Ma è necessario».

«Lo so» risposi, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal mio compagno che, gridando e piangendo, in preda a un qualche istinto autodistruttivo, si stava strappando via i capelli dalla testa.

«Al Foro» disse Viktor, dopo qualche secondo, e Pierre cadde a terra svenuto.

Dunque dunque, qui c'è da fare una precisazione sul personaggio che spunta sempre fuori quando meno ce lo aspettiamo: Mario il bidello.
Mario il bidello, nella mia idea originale, non doveva limitarsi a parlare male ma doveva parlare in tiburtino. Ho cambiato poi idea in corso d'opera perché gestire un personaggio che si esprime solo in dialetto mi è sembrato troppo complicato per vari motivi:
- il dialetto è una lingua parlata e non credo di essere in grado di trascriverla (oltre al fatto che le trascrizioni con tutti gli apostrofi ecc non mi fanno impazzire).
- come si può notare da quel paio di frasi presenti in questo capitolo (sono modi di dire, non è davvero una canzone) se Mario parlasse davvero in tiburtino stretto avreste bisogno dei sottotitoli per capirlo. Perché il tiburtino è un dialetto pieno di U e di suoni gutturali che suona forse più simile al sardo che non al romanesco.
Però, magari in fase di revisione finale,  mi piacerebbe ripristinare questa sua caratterizzazione originaria ç_ç
Potrei fare come fa la Ferrante quando i suoi personaggi partano in napoletano: utilizza un italiano più semplice e meno ricercato e inserisce magari una sola parola in dialetto per frase in modo che il periodo sia comunque comprensibile. Vabbè che noia questo freetalk, pure Mario si è abbottato D:

Ciao D:
Baci baci D:

AppleAnia

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